Il 25 settembre scorso avrebbe compiuto cento anni uno dei registi cinematografici italiani più amati del secondo dopoguerra, le cui commedie di costume hanno rappresentato (e rappresentano ancora) una corrosiva ed efficacissima satira dei vizi nazionali.
Parliamo di Luciano Salce, al quale, per l’occasione, il Festival del Cinema di Porretta Terme – in programma nella località dell’appennino tosco-emiliano dal 3 al 10 dicembre – dedica un’accurata retrospettiva.
Una carriera, quella del cineasta romano scomparso nel 1989, improntata all’assoluta poliedricità: drammaturgo, attore e regista di cinema e teatro, sceneggiatore, conduttore radiofonico e televisivo. Non può di certo dirsi che Luciano Salce si sia risparmiato in quel mondo dello spettacolo che lo ha visto assoluto protagonista per più di quarant’anni.
Un percorso artistico, il suo, che inizia immediatamente dopo il secondo conflitto mondiale e che, idealmente, rappresenta la parentesi di chiusura di una gioventù difficile, segnata dapprima dalla morte della giovane madre – scomparsa quando il piccolo Luciano era ancora in fasce -, e quindi dalla deportazione nel campo di lavoro nazista di Moosburg, in Germania, dove l’artista rimarrà per due anni, dal 1943 al 1945, riportando segni indelebili anche nel corpo.
Dall’esordio brasiliano a quello italiano: da Uma pulga na balança a Le pillole di Ercole
L’esordio di Salce nel mondo del cinema risale al 1946, allorquando interpreta il ruolo di un ufficiale statunitense nel film Un americano in vacanza (1946) di Luigi Zampa, tribolata storia d’amore tra il soldato Dick (Leo Dale) e la giovane maestra Maria (Valentina Cortese).
Occorrerà però attendere il 1953 per vedere il regista romano passare dietro la macchina da presa. È in quell’anno, infatti, che il cineasta gira il suo primo lungometraggio dal titolo Uma pulga na balança (1953), spassosa commedia di produzione brasiliana che ha per protagonista lo sfaccendato Dorival (Waldemar Wey), il quale, dopo essersi fatto volontariamente arrestare, escogita uno stratagemma per estorcere denaro alle famiglie facoltose di persone da poco decedute.
Fondata sull’ipocrisia del “purché non si sappia in giro”, la pellicola – realizzata in Brasile in occasione del lungo soggiorno lavorativo di Salce nel Paese sudamericano – rappresenta una efficace e pungente satira di costume che, mettendo alla berlina i comportamenti di facciata della società borghese e benpensante, rivela in nuce lo stile corrosivo e irriverente di un giovane autore che ben presto si farà conoscere anche dal pubblico nostrano.
Infatti, dopo un secondo film “brasiliano” dal titolo Floradas na serra (1954), dramma sentimentale tratto dall’omonimo romanzo di Dinah Silveira de Queiroz e imperniato sulla figura della tubercolotica Lucilia (Cacilda Becker), per il vulcanico regista arriva il momento dell’esordio italiano con Le pillole di Ercole (1960), divertente farsa giocata tra inganni e tradimenti amorosi che vede Nino Manfredi come protagonista.
Il successo di Luciano Salce con Il federale
Sarà però il film successivo a conferire a Luciano Salce il riconoscimento generale di cineasta di spessore. Ci riferiamo a Il federale (1961), dolceamaro racconto in cui, nel maggio 1944, sullo sfondo di una Roma prossima alla liberazione, si incrociano i destini del maldestro e zelante graduato della milizia fascista Primo Arcovazzi (Ugo Tognazzi) e del professore antifascista Erminio Bonafè (Georges Wilson). Il primo, con la promessa d’essere nominato federale, ha il compito di catturare e riportare nella capitale il secondo, prelevandolo col proprio sidecar dal paesino dell’Abruzzo dove si è rifugiato. Lungo la strada del ritorno, però, l’improvviso sviluppo degli eventi cambierà di molto le carte in tavola.
Mettendo in scena un road-movie dalle venature grottesche, Luciano Salce realizza una tragicomica satira del fascismo dai toni pacificatori che, puntando sulle dinamiche del rapporto tra i due protagonisti (destinate via via ad ammorbidirsi), sembra voler dare risalto a quell’esigenza di riconciliazione necessaria a (ri)costruire, dopo anni bui e dolorosi, un futuro sereno per l’Italia e la sua gente.
La pellicola segna l’esordio del grande Ennio Morricone come autore di colonne sonore cinematografiche e ottiene un grande successo di pubblico anche grazie alla prova di Ugo Tognazzi, il quale, smarcandosi dai ruoli leggeri sino ad allora interpretati, riesce a dare il giusto spessore al suo strampalato, ma in fondo umanissimo, Arcovazzi.
Tutto ciò fa considerare ancora oggi Il federale uno dei titoli più importanti della classica commedia all’italiana.
La voglia matta: un confronto tra generazioni
Il successo de Il federale viene bissato l’anno seguente dal nuovo lungometraggio del regista romano dal titolo La voglia matta (1962), racconto comico-grottesco che vede come protagonista il trentanovenne ingegnere Antonio Berlinghieri (Ugo Tognazzi), il quale, invaghitosi della sedicenne Francesca (Catherine Spaak), si pone al seguito di lei e dei suoi amici finendo per venire da questi sbeffeggiato.
Salce mette in scena un amaro confronto generazionale, in cui i padri e figli dell’Italia degli anni ‘60 paiono avere poco o nulla da condividere. Per il regista romano, infatti, quello stesso boom economico che ha arricchito i primi sembra aver svuotato, con le sue istanze puramente consumistiche, i secondi, abbandonati a una visione superficiale, edonista e irresponsabile della vita.
È un incontro/scontro tra culture opposte – in realtà alimentate dallo stesso cinismo di fondo – che vede il deciso rifiuto da parte dei più giovani della visione tradizionalista degli adulti come Antonio/Tognazzi, ancora legati a un paternalismo obsoleto e a un becero maschilismo (“Mai mettere la donna sul piano sentimentale. Sempre sul piano orizzontale!”). Ma è soprattutto l’aver vissuto l’esperienza del fascismo e della guerra a costituire una differenza decisiva: il ricco ingegnere porta ancora con sé il fantasma di un nemico ucciso, mentre Francesca/Spaak e i suoi amici hanno poche, confuse idee sulla storia recente (“Mussolini chi? Il padre del pianista?”).
E così le distanze diventano incolmabili, le fratture si fanno insanabili. E all’illuso protagonista non resta altro che mettere (forse) definitivamente da parte ogni slancio giovanilistico, prendendo atto del tempo che passa e dell’inesorabile cambio di paradigma socio-culturale.
La satira sociale de La cuccagna e Le ore dell’amore
Una critica ancor più dura alle asimmetrie e alle illusioni create dal boom economico e dal consumismo dilagante viene da Luciano Salce col suo quinto film dal titolo La cuccagna (1962), commedia agrodolce con cui il regista, ponendo il suo sguardo tagliente sul mito del denaro, sul predominio dell’apparenza e sul diffuso vuoto valoriale, imbastisce un racconto che assume i contorni di un atto di ribellione.
È la storia della giovane Rossella (Donatella Turri), la quale, in cerca di un lavoro e di un futuro lontano dalla famiglia opprimente, finisce per incontrare una serie di personaggi avidi e senza scrupoli che la vogliono sfruttare. Non le sarà di conforto la storia d’amore con l’insoddisfatto Giuliano (Luigi Tenco), con cui, anzi, la ragazza arriverà a pensare ad una soluzione estrema.
Un altro interessante e caustico spaccato di vita borghese è rappresentato dalla pellicola dal titolo Le ore dell’amore (1963), in cui Salce analizza con ironia le dinamiche soffocanti della vita matrimoniale attraverso la storia di Gianni (Ugo Tognazzi) e Maretta (Emmanuelle Riva), i quali, dopo essersi sposati, entrano in una profonda crisi che si risolverà soltanto quando i due torneranno a vivere come semplici fidanzati.
Il film più scomodo di Salce: Colpo di Stato
Dopo una serie di lungometraggi girati intorno alla metà degli anni Sessanta, tra cui si segnala El Greco (1965), biografia del grande pittore spagnolo vissuto tra il ‘500 e il ‘600, Salce torna a farsi notare nel 1969, nel pieno della contestazione studentesca, con Colpo di Stato. Si tratta di una satira fantapolitica che vede un computer del Ministero dell’Interno assegnare la vittoria alle elezioni politiche italiane del 1972 al Partito Comunista. Un risultato, questo, che scatena reazioni inconsulte e che finisce per essere rifiutato da tutti, comunisti in primis.
Giocato sulla assoluta libertà espressiva e sulla commistione di generi che, spaziando dalla cronaca giornalistica al surrealismo, finisce per giungere dalle parti dell’opera lirica e della tragedia greca, il film è un divertito, vorticante racconto che, pur non riuscendo ad evitare un certo qualunquismo, mette efficacemente alla berlina i vizi e le storture dell’intera classe politica italiana e dell’apparato di potere che la sorregge.
Una caratteristica, questa, di non poco conto, che fa di Colpo di Stato il film forse più scomodo di Luciano Salce. Tanto scomodo quanto evanescente, se è vero che nel corso degli anni il lungometraggio gode di una scarsissima visibilità, relegato ingiustamente e inspiegabilmente in un cono d’ombra da cui solo di rado riesce a venir fuori.
L’incontro tra Luciano Salce e Alberto Sordi: Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue
Nello stesso 1969 il regista romano realizza Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue, sequel de Il medico della mutua (1968) realizzato l’anno precedente da Luigi Zampa.
Vi si narrano le vicende del medico che dà il titolo al film, il quale, fatta carriera grazie alle sue capacità intrallazzatorie, si ritrova ad essere primario di una clinica privata che gestisce cinicamente, essendo disposto, pur di arricchirsi, a giocare con la salute dei suoi pazienti.
L’avidità, la sete di denaro, l’egoismo sfrenato: Luciano Salce torna a fustigare i costumi dell’italiano medio attraverso una commedia dai toni farseschi che mette in luce i meccanismi contorti legati al sistema sanitario italiano. Lo stile, come di consueto per l’autore, è diretto, graffiante, a tratti feroce.
Alberto Sordi – qui nell’unica collaborazione con Salce – si trova completamente a suo agio nei panni del protagonista e offre una delle prove d’attore più brillanti della sua carriera.
Ne beneficia l’intera pellicola, la quale, impreziosita dalle marce di Piero Piccioni, riscuote un notevole successo di pubblico che fa de Il prof. dott. Guido Tersilli primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue uno dei titoli cult della commedia all’italiana.
L’omaggio al mondo dell’avanspettacolo: Basta guardarla
L’inizio degli anni Settanta rappresenta per il regista romano un momento di grande intensificazione degli impegni televisivi e radiofonici che lo vedono protagonista di programmi di grande successo come Senza rete e Formula uno.
Ciò tuttavia non gli impedisce di girare altri lungometraggi, tra cui si segnala Basta guardarla (1970), sincero omaggio al mondo dell’avanspettacolo raccontato attraverso la storia di Richetta (Maria Grazia Buccella), ingenua contadinella che, dopo aver assistito ad una esibizione della compagnia di cui fanno parte il capocomico Silver Boy (Carlo Giuffré) e Marisa Do Sol (Mariangela Melato), decide di unirsi a questa spacciandosi per ballerina e facendosi chiamare Erika. Innamoratasi dello stesso Silver Boy, Richetta/Erika deve subire le gelosie e le ripicche di Marisa. Ma l’amore è destinato a trionfare comunque in una pellicola che vede l’indimenticabile Mariangela Melato impegnata in uno dei suoi primi ruoli importanti sul grande schermo.
La definitiva consacrazione di Luciano Salce con Fantozzi
Il 1975 rappresenta l’anno della definitiva consacrazione di Luciano Salce. È allora, infatti, che esce nelle sale il suo Fantozzi, tragicomico racconto delle vicende lavorative e familiari del ragionier Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio), alle prese con soprusi e prepotenze di ogni genere.
Tratto dall’omonimo romanzo dello stesso Villaggio (che da Salce era stato già diretto nel 1974 nell’edipico Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno), il film non è soltanto un iperbolico insieme di esilaranti, geniali sketch, ma costituisce una profonda e feroce satira sociale che mette a nudo i tic e i difetti dell’italiano medio, incarnato non soltanto dal goffo protagonista, ma da tutta la serie di personaggi di varia (e profonda) umanità che gli sfilano affianco. La moglie Pina (Liù Bosisio), la figlia Mariangela (Plinio Fernando), la signorina Silvani (Anna Mazzamauro), il geometra Filini (Gigi Reder), il geometra Calboni (Giuseppe Anatrelli). Non semplici macchiette ma veri e propri archetipi; un po’ cialtroni, un po’ disperati, tutti inesorabilmente perdenti, sottomessi, ingabbiati in una vita grigia. Ma proprio per questo autentici. Così intimamente aderenti alla realtà da portare lo spettatore a riconoscersi e a ridere di sé e del proprio mondo.
Una sorta di piccola catarsi, dunque. O quantomeno un processo di immedesimazione che è il motivo stesso del grande successo della pellicola. Un successo che rende persino inevitabile, l’anno successivo, la realizzazione di un nuovo capitolo dal titolo Il secondo tragico Fantozzi (1976), anch’esso diretto da Salce e tratto dall’omonimo romanzo di Villaggio.
Non è che l’inizio di una lunga saga che andrà complessivamente a comporsi di ben nove film e che trasformerà l’universo fantozziano in un autentico fenomeno di massa ormai definitivamente entrato a far parte dell’immaginario collettivo.
Da L’anatra all’arancia a Vieni avanti cretino
Sempre nel 1975 il regista romano realizza L’anatra all’arancia, commedia tratta dall’omonima opera teatrale di William Douglas-Home e Marc-Gilbert Sauvajon, i cui protagonisti Livio (Ugo Tognazzi) e Lisa (Monica Vitti), agiata coppia in crisi, decidono, prima di separarsi definitivamente, di trascorrere un ultimo fine settimana nella propria villa al mare insieme ai rispettivi amanti, Patty (Barbara Bouchet) e Jean-Claude (John Richardson). Per i due coniugi sarà l’occasione giusta per scatenare le reciproche gelosie. Così come sarà l’occasione giusta per la coppia Tognazzi/Vitti di dar vita ad un duetto/duello vivace e divertente che è senz’altro l’elemento più caratterizzante e piacevole del film.
Dopo aver perlopiù dedicato la seconda metà degli anni Settanta e l’immediato inizio degli anni Ottanta alla prosecuzione della collaborazione artistica con Paolo Villaggio (da cui scaturiranno altre quattro pellicole che tuttavia non rinnoveranno i fasti fantozziani), nel 1982 per Luciano Salce giunge il momento di confrontarsi con la comicità spumeggiante di Lino Banfi.
È così che nasce Vieni avanti cretino, racconto delle (dis)avventure dell’ex galeotto Pasquale Baudaffi (Lino Banfi), alla spasmodica ricerca di un lavoro serio e onesto, e nuovo omaggio, dopo Basta guardarla, a quel mondo dell’avanspettacolo da cui Salce mutua persino il titolo, preso in prestito da un famoso tormentone dei fratelli De Rege.
Il film è un insieme di spassose gag e battute animate dalla verve dell’attore pugliese che qui dà sfoggio di tutto il suo iconico repertorio comico. È ciò che consente a Vieni avanti cretino di ottenere un grande successo al botteghino e, soprattutto, di venire considerato ancora oggi come un vero e proprio cult movie.
Gli ultimi film di Luciano Salce: Vediamoci chiaro e Quelli del casco
Nel 1984, dopo essersi ripreso da un grave problema di salute, Luciano Salce torna dietro la macchina da presa con Vediamoci chiaro, commedia imperniata sulla prova di Johnny Dorelli qui nei panni di Angelo Catuzzi, manager di una tv privata che, persa la vista in seguito ad un incidente d’auto, la riacquista improvvisamente lasciando tuttavia credere agli altri di essere ancora non vedente. L’uomo potrà in tal modo rendersi conto di tutte le falsità e ipocrisie che lo circondano.
Le sempre più precarie condizioni fisiche del regista lo costringono a diradare gli impegni artistici. È per questo che Salce torna nelle sale cinematografiche soltanto qualche anno dopo con Quelli del casco (1987), esile commedia che vede protagonista un giovane liceale, il quale, dopo essersi innamorato di una modella dal volto sconosciuto, finisce per scoprire che questa non è altri che una sua compagna di classe.
Si tratta dell’ultimo film del cineasta. L’ulteriore aggravamento dei suoi problemi di salute, infatti, lo porta alla morte il 17 dicembre 1989. Cala così il sipario su uno dei più prolifici e acuti interpreti della commedia all’italiana.
L’eredità e la modernità di Luciano Salce, un autore ancora attuale
Luciano Salce lascia in eredità la sua corrosiva, pungente ma in fondo bonaria descrizione di un Paese in costante cambiamento. Quelli del regista romano sono racconti a loro modo archetipici, tesi ad una universalità declinata in un’umanità a volte rabberciata, spesso dolente, sempre autentica. I suoi protagonisti, i loro volti, le loro storie non sono altro che lo spaccato credibile e pulsante di un quarantennale percorso di rinascita ed evoluzione. Una parabola tutta italiana che parte dal secondo dopoguerra e arriva ai confortevoli anni Ottanta.
Una parabola che continua tuttora a descrivere la sua traiettoria, e che, proprio per questo, fa di Luciano Salce un autore/artista ancora attuale e, soprattutto, moderno.
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