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In Sala

Paradiso amaro

Il nuovo film di Payne mette subito in mostra quel senso di humor cattivo e graffiante che non risparmia nulla e nessuno, non predica e diverte con intelligenza

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Anno: 2011

Distribuzione: 20th Century Fox

Durata: 115′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Usa

Regia: Alexander Payne

 

 

In attesa di scoprire quali tra le cinque candidature si tramuteranno in statuette nella tanto attesa notte del 26 febbraio al Kodak Theater di Los Angeles, il buon Alexander Payne si gode insieme al protagonista della sua ultima fatica dietro la macchina da presa, George Clooney, la doppietta ai Golden Globe per il miglior film drammatico e la migliore interpretazione maschile. Del resto, non è di certo una novità per un regista che con le pellicole precedenti qualche piccola soddisfazione agli Oscar, per sé e per gli attori dei suoi film, se l’è già tolta, oltre ad un numero abbastanza consistente di prestigiosi riconoscimenti raccolti nel circuito festivaliero internazionale e messi in rapida successione nella bacheca di casa. Per ingannare l’attesa, nel frattempo, The Descendants (in Italia con l’improbabile titolo di Paradiso amaro) approda nelle sale nostrane a partire dal 17 febbraio con la 20th Century Fox, così da permetterci di scommettere oppure no sul destino della coppia Payne-Clooney all’84esima edizione degli Oscar.

Trasposizione per il grande schermo del romanzo Eredi di un mondo sbagliato di Kaui Hart Hemmings, il nuovo film di Payne mette subito in mostra quello che, sin dall’esordio nel 1996 con Citizen Ruth, è apparso come un elemento centrale e imprescindibile del suo cinema, ossia quel senso di humor cattivo e graffiante che nel suo mordere indistintamente i vizi e le virtù della società contemporanea non risparmia nulla e nessuno, non predica e diverte con intelligenza. Senza alcun dubbio una dote insolita nel cinema politicamente corretto a stelle e strisce, una dote che evidentemente ha fatto e continua a fare breccia fra gli addetti ai lavori e il pubblico. E di questo humour Paradiso amaro ne è pervaso dal primo all’ultimo fotogramma utile, nonostante la pellicola, data la storia e i temi trattati, vada giocoforza a incanalarsi nel prolifico filone del dramma familiare. Il plot ci conduce per mano nella vita di Matt King, discendente di una facoltosa famiglia hawaiana che, quando la moglie Elizabeth entra in coma irreversibile, dopo un incidente nautico a largo di Waikiki, si ritrova a fare i conti con un passato che lo ha visto marito indifferente e padre assente. Di conseguenza, l’uomo cercherà di recuperare il rapporto con le figlie, la ribelle Alexandra e la piccola Scottie, fino all’amara scoperta che la moglie aveva un amante.

Payne ha dalla sua parte il merito di far proprio un racconto dal dna universale che lo porta ad esplorare un dolore profondo, quello di una perdita, e una serie di sentimenti che fanno parte del bagaglio esistenziale di ciascuno di noi (l’amore, il rancore, l’odio, il rimorso, il rimpianto, la sofferenza, ecc…), senza necessariamente calcare la mano sull’elemento drammatico che è alla base del soggetto. Invece, sceglie come è sua consuetudine da attento e caustico osservatore dei costumi di riflettere sulle cose e sugli eventi, sui gesti e sulle conseguenze che questi comportano. Nel farlo usa in maniera intelligente e rispettosa l’arma che gli è più congeniale, il suddetto humour che è diventato un marchio di fabbrica del suo modo di fare e concepire storie destinate al grande schermo. Cartine tornasole i personaggi che le animano dall’interno e sui quali Payne poggia gran parte del peso e delle responsabilità, attraverso impianti dialogici e azioni che restituiscono allo spettatore di turno uomini e donne con le proprie fragilità, i propri fantasmi nell’armadio, che affrontano la vita e non la osservano da lontano, mentre questa inesorabilmente si consuma davanti ai loro occhi e sulle loro epidermidi. Probabilmente è per questo carico di responsabilità riversata sui personaggi, prima che sulla storia, che nella stragrande maggioranza dei casi proprio quegli stessi personaggi (dal Jim McAllister di Election al Warren Schmidt di A proposito di Schmidt, passando per Miles Raymond di Sideways e il Matt King di Paradiso amaro) ci assomigliano così tanto e ci sembrano così vicini perché veri e reali. Questo forse il solo e unico segreto di un film che, come i precedenti di Payne, sa dove e quando infierire, dove e quando assecondare, dove e quando scegliere cosa dire o mostrare attraverso il viaggio fisico ed empatico di persone che si trovano ad affrontare una tappa esplorativa del proprio vuoto interiore.

Francesco Del Grosso         

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