Anno: 1982
Durata: 114′
Genere: Drammatico
Nazionalità: Turchia/Francia/Svizzera
Regia: Serif Gören/Yilmaz Güney
In questa rubrica si è già affrontato il tema dei registri narrativi e, in particolar modo, di come spesso prevalgano, inefficacemente, narrazioni non-realistiche anche nelle esposizioni che vorrebbero essere politiche. Esiste pure un rovescio di questa questione, ovvero la difficoltà dei registri afferenti al realismo di coniugarsi con il livello filmico (nel senso di relativo all’immagine, alla forma), cioè con quella che potrebbe definirsi l’espressione artistica. La difficoltà di raccordo tra narrazione realistica e forma artistica può essere superata e lo sappiamo da molto tempo, almeno da quando Rossellini ha girato Roma città aperta (1945). Questa conciliabilità, tuttavia, non è certamente un’acquisizione pacifica, e per rintracciarne le contraddizioni, senza arrivare ai fondatori della filosofia, è sufficiente compulsare la teorizzazione esposta da Schiller in Educazione estetica (1795), in cui si predica la necessità di liberarsi dal reale per esprimere la pura arte; ma, per fortuna, non è neppure autonoma e originale, inserendosi pienamente nella visione di Benjamin del cinema, secondo cui l’arte si dà il compito politico di modificare la realtà (L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica del 1939, pubblicato in Italia nel 1955). Il filmico del cinema realista non necessariamente difetta di poeticità, ma, spesso, essa deriva prevalentemente da una forte compartecipazione dello spettatore sul piano semantico piuttosto che da un’autonoma capacità di evocazione dell’immagine. Non è sempre così e qui se ne vuole offrire un esempio notevole.
Senza avere la pretesa di aggiungere nulla al dibattito teorico, prendiamo in esame un film emblematico per la sua capacità di esprimere un fortissimo senso politico attraverso un linguaggio filmico di grande impatto. Si tratta di Yol (1982), in italiano La strada, diretto da Serif Gören per conto di Yilmaz Güney (nome d’arte per Yilmaz Pütün). Yilmaz Güney era un regista di origine curda che durante le riprese del film si trovava in carcere, accusato dell’uccisione di un giudice, e Serif Gören era il suo assistente, che ha girato il film sulla base delle sue indicazioni. Yol è la storia di alcuni prigionieri curdi che vengono rilasciati dal carcere per una licenza e ritornano dalle loro famiglie. Qui dovranno fare i conti con una violenza non meno crudele di quella del regime turco, ovvero l’oppressione della tradizione. I protagonisti sono rappresentati al centro di una morsa che non lascia vie d’uscita, ogni uomo sembra prigioniero del proprio destino. E se contro il dominio della violenza dello stato si riesce a concepire la risposta della resistenza fisica, contro l’oppressione delle tradizioni oscurantiste non si giunge a escogitare nessuna alternativa.
Yilmaz Güney e Serif Gören
È quanto accade a Seyit Ali che deve uccidere sua moglie per preservare il suo onore, e per questo la sottomette al “giudizio di Dio”. Quando in una landa innevata percuoterà la donna, e non per ucciderla, ma per salvarla dal gelo, tutti i nuclei semantici convergono nell’immagine. C’è l’essere umano che riprende in mano la sua vita, prova a mutarne l’esito che altre forze sociali hanno deciso per lui. Un disperato tentativo di tornare/diventare uomo, libero. È una ribellione politica, ma anche un atto d’amore. Immagini in cui la natura diventa protagonista insieme agli uomini e partecipe del loro destino. Niente che sia didascalico può aderire a quei fotogrammi perché essi hanno l’ambizione di affrontare nessi non comprensibili dalla sola ragione, a cui non è possibile replicare con soluzioni da impartire all’uomo, ma solo interrogandolo sulla sua essenza. E d’altro canto quella narrazione visiva perderebbe quasi del tutto il suo potere evocativo, il suo fascino formale se privata del piano semantico su cui insiste. Lo spettatore è solo difronte a quelle tensioni. E deve trovare in sé le risposte.
Pasquale D’Aiello