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Hirokazu Kore-eda, le molteplici forme dei legami familiari

Scopriamo insieme i temi e lo stile di un regista tra i più importanti del cinema giapponese del nuovo millennio

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Hirokazu Kore-eda, classe 1962, è una delle voci più interessanti del cinema giapponese degli ultimi vent’anni. Regista, sceneggiatore e montatore dei suoi film, Kore-eda nasce come documentarista per poi farsi subito notare alla Mostra del Cinema di Venezia del 1995 con l’opera prima Maborosi (Maborosi no Hikari) che vince un premio Osella come miglior fotografia. Con After Life (Wandafuru raifu, 1998) si aggiudica il premio alla sceneggiatura al Torino Film Festival di quell’anno e inizia ad affermarsi come un autore che suscita interesse e attenzione nel mondo, restando però relegato sempre nell’ambito festivaliero.

Perché sia riconosciuto anche dal grande pubblico (oltre che da una nutrita e crescente folla di estimatori e cinefili a livello internazionale), si deve aspettare il successo al Festival di Cannes del 2013 dove Father and Son (Soshite Chichi Nitaru) si aggiudica il Premio della Giuria e viene distribuito nelle sale cinematografiche italiane.

I primi film di Hirokazu Kore-eda tra perdita e solitudini: Maborosi e Nessuno lo sa

Kore-eda ha un occhio sensibile alle dinamiche familiari, soprattutto ai rapporti filiali. Spesso i suoi film danno grande importanza ai temi della crescita e della salvaguardia dell’infanzia con storie di (stra)ordinaria quotidianità, vissute dal punto di vista dei bambini. Il rapporto con la vita e la morte, la perdita di un padre, un fratello, una madre, un familiare, sono al centro del suo interesse. Un cinema più che filosofico, una miscela tra l’analisi sociale e l’afflato poetico, dove i contenuti affrontati si sostanziano attraverso un’elegante forma cinematografica.

Prendiamo, ad esempio, l’opera prima di finzione, Maborosi, dove la giovane protagonista viene prima rappresentata, in un prologo, quando bambina non avrà la forza di bloccare la vecchia nonna che fugge da casa scomparendo per sempre. Poi, in una prima parte, giovane neomamma e sposa, che vive di poco nella periferia di Osaka, in una felicità brutalmente interrotta dal suicidio inspiegabile del marito. E, infine, una seconda parte, la più lunga, mentre si trasferisce in un villaggio costiero con il figlio ormai cresciuto, per vivere con il secondo marito e la sua giovane figlia.

Se da un lato Kore-eda utilizza un occhio quasi documentaristico e il tema della morte è presente (debitore alla sua produzione precedente che tratta di malati di AIDS, di suicidi, di morti), dall’altro, la messa in scena è profondamente poetica per la volontaria presenza dell’autore dietro la macchina da presa. Il regista nipponico lavora sulla sottrazione del profilmico e sull’essenzialità della messa in quadro.

Ciò lo si può vedere negli interni. Pensiamo al monolocale a Osaka con il primo marito o alle stanze della casa del secondo marito direttamente sul mare. Così come è inquadrato l’esterno. Soprattutto nella seconda parte, ci sono bellissimi campi lunghi e lunghissimi della costa e del mare, sia in inverno che in estate. In questo contesto, in particolare, la protagonista appare sempre come l’unico elemento umano all’interno di una natura che si trasforma in un genius loci. La luce, del resto, così come il paesaggio, formano un contraltare ai momenti emotivi differenti.

La palette di grigi e neri invernali e di verdi e azzurri dell’estate rappresentano anche le punte di tristezza e di ritrovata felicità della protagonista. Lei è inerme di fronte al mistero del suicidio del primo marito, di cui non riesce a darsi pace perché non trova nessuna spiegazione, e la riempie di sensi di colpa, così come la scomparsa dell’amata nonna da quando era bambina.

Lo stile documentaristico, con la predilezione di messa scena in interni e la cinepresa all’altezza dello sguardo dei bambini, è ancora più evidente in Nessuno lo sa (Daremo shiranai, 2004). I quattro ragazzini, due maschi e due femmine, abbandonati da una madre infantile ed egocentrica, in un appartamento in periferia di una grande città, dà la possibilità a Kore-eda d’indagare le silenziose emozioni in un’implosione di stile che viene rappresentata dalla messa in scena del piccolo monolocale, dove i quattro (soprav)vivono sotto la guida del fratello maggiore appena dodicenne. Una vita ai margini e marginale, di un’infanzia non solo perduta, ma invisibile agli adulti: ragazzini soli in mezzo alla strada, senza nessun sostegno di un adulto, obbligati a una reclusione coatta, non solo fisica, ma anche emotiva.

Il regista riesce con levità a trasmettere la pesantezza della vita che schiaccia i bambini e che porta alla tragedia finale per una di loro (la sorellina più piccola) in una sequenza in montaggio alternato, dove proprio il fratello maggiore, per un momento, riuscirà a sollevarsi dal sottosuolo della sua esistenza. E la metafora della valigia sotterrata ai margini dell’aeroporto, con gli aerei che partono verso ignote destinazioni, non è niente altro che l’anelito alla fuga verso un’esistenza migliore, dove però l’unico possibile viaggio è quello verso l’Aldilà: una morte che diviene un passaggio verso un’altra possibilità.

Il cinema come metafora della vita e della morte: After Life e Distance

Con After Life, questo mondo dopo la vita, Kore-eda lo mette in scena con uno stile da reportage documentaristico per poi mutarlo drasticamente verso il mostrare la creazione del “fare” cinema. Le anime arrivano in una “stazione” di passaggio, dove ligi e giovani funzionari (anch’essi morti) le accompagnano all’eternità, dando una settimana di tempo per scegliere un ricordo (uno solo) e portarlo con loro. Diventa quindi interessante vedere la difficoltà di sintetizzare un’intera vita (breve o lunga essa sia) in un unico momento significativo che la rappresenti tutta.

Ma la svolta originale dell’opera di Kore-eda è proprio il lavoro di queste persone che ricostruiscono il ricordo facendo del “cinema”. Devono creare le scene, gli effetti speciali, scegliere i luoghi adatti, le luci, per poi girare, come una vera e propria troupe cinematografica, il ricordo scelto dal morto. Nell’ultimo giorno i ricordi (dei cortometraggi) sono proiettati in una sala cinematografica e alla fine i morti scompaiono letteralmente.

Il gioco è esplicitato fin dall’inizio e la bellezza di After Life è proprio nel racconto e nel suo sviluppo diegetico. Il cinema diventa una grande metafora della vita: una metonimia di un’intera esistenza. Esso è un contenitore di ricordi da trasmettere all’eternità per poi scomparire definitivamente con essa, dopo la fine della proiezione e l’accendersi delle luci in sala. Vedere un film è un po’ come vivere ancora una volta e morire di nuovo.

E in mezzo abbiamo ancora l’esempio di Distance (Disutansu, 2001) che mette in scena l’elaborazione del lutto da parte di un gruppo di persone. I loro familiari erano componenti di una setta religiosa che prima ha diffuso un virus nell’acquedotto di Tokio, provocando centinaia di morti e migliaia di avvelenamenti, e poi ha compiuto un suicidio collettivo.

In questo senso, la pellicola è, forse, la più debitrice allo stile documentaristico del primo Kore-eda, con l’utilizzo della cinepresa a mano, scene ridotte all’osso e sempre addosso ai personaggi. I parenti dei terroristi-suicidi si ritrovano a tre anni di distanza dai fatti per commemorare i defunti, che sono ricordati attraverso flashback.

Tra capolavori e sperimentazioni di Hirokazu Kore-eda: da Hana a I Wish

Anche Kore-eda affronta il genere gindai-geki, film in costume con protagonista un samurai, ma in modo del tutto personale. In Hana (Hana Yori Monaho, 2006) un giovane deve vendicare la morte del padre e viaggia verso Edo, la capitale imperiale, per trovare gli assassini. Ma si rivela alquanto improbabile come spadaccino e dopo anni di ricerca l’odio e la vendetta si affievoliscono, vivendo in un quartiere povero in cui intreccia una rete di relazione con una serie di personaggi. Più commedia collettiva che dramma personale, il regista non rinuncia al suo stile intimista e allo sguardo dei bambini sempre presenti, in una storia che mette in risalto i temi dei legami familiari e personali.

Dopo la parentesi in costume, Kore-eda torna all’oggi con uno dei suoi film più belli e profondi. In Still Walking (Aruitemo Aruitemo, 2008) è messa in scena la vicenda privata di una famiglia e il difficile rapporto di un figlio con i propri genitori. In occasione dalla commemorazione della scomparsa del primogenito Junpei, morto quindici anni prima per salvare un ragazzino dall’annegamento, si assiste a una riunione di famiglia tra un padre, medico in pensione, la madre cinica, il secondogenito riluttante, che ha sposato una vedova e adottato il figlio di quest’ultima, e la sorella con i suoi figli.

I rapporti tra i componenti familiari sono sotto pressione, sempre pronti a esplodere. Però ciò non accade mai con il climax che implode su battute, sguardi e gesti minimali ma tremendi, sul non detto, sui fallimenti, le aspettative del padre che non è riuscito a coinvolgere i figli nel suo lavoro. E la riunione di famiglia gira tutto intorno all’assenza-presenza del figlio (e fratello) morto, convitato di pietra, presente in fotografia, perno attorno a cui i sommovimenti emotivi fluiscono in un percorso carsico tumultuoso.

La morte e la faticosa elaborazione del lutto da parte di tutti è uno stilema ripetuto nel cinema di Kore-eda e si collega idealmente e cinematograficamente con quelle delle sue opere precedenti. Così come il punto di vista dei tre bambini, i due figli della sorella e quello della moglie di Ryota, è lo sguardo più puro in Still Walking, che dà il senso all’esistenza stessa. Uno sguardo tra lo sgomento e la curiosità degli eventi e della realtà intorno a loro, donando una levità poetica all’atmosfera funerea e riottosa della famiglia.

Dopo la sperimentazione in costume di Hana, Kore-eda si ripete con una favola fantasy. Air Doll (Kūki Ningyō, 2009), settima pellicola del regista, racconta in modo molto poetico di una bambola gonfiabile, oggetto sessuale di un uomo solitario, che improvvisamente prende vita, ricordando il Pinocchio collodiano. Simulacro sessuale, Nozomi cerca in tutti i modi di emanciparsi, con uno sguardo (di nuovo) infantile alla ricerca di sé stessa, di chi è, da dove viene e perché esiste. Piccolo gioiello, di altissima qualità dal punto di vista visivo e pieno di temi e stilemi che ormai identificano fin da subito l’opera del cineasta.

Tutto sullo sguardo infantile è basato il suo film successivo, I Wish (Kiseki, 2011). Il protagonista è Koichi che vive con il nonno dopo la separazione dei suoi genitori. La vita scorre tranquilla in una cittadina su cui incombe un vulcano attivo, la cui presenza è la metafora della morte e distruzione onnipresente, dormiente e minacciosa. Koichi ha nostalgia del fratello minore che convive con il padre in un’altra città.

Kore-eda segue con la macchina da presa la quotidianità del bambino e dei suoi amici tra i giochi ameni, le lezioni scolastiche e le lunghe telefonate con il fratello. Koichi sente talmente la mancanza dell’amato fratellino che un giorno decidono di incontrarsi e di andare a vedere un treno superveloce che potrebbe realizzare ogni loro desiderio. Con il gruppo di amici Koichi compie un viaggio avventuroso tipico dell’infanzia che deraglia dalla quotidianità vissuta e che diventa un momento di crescita e di presa di coscienza della realtà emotiva. Una sorta di attraversamento della linea d’ombra dal mondo infantile a quella adolescenziale (e finanche con i prodromi di una coscienza adulta della vita).

Legami di sangue ed emotivi: Father and Son

Ma è con Father and Son (Soshite Chichi ni Naru, 2013) che il regista giapponese compie un salto, una svolta di grande maturità, abbandonando i temi del lutto, della morte, della tragedia, focalizzando lo sguardo sui rapporti filiali.

Il caso di due bambini scambiati in culla per un errore dell’ospedale porta al confronto di due famiglie opponibili, sia per condizioni sociali, sia per stile di vita. La prima è ricca, con un uomo dedito al lavoro in una grande azienda, abita in un ordinato e moderno appartamento in un lussuoso palazzo in città. Il rapporto con il figlio è tutto sorretto da una rigida formalità ed educazione, sempre spinto a dare il massimo in tutti i campi dello studio. La seconda famiglia è caotica e vive in provincia. Gestisce un piccolo negozio, con un padre chiassoso che trasforma il rapporto con i figli in un continuo gioco e divertimento fondato sulla massima libertà espressiva dei sentimenti.

Già questo continuo confronto, netto e contrastante tra le due famiglie, che si devono conoscere e decidere per lo scambio dei figli naturali, dà la cifra della capacità d Kore-eda di creare del cinema dove l’uomo e la sua umanità (con tutte le sue debolezze e incertezze) sono messe al centro della visione. Il confronto in Father and Son è tra legami di sangue o emotivi e la risposta che dà l’autore è incontrovertibile nella bellissima sequenza finale.

L’uomo ricco lascia il proprio figlio alla famiglia naturale. Gli dice che si deve fare coraggio e che deve “andare in missione, una missione lunga e pericolosa”. Quando, alla fine, si rende conto che lo scambio dei figli non funziona perché il legame emotivo delle famiglie “adottive” obtorto collo è troppo forte, decidono insieme all’altro padre di lasciare tutto com’era. In un lunga carrellata, in un campo-controcampo continuo tra il padre e il figlio, che finisce alla fine di un viale alberato, il padre dice al figlio prima di abbracciarlo: “La missione è finita, si torna a casa”. Un momento di altissima emozione rafforzata dall’eleganza formale della messa in quadro di tutta la sequenza.

Le opere sulle famiglie asimmetriche

Ls svolta verso un cinema maturo e più consapevole dei propri mezzi e dell’originalità del suo sguardo, Kore-eda lo conferma anche in Little Sister (Umimachi Diary, 2015). La ricchezza della sceneggiatura va di pari passo con la messa in scena sempre più complessa e a una messa in quadro che si riempie e lavora adesso sull’accumulo.

La storia di tre sorelle adulte che vivono nella casa materna, tre caratteri diversi e complementari, tre età differenti e approcci all’amore e alla vita contrastanti, diverte e commuove allo stesso tempo. L’occasione di andare al funerale del padre, che le aveva abbandonate per risposarsi con un’altra donna, le porta a scoprire una sorellastra più piccola, che accolgono nella loro singolare famiglia tutta al femminile.

Little Sister diventa un’altra espressione per indagare una diversa forma di famiglia, fatta di solidarietà, di gioiose differenze e contrasti, ma soprattutto di affetti e sostegno reciproco, senza mai scivolare in facili sentimentalismi. Un’intensità emotiva che si traduce con la scelta della profondità di campo degli interni nella sua forma filmica. E la morte, in questo caso, è presente a latere. Infatti, la sorella più grande lavora come infermiera in un reparto di malati terminali e assisterà, fino alla morte, la proprietaria di un piccolo ristorante.

Little Sister inizia con il funerale del padre e finisce con il funerale di una loro amica. In mezzo c’è il pieno di vita e vitalità di queste giovani donne e ragazze colme di speranze e aspettative.

La rappresentazione di famiglie asimmetriche è ribadita anche con il successivo Ritratto di famiglia con tempesta (Umi yori mo mada fukaku, 2016). Se nel precedente l’assenza del padre era l’innesco per raccontare di una sorellanza, in questo Kore-eda si concentra nel dipingere un complesso ritratto di una figura paterna disfunzionale. Ryota Shinoda è pieno di debiti, gioca d’azzardo, truffaldino detective che tira a campare e si fa deridere dalla ex moglie e dai familiari. Sempre in bilico tra dramma e commedia, Ryota è un perdente e un  bugiardo nato che cerca di rivivere un’esperienza unica con il proprio figlio durante l’imperversare di una improvvida tempesta. Padre e figlio si rifugiano in un parco giochi per superare la notte in una metafora dello stato infantile dell’uomo e del caos della vita familiare.

Se Ritratto di famiglia con tempesta appare un’opera a tratti macchinosa nel suo sviluppo delle dinamiche familiari, Kore-eda ottiene la sua consacrazione autoriale con la Palma d’oro al Festival di Cannes per Un affare di famiglia (Manbiki Kazoku, 2018). In questo caso, invece, abbiamo un ritratto compiuto di una famiglia allargata e disfunzionale che è la summa dei temi e dello stile koreediano.

Osamu è un ladruncolo che vive presso sua nonna con la moglie e un figlio e trovano una bambina abbandonata a sé stessa che accolgono nel loro nucleo familiare. Solo che poi, nell’evoluzione della narrazione, scopriamo che la donna non è sposata con Osamu, il bambino non è suo figlio ma un trovatello, e l’anziana non è la nonna ma una donna che li ospita.

Un gruppo familiare i cui legami non sono di sangue, ma, all’ennesima potenza, basati sull’affettività e sulla solidarietà interpersonale per sopravvivere in una società che non pone nessuna attenzione né tutela per gli ultimi. Il regista giapponese tratteggia con estrema eleganza le dinamiche emotive che legano strettamente individui borderline, che vivono ai margini della società forti dell’affetto che li lega.

Varianti di genere (familiari)

Tra i due drammi, Kore-eda dirige un thriller, Il terzo omicidio (Sandome No Satsujin, 2017), che si discosta dalla sua tradizionale cinematografia. Pellicola che ha avuto grande successo in patria, con numerosi riconoscimenti nazionali. Il regista mette in scena la difesa del famoso avvocato Shigemori di un uomo reo confesso dell’omicidio del suo capo e che anni prima era stato accusato di un altro delitto. Con una mise en abyme narrativa, Mikuma, l’assassino, cambia versione più volte, mettendo in dubbio la verità processuale, in continui detour che confondono continuamente ciò che si vede, senza riuscire ad arrivare a una comprensione dei fatti.

In questo contesto, Kore-eda descrive anche i rapporti filiali dei due uomini con le proprie figlie. Attraverso una narrazione sottile ed eterea, la solitudine dei personaggi è l’aspetto chiave di Il terzo omicidio così come lo sono i legami emotivi sottaciuti e segreti che comprendono i rapporti tra i padri e figlie. Come lo sono stati Air Doll e Hana, anche Il terzo omicidio è una variante di genere nella cinematografia koreediana. Sono evidenziati stilemi costanti dell’autore, in un dramma in cui l’oscurità avvolge la forma e il contenuto in una fotografia che predilige i notturni e gli interni poco illuminati rappresentanti la mancanza di luce dei loro animi.

Se questa pellicola è ancora un grande esempio di profondità dello sguardo dell’autore nipponico, non si può dire altrettanto dei suoi ultimi due lavori girati all’estero.

In La verità (La Vérité, 2019), diretto in Francia, Kore-eda mette insieme un ritratto di una diva francese, interpretata da una sempre brava Catherine Deneuve, e del suo rapporto con la figlia, a cui dà il volto Juliette Binoche. L’occasione della pubblicazione dell’autobiografia dell’attrice è anche un momento per mettere in scena i rapporti contrastanti e competitivi con la figlia sceneggiatrice. Una variante dei legami familiari, qui di nuovo al femminile, in un duetto madre-figlia che fa da contrappunto ai tanti rapporti padre-figlio(a) delle opere precedenti.

Anche l’ultima pellicola viene girata all’estero in Corea del Sud. Con Le buone stelle – Broker (Beurokeo, 2022) Kore-eda ripete temi sul concetto di famiglia allargata con la storia di Sang-Hyun che trova i genitori per i bambini abbandonati in baby box. In questo caso abbiamo una storia ormai di maniera. L’interesse è quello di come lo sguardo di un autore riconosciuto riesca a confrontarsi con produzioni e culture di altri paesi.

 

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