Dopo Mezzanotte

Il Rocky Horror Show visto da Master Blaster

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Il mio negozio, primo vero fortunale d’autunno, colonna sonora Over at the Frankestein Place di Richard O’Brien.

Il teatro, che dire?

Uno strano rapporto di amore e odio mi ha sempre legato alla Musa Talia, fin da quando bambino, impazzivo per le commedie di Plauto.

In un periodo della mia vita, non troppo lontano a dire il vero, ne ero anche un assiduo frequentatore, pur ponendomi sempre delle riserve sull’ambiente e sulla personalità di molti attori che per la natura dei miei studi universitari ero solito frequentare di persona.

Per me che sono un misantropo che rasenta la sociopatia erano decisamente persone faticose.

Ciò nonostante ho sempre amato sedermi in teatro e godermi qualche classico, finché gli impegni della vita e il fatto che difficilmente le sale a Roma programmano qualcosa che soddisfi i miei gusti (strani, lo ammetto), non mi hanno portato gradualmente ad allontanarmi dal teatro in favore della settima arte.

A conti fatti credo fosse dal 2006 che non mettevo piede a teatro.

Sono un pigro, chi mi conosce lo sa benissimo che non mento quando dico che pur avendo un forte desiderio di riassaporare il piacere di una rappresentazione dal vivo, non trovavo nulla di così potente che smuovesse la mia accidia.

Ma sono anche un sentimentale, molto legato ad alcuni immaginari e ai ricordi che  essi evocano, e così quando passeggiando per le strade della capitale vedo dei cartelloni che annunciano il Rocky Horror Show cado folgorato sulla via di Damasco (ed anche quasi dalla moto).

Quindi dopo aver strumentalmente consegnato due lavori di redazione in maniera più che puntuale, anzi uno in anticipo (giusto per appiccicarmi una medaglia), scrivo al grande capo chiedendogli di mandarmi a teatro.

Per essere onesto dovrei dire che più che chiedere ho supplicato…

Già perché immediatamente dopo Fulci, il Rocky Horror viene al secondo posto della mia personale scala affettiva e artistica.

Se sono la persona che sono (e in fondo non mi dispiaccio troppo), molto lo devo anche all’opera di O’Brien le cui prime visioni sono indissolubilmente legate alla mia prima adolescenza, alle prime serate con gli amici e ai primi amori.

Intendiamoci, nel 1975, quando il film uscì non credo nemmeno avessi acquisito l’uso della parola, non sono così vecchio!

Ma ancora alla fine degli anni ’80 e nei primissimi ’90 era un lavoro estremamente dirompente e trasgressivo e su molti manuali di cinema se ne potevano trovare fior di recensioni negative che lo retrocedevano senza problemi a puro trash.

Ai tempi un’opera rock incentrata sulla libertà di vivere il proprio corpo in maniera completa, dalle droghe al sesso, era decisamente qualcosa di profondamente indigesto per una società ancora incrostata dal bigottismo rurale clerical/monarchico e dall’ipocrisia perbenista della borghesia cripto e post-fascista.

E forse oggi, dopo una pausa in cui le grandi idee sovversive del rock e delle controculture hanno vissuto una lunga stagione di istituzionalizzazione, stanno tornando i giorni in cui questi lavori ricominceranno ad essere considerati trasgressivi e indigesti.

Purtroppo o per fortuna…

Ogni riferimento all’attuale governo NON è puramente casuale.

E quindi, finito il solito pippone introduttivo, eccomi davanti al Teatro Olimpico, con la moto, il chiodo e gli stivali d’ordinanza, in attesa di entrare all’affollatissima prima del Rocky Horror Show!

Il pubblico è quello delle grandi occasioni. Ci sono i veterani con i capelli bianchi ma lo spirito intatto (qualcuno si è portato i figli al seguito), i giovani rockers e gli immancabili presenzialisti a tutti i costi. Quelli che non sanno nemmeno cosa stanno andando a vedere, ma per cui è più importante farsi vedere.

Poco male, lo spirito dell’opera è l’accettazione e la tolleranza e se qualcuno vuol fare un po’ di passerella ci sta. In fondo anche una sana dose di esibizionismo non è affatto fuori luogo.

Avevo già visto il Rocky Horror all’Olimpico un’era geologica fa e inevitabilmente, per deformazione professionale, sono portato ad usare quella versione come termine comparativo di questo allestimento che fa parte della stagione di spettacoli proposti dall’Accademia Filarmonica Romana.

La prima differenza che noto è che lo spettacolo che vidi tanti anni fa era più interattivo, con squadre di transilvani che scorrazzavano per la sala stuzzicando il pubblico.

L’attuale regista, Christopher Luscombe, punta invece a stupire e ci riesce benissimo con una scenografia che forse solo i concerti dei Pink Floyd possono superare.

Macchine con sfondi mobili, luci e un’acustica superba stordiscono e catturano fin dai primi momenti.

Il découpage di un pacchiano estremo rende a pieno le atmosfere del film.

Di norma non amo le produzioni eccessivamente costose, ma non sono nemmeno un Savonarola per partito preso (anche se qualcuno ogni tanto mi da del marcusiano). Quindi quando vedo una produzione che spende bene la cospicua quantità di soldi che ha a disposizione, non posso che riconoscerlo e goderne.

Credo che due righe di riconoscimento ai bravissimi tecnici e a tutti gli artigiani dietro le quinte che di solito nessuno nomina mai siano più che meritate.

Anzi, in questo caso direi che sono anche poco.

Come sono bravissimi anche i musicisti, deus ex machina di tutto lo show, vera anima dello spettacolo, sempre presenti in sessione live, seppur mai in scena.

Gli attori sono tutti di livello, ma non me ne vogliano se qualcuno ai miei occhi è brillato più degli altri.

Saranno le mie osservazioni soggettive che nulla tolgono al merito e alla preparazione che riconosco a tutto il cast.

Non posso non notare Suzie McAdam, sia perché è bravissima nel ruolo di Magenta, sia perché a lei è demandato l’ingrato compito di introdurre lo spettacolo e scaldare il pubblico cantando da solista l’iniziale Science fiction/Double feature, che nel film sarebbero i titoli di testa e coda.

Tiene botta anche Haley Flaherty nel ruolo di Janet e direi che come Susan Sarandon riesce ad essere sensuale, pur non rientrando nei canoni estetici della classica vamp.

Over at the Frankestein Place era un brano che aspettavo con ansia perché introduce il personaggio di Riff Raff, ruolo difficilissimo su cui grava la pesante eredità di Richard O’Brien in persona che per i due bifolchi che non lo sapessero oltre ad aver scritto, diretto e composto il Rocky Horror originale, interpretò proprio la parte del diabolico factotum fattone.

Prova egregiamente superata dall’ottimo Kristian Lavercombe.

Darcy Finden si fa notare interpretando Columbia (il mio personaggio preferito) con uno stile tutto suo ed oltre ad una presenza scenica invidiabile dà prova di capacità fisiche e vocali fuori dal comune.

Se dovessi trovare un solo aggettivo per descrivere la sua interpretazione non potrei dire altro che “impressionante”.

Così come l’aggettivo “perfetto” calza a pennello su Stephen Webb che sembra appunto un perfetto clone di Tim Curry nei panni di Frank N Furter, segno di uno studio meticoloso del personaggio applicato a capacità tecniche più che compiute.

Devo dire che il Rocky impersonato da Ben Westhead sulle prime mi aveva lasciato alquanto perplesso per via della discrepanza fisica con l’originale.

Diciamo che non ha lo stesso physique du rôle di Peter Hinwood, ma concedendogli il beneficio di una visione priva di pregiudizi si dovrà riconoscere che la perizia tecnica supplisce a quello che manca in esuberanza muscolare.

Ultimo ma non ultimo, Claudio “Greg” Gregor nei panni del criminologo-narratore.

Piacevole e confortante sorpresa.

Piacevole perché Greg incarna un altro bellissimo ricordo del sottoscritto, quando  andavo spesso a vederlo al Palladium dove si esibiva con i Latte e Suoi Derivati.

Piacevole anche perché sul palco si muove benissimo, interagisce e scherza con il pubblico in modo naturale.

Confortante perché finalmente ho trovato qualcuno che parla un inglese quasi peggiore del mio e che ha quella superba vagonata di autoironia per farne un punto di forza.

Ma il Rocky Horror è anche questo.

Non solo accademica perfezione tecnica, ma anche anima a volte espressa in modo spontaneo e sgangherato.

Un collage di musica, luci, atmosfere che coinvolge un pubblico entusiasta che alla fine applaude in piedi, reclamando ben tre bis e lasciandosi coinvolgere nel Time Warp in un ballo collettivo.

Poco male, perché in tutto quel pandemonio nessuno si sarà accorto che come ogni volta che sento quel brano mi sono commosso, né avrò turbato qualcuno per il fatto di averlo cantato a squarciagola.

All’uscita dello spettacolo, Sara, la gentilissima responsabile dell’ufficio stampa, mi chiede se mi sia piaciuto.

Gli rispondo che quella sera avevo vent’anni di meno.

Approfitto di queste ultime righe per ammettere che ho mentito.

In realtà gli anni di meno che mi son sentito erano quasi trenta.

Colonna sonora:

Time Warp… ovviamente!

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