‘Alam’, imparare la resistenza in Palestina. Intervista al regista Firas Khoury
Il lungometraggio del regista palestinese si cala nella gioventù della nazione, indifferente o ribelle, dagli occhi di uno studente che arde per una compagna e impara a scottarsi nella lotta.
Alamdel regista palestinese Firas Khoury si dichiara sin dal titolo, che traduce in arabo la parola bandiera: è un film di bandiera. Parziale, ma onesto. La questione palestinese è calata in una scuola superiore araba israeliana: dove la Storia l’ha scritta il vincitore; dove il giorno di lutto dei palestinesi (la nakba) è giorno di festa per Israele (dell’Indipendenza); dove a sventolare è la bandiera israeliana, ma c’è chi vorrebbe sostituirla con quella della Palestina.
Tamer (Mahmood Bakri) è un giovane studente, dedito a tutt’altro che al doloroso conflitto tra popoli: videogame, siti porno, una bevuta con gli amici. Facendo il filo alla coetanea attivista Maysaa (Sereen Khass), s’impelaga nella lotta politica, assecondando non senza rischi il più consapevole e focoso Safwat (Muhammad Abed Elrahman). Pensava a rose rosse, finisce tra i lacrimogeni. Dalle scintille sentimentali a quelle degli scontri.
Con Alam, Firas Khoury (esordiente nel lungometraggio) cala con linguaggio piano e ficcante forza di sintesi una serie di temi universali – amore, amicizia, identità, conflitti generazionali – nel contesto della perenne tragedia palestinese, muovendosi con scioltezza tra rivendicazione politica e quotidianità fragile. Ritratto di generazione fresco, convinto, giovanile: gli si perdona volentieri l’essere – onestamente – di bandiera. Ne abbiamo parlato col regista in un’approfondita conversazione.
ANTONIO MAIORINO: in qualche intervista internazionale ti hanno già chiesto del significato del titolo, Alam, che in arabo vuol dire bandiera. Proverò a metterla in un altro modo: si può dire che nel tuo film ci sia una vera e propria filosofia della bandiera? Più di una volta diventa oggetto di discussione e di una sorta di teoria della lotta – o della rassegnazione.
FIRAS KHOURY: per me la bandiera costituisce un simbolo del nazionalismo palestinese. E la Palestina, chiariamolo, si trova in una fase della propria storia in cui deve aver bisogno del nazionalismo, al fine di promuovere il proprio grado di consapevolezza. In altri paesi non ce ne sarebbe altrettanto bisogno. Non penso che in America o in Francia sia così necessario avere questa fierezza rispetto alla propria bandiera. Potrei capire, al contrario, l’utilizzo della bandiera da parte della comunità gay, per tirarsi fuori dalla gabbia dell’oppressione e opporsi alla discriminazione sui gusti sessuali. In sintesi, la bandiera può essere uno strumento per dire qualcosa, per liberarsi.
Alam, viene issata una bandiera palestinese
Nel mio film, il personaggio di Safwat dice che il picco della liberazione consiste nel bruciare la propria bandiera: vuol dire che a quel punto non hai più bisogno di quel simbolo. Tutti dovrebbero poter arrivare a bruciare la propria bandiera e, semplicemente, unirsi. Da questo punto di vista, mi sento di dire che in Alam c’è un tono “marxista”, internazionale.
In che modo scegliere un protagonista come Tamer ti ha consentito di raccontare la storia che volevi raccontare? Perché i fatti sono specialmente narrati dal suo punto di vista?
Politicamente parlando, Tamer rappresenta la maggioranza dei palestinesi. Non possiede coscienza politica. Si limita a vivere la propria esistenza dal punto di vista delle emozioni. Ma si vede che è sensibile: basti pensare al suo rispetto nei confronti delle donne, che agli occhi di uno spettatore europeo può apparire scontato, ma che è piuttosto significativo nella nostra cultura. Nella cultura da cui vengo, le donne vengono sistematicamente discriminate. Non parlo di una discriminazione sempre evidente, ma di qualcosa che si percepisce, che si sa. Devo dire che Tamer è piuttosto basato su di me, come personaggio. Ero molto ignorante alla sua età. Vivevo nella mia bolla, senza alcuna preoccupazione di tipo politico. Il suo, nel film, è stato anche il mio processo di liberazione mentale.
Uno degli amici di Tamer, Sari, afferma che “appendere la bandiera palestinese è una stupidità”. Eppure, c’è chi della bandiera fa un oggetto di contesa tra Israele e Palestina; così come c’è chi a questa contesa resta totalmente estraneo. Si può dire che nel tuo film i vari personaggi compongono una sorta di sociologia della lotta, rispecchiando la vasta gamma di attitudini nell’approcciare la questione palestinese?
La tua osservazione corrispondente sostanzialmente al vero. Le varie tipologie sociali nell’approcciarsi alle battaglie politiche sono proprie della cultura palestiniana. Proprio per questo intento descrittivo, non tutto quello che si dice in Alamcorrisponde alla mia ideologia, proprio come nel caso della frase che citi. Perché c’è, allora? Perché un 55% della popolazione probabilmente pensa questo, preferisce non essere bollata come nazionalista ed evitare ogni coinvolgimento politico. Come a dire: lasciami vivere in pace. E per il fatto di pensarlo, si sentono anche superiori. Le altre differenze tra i personaggi corrispondono ad altrettante sfumature di atteggiamento presenti nel popolo palestinese.
In una scena di Alam, quando Maysaa e Tamer parlano per la prima volta, la ragazza gli dice che si sente gli occhi di lui addosso, e che questa per lei è una forma di sorveglianza. Sembrano le parole di chi viva in un regime sotto sorveglianza. Si può dire che il sistema di controllo, e i limiti che pone alla libertà, sia uno degli aspetti salienti del film?
La sorveglianza degli israeliani sul territorio è un tema presente nel film, ma se dovessi eleggere una scena in particolare, sceglierei piuttosto quella in cui Tamer parla al telefono con Safwat e per il timore di essere intercettato incalza il suo interlocutore a restare sul vago, a parlare in modo più generico (per parlare dell’appuntamento per tentare di rubare la bandiera, Tamer finge al telefono di parlare di una festa, nel caso in cui qualcuno lo stia sorvegliando, n.d.R.).
Alam, Tamer e Maysaa
Anche adesso mentre parlo con te ho paura che qualcuno stia vedendo il nostro incontro e mal interpreti la nostra chiacchierata, pensando che io dica qualcosa contro lo Stato. Ma devi semplicemente conviverci per superarlo (ride, n.d.R.).Ogni regime opera queste forme di controllo per limitare la libertà, anche solo mentalmente. Molta gente se ne frega e basta, ed è così per tanti palestinesi. Quelli di una certa età, però, sono più spaventati dal sistema di sorveglianza.
In tema di sistemi di controllo, nel “regime”, una delle forme di esercizio della sorveglianza si consuma attraverso la scuola. Sulla controversa spiegazione che il docente fornisce del massacro di Deir Yassin a scuola, e che suscita la veemente protesta di Safwat, Maysaa utilizza un’espressione pesante. Per lei, questo è “cancellare la Storia”. Quanto credi nel cinema per riscrivere la Storia? Il buon cinema può arrivare ad essere addirittura migliore della cattiva scuola?
Esattamente. Ci credo fermamente, così come nella letteratura. Ma nel cinema di più. Il cinema può davvero riscrivere la Storia e far luce su importanti eventi storici mostrandoli nella loro verità. Il cinema, anzi, rivela la verità e decostruisci i falsi miti. Anche Alam fa questo: decostruisce i miti. Ancora oggi siamo molto controllati dal sistema scolastico d’Israele che non parla del nostro evento più importante, ossia della nakba, la catastrofe palestinese (per la storiografia araba, si tratta dell’esodo forzato di circa 700.000 arabi palestinesi dai territori occupati da Israele nel corso della prima guerra arabo-israeliana, n.d.R.). Ancora oggi, dunque, continua una vera e propria cancellazione della Storia.
Voglio venire a una questione più strettamente stilistica. Ho visto che in alcune inquadrature di Tamer, hai preso una decisione piuttosto marcata: quella di concentrarti sul suo volto lasciando completamente fuori fuoco lo sfondo. Perché?
Soprattutto nei close up, ho cercato di essere molto vicino a Tamer. Per dischiudere il suo mondo ed entrarci, ho pensato che il modo migliore fosse quello di lasciare fuori fuoco lo sfondo. Quando Tamer è nel suo mondo, come estraniato, lavoro in questo modo, col fuori fuoco sullo sfondo. (Qui la risposta contiene spoiler, n.d.R.) La morte stessa di Safwat avviene sullo sfondo sfocato. Sta tirando delle pietre e qualcuno gli spara. Proprio per questa mancanza di definizione, lo spettatore si chiede cosa stia succedendo, così ricadendo nello stesso stato d’animo dubitoso di Tamer. Ritengo che questa strategia generi una forte accentuazione drammatica.
Paradossalmente, ci sono invece delle sequenze in cui l’enfasi sugli spazi diviene significativa, e lo si nota soprattutto quando ti soffermi su murales e graffiti. In uno di questi, a inizio film, si legge: “Dear rapist please be kind and allow me to tell my story” (“Caro violentatore, per favore, sii gentile e lascia che io possa raccontare la mia storia”). Come mai quest’enfasi su alcuni luoghi, fino a renderli capaci di raccontare storie?
I graffiti nel film compaiono perché siamo cresciuti in un posto in cui la gente scriveva molto sui muri. Dicevano ciò in cui credevano sulle mura, perché non si poteva parlare ad alta voce. Quando giungeva l’oscurità, si scriveva. I graffiti sono dunque parte della nostra cultura. Quanto a quella frase che citi, è per tutta la gente che vorrebbe avere la libertà di poter dire qualcosa, ma che non appena lo fa, viene bollata di antisemitismo, come se si indirizzassero contro gli Ebrei. Per me il “violentatore” è l’occupazione, ma anche chi la supporta. Era così che l’avevi interpretata tu?
Sì, in particolare in riferimento a quello che dicevi prima sulla narrazione ufficiale da decostruire, lasciando, dunque, raccontare la Storia, e le storie, anche da altri punti di vista.
Esatto.
Punti di vista diversi sono anche quelli tra padri e figli. La questione palestinese, in quanto questione storica, è intergenerazionale. Eppure, non sempre i genitori sembrano supportare i figli nel film: se ne lamentano sia Maysaa che Tamer.
Basterebbe fare riferimento ai genitori di Tamer per capire come, anche in questo caso, ci possano essere modi diversi di approcciare la questione palestinese: con maggiore timore e circospezione, o cercando di dare il giusto supporto. Non ho mostrato molto la madre di Tamer, ma da un semplice scambio di battute come quello in cui Tamer dice alla madre che sta andando a bere fuori, si può capire come quest’ultima sia per certi versi più ricettiva e aperta.
Alam, Tamer in un confronto con lo zio in un momento critico. Sullo sfondo, i compagni
Il padre, dal canto suo, incarna l’autorità. In lui ho cercato di descrivere la caratteristica principale dei nostri genitori in Palestina quando avevo quell’età, vale a dire la paura del sistema e la volontà di evitare con esso degli scontri che possano essere dolorosi. Ed è quello che succede in Alam: uno scontro col sistema degenera in qualcosa di doloroso. I genitori hanno rinunciato alla prospettiva della vittoria. Hanno perso. Dicono ai figli di lasciar perdere perché hanno perso. Ma i ragazzi sono più ribelli e vogliono cambiamento, liberazione, giustizia, dignità.
Maysaa, sicuramente, è una ragazza che desidera il cambiamento, mentre Tamer maturerà questa disposizione solo nel corso del racconto. A un certo punto, guardando Tamer allo specchio mentre gli siede accanto, in un momento privato, Maysaa gli dice: “You look better from the front than from the side”. Per certi versi, è quello che succederà a Tamer: da osservatore fuori dal gioco e indifferente alla lotta, di lato, passare al “fronte”…
Non ho pensato alla scena in questo senso, ma mi sarebbe piaciuto farlo! (Ride, n.d.R.) È un bellissimo significato!
Non pretendevo fosse il significato ufficiale, confesso trattarsi di una mia fantasia! (Rido anche io, n.d.R.) Il miglior significato è sempre quello del regista. Volevo invece sottolineare un aspetto che è stato riconosciuto univocamente nel tuo film: il fatto che sia una sorta di coming of age, un racconto di formazione in cui il protagonista evolve da una posizione all’altra. Cosa arriva a capire Tamer lungo la parabola del tuo film?
Credo che Tamer inizi come una persona che pensa sia possibile vivere in Palestina senza essere coinvolti nella politica, per poi capire che bisogna resistere e combattere per restare in Palestina. La tua pura esistenza qui, da palestinese che vive in Palestina dopo la nakba, è già una forma di resistenza, ed è quello che ho cercato di dire. Alla fine, Tamer arriva a capirlo: affronta la realtà, si rende conto del fatto che è inevitabilmente una realtà politica.
Se penso a ciò che lo spettatore deve capire, credo di poter dire che tu abbia usato spesso dei simboli. Uno tra tanti, una scena in cui lo zio di Tamer brucia l’ulivo, quasi una rinuncia amara alla pace. Non ti chiedo di dirci dove hai seminato simboli, ma solo di confermare, per chi non abbia visto Alam, che questa è stata, in effetti, una tua strategia.
Sì, ho usato molti simboli. Si è trattato di una strategia deliberata, te lo posso confermare.
Lasciamo dunque agli spettatori che hanno avuto e avranno la fortuna di vedere il tuo film cogliere la densità di significati e simboli di Alam. Ma parlando proprio degli spettatori, vorrei chiudere con una domanda sulle presumibili reazioni del pubblico. Cosa ti aspetta da parte del pubblico palestinese? Vorrei chiederti anche rispetto al pubblico israeliano, ma non sono certo Alam venga proiettato anche in Israele.
Prima di tutto, riguardo i Palestinesi, la mia intenzione è quella di renderli più coscienti dal punto di vista politico, e devo dire che c’è già una parte di questa generazione che è indirizzata in questo senso e che mi piace. La sceneggiatura che ho scritto è in qualche modo su di loro. Diversamente, per gli Israeliani, vorrei che potessero vedere Alam, ma dubito che ciò possa succedere al cinema. Spero tuttavia che qualche piattaforma lo mostri e che gli Israeliani lo vedano per aprire un dialogo, qualsiasi dialogo che possa portare alla pace.
Aggiungo e chiudo: che reazioni volevi suscitare anche in un pubblico più neutrale, come quello europeo a cui alludevi poc’anzi?
Per gli Europei, auspico di aver semplificato la causa palestinese e di averla ben simboleggiata, anche attraverso la bandiera, senza andare troppo nei dettagli. E d’altro canto penso che la causa palestinese sia molto semplice. Vorrei suscitare empatia e influenzare i palestinesi. Sì, lo so, il mio film è politico; non mi sono posto un obiettivo strettamente artistico. Ma alla fine, sono contento di come sia stato girato, lo ritengo ben fatto. Era complicato fare quello che volevo fare.
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