Italian Film Festival Berlin
Giuseppe Tornatore: la filmografia di un grande siciliano nel mondo
Grazie a Italian Film Festival Berlin arriva in Germania il nuovo film di Tornatore dedicato a Morricone!
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2 anni agoon
È tra gli italiani più conosciuti e apprezzati a livello internazionale. I suoi film hanno emozionato le platee di tutto il mondo grazie a racconti spesso legati alla memoria e alla sua amata terra, la Sicilia. Parliamo di Giuseppe Tornatore, autore di pellicole ormai entrate a far parte dell’immaginario collettivo come Nuovo Cinema Paradiso e La leggenda del pianista sull’oceano che grazie a Italian Film Festival Berlin porta in Germania il suo ultimo importante film ‘Ennio’, dedicato a Ennio Morricone.
L’incontro con Mimmo Pintacuda
Nato a Bagheria nel 1956, Giuseppe Tornatore si avvicina al mondo della settima arte grazie al suo conterraneo Mimmo Pintacuda, noto fotografo e proiezionista che, accogliendolo giovanissimo nella cabina di proiezione del cinema del paese, gli rivela il fascino e i segreti di un mondo sospeso tra sogno e magia. Si tratta di un incontro fondamentale per il giovane Giuseppe, tanto che questi, una volta diventato regista cinematografico, omaggerà la figura del suo maestro ispirandosi a lui per il personaggio di Alfredo in Nuovo Cinema Paradiso.
Gli inizi: dai documentari a Il camorrista
Dopo una breve incursione nell’ambito teatrale, il vero e proprio percorso cinematografico dell’autore siciliano comincia tra gli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 con una serie di interessanti documentari, alcuni dei quali realizzati per la RAI.
Tra questi v’è Incontro con Francesco Rosi (1981), omaggio al grande regista napoletano e a quel cinema d’impegno civile che caratterizzerà i primi approcci di Tornatore al racconto di finzione. Primi approcci che lo porteranno a lavorare dapprima come direttore della seconda unità in Cento giorni a Palermo (1984) di Giuseppe Ferrara – amara e tragica ricostruzione degli ultimi giorni del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa – e quindi ad esordire alla regia di un lungometraggio fiction con Il camorrista (1986).
Liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Giuseppe Marrazzo basato sulla figura del boss Raffaele Cutolo, il film, lasciando dialogare cinema politico, melodramma e gangster movie, narra le vicende del Professore (Ben Gazzara) e della Nuova Camorra Riformata, organizzazione criminale da lui fondata che, dopo aver preso il controllo dei traffici illeciti, finisce per arrivare ai gangli del potere.
Caratterizzata da un alto tasso di spettacolarità e da un ritmo serrato che ne favorisce la scorrevolezza, l’opera prima di Tornatore, nonostante l’improprio accostamento a Il Padrino (1972) di Coppola, ottiene un buon riscontro di pubblico e critica, e riesce a vincere, tra gli altri, il Nastro d’argento per il miglior regista esordiente. Un risultato, questo, che convince il produttore Franco Cristaldi a finanziare la seconda pellicola dell’autore siciliano. Parliamo di quel Nuovo Cinema Paradiso (1988) che gli darà l’improvvisa fama mondiale.
Il successo internazionale con Nuovo Cinema Paradiso
Lontano dall’impronta engagé dell’opera d’esordio, il film rappresenta un racconto metacinematografico dalla forte ispirazione autobiografica, in cui si narra dell’amicizia fondata sulla passione per la settima arte che lega l’adulto Alfredo (Philippe Noiret), proiezionista della sala cinematografica del paesino di Giancaldo, e il piccolo Totò (Salvatore Lo Cascio), destinato a diventare un affermato regista. Il tutto sullo sfondo di una Sicilia tenera e ingenua destinata a mutare pelle – e fors’anche a perdere incanto e purezza – in quello stesso arco temporale che, partendo dalla fine del secondo dopoguerra e arrivando agli anni ’80, disegna la parabola dolceamara del vero protagonista della pellicola – il cinema – a cui Tornatore rende una vera e propria dichiarazione d’amore.
Cinema qui inteso non soltanto come mezzo d’espressione, ma anche come spazio di fruizione collettiva, punto d’incrocio di emozioni.
Un cinema-luogo fisico destinato all’inevitabile declino imposto dall’avvento della televisione e dal mutamento del sentire comune meno predisposto al sogno e alla condivisione.
Giocato su toni nostalgici sottolineati magistralmente dalle musiche struggenti di Ennio Morricone – qui alla prima di numerose collaborazioni col regista siciliano –, Nuovo Cinema Paradiso è un amarcordiano racconto in cui Tornatore elegge il tema della memoria, nelle sue declinazioni individuali e collettive, ad elemento centrale della propria poetica. Memoria che proprio per questo tornerà spesso nella filmografia dell’autore non soltanto come collettore di emozioni, ma anche come effettivo principio identitario.
Dopo un clamoroso flop inziale e un taglio di ben 25 minuti, Nuovo Cinema Paradiso viene presentato al Festival di Cannes 1989, dove la giuria presieduta da Wim Wenders gli assegna il Gran Premio Speciale. Per la pellicola di Giuseppe Tornatore è l’inizio di una marcia trionfale che, passando di premio in premio, si conclude agli Oscar 1990 con l’assegnazione della statuetta come miglior film straniero. Nuovo Cinema Paradiso assurge così a nuovo classico del cinema contemporaneo.
Stanno tutti bene
Il faticoso ma meritato successo di Nuovo Cinema Paradiso apre a Giuseppe Tornatore le porte per la realizzazione del suo terzo lungometraggio, Stanno tutti bene (1990), malinconico dramma imperniato sulla figura di un anziano vedovo, Matteo Scuro (Marcello Mastroianni), il quale dalla Sicilia intraprende un lungo viaggio nell’Italia continentale per far visita ai cinque figli che gli hanno lasciato credere d’essere avviati ad una brillante carriera. La realtà che però si presenta al protagonista è completamente diversa. Ben presto, infatti, Matteo sarà chiamato a fare i conti con dolorose scoperte.
È la solitudine a fare da cornice a questo anomalo road-movie dagli sprazzi onirici che balla amaramente sul confine tra verità e menzogna. Stanno tutti bene è un racconto sull’illusione – altro topos caro all’autore – e sull’incapacità di fare i conti con la realtà e l’inesorabile trascorrere del tempo. Tornatore confeziona il film con delicatezza, equilibrio ed eleganza formale. I momenti di commozione sono sinceri e la prova di Mastroianni è da incorniciare. Cosicché il film, nonostante qualche concessione ad alcuni cliché, regge abbastanza bene al peso del successo di Nuovo Cinema Paradiso e alle aspettative legate alla pellicola a questo successiva. Stanno tutti bene, infatti, finirà per ricevere il Premio della giuria ecumenica al Festival di Cannes 1990 e il David di Donatello 1991 per il miglior musicista a Ennio Morricone.
L’episodio Il cane blu ne La domenica specialmente
Il 1991 è l’anno della partecipazione di Giuseppe Tornatore a La domenica specialmente, film di quattro episodi tratti da alcuni racconti contenuti nella raccolta Il polverone di Tonino Guerra.
Tornando nuovamente a collaborare con Philippe Noiret dopo il successo di Nuovo Cinema Paradiso, il regista siciliano firma il capitolo dal titolo Il cane blu, storia del rapporto d’amore e odio tra Amleto (Philippe Noiret), burbero calzolaio-barbiere, e un misterioso cane con una macchia blu sulla testa.
Il racconto, ambientato in una Romagna dai rimandi felliniani, è una sorta di fiaba giocata sull’alternanza tra comicità e poesia in cui Tornatore, non rinunciando ad un certo onirismo, affronta con delicatezza il tema della solitudine e del bisogno di sentirsi amati. Il tutto all’interno di un film che, sia per il valore intrinseco (ci si riferisce all’intero lungometraggio), sia perché omaggio a uno dei più importanti intellettuali italiani del Novecento, andrebbe senz’altro rivalutato.
Una pura formalità
Un raffinato, coraggioso racconto d’impianto teatrale giocato sui toni onirici e assurdi è alla base di Una pura formalità (1994), quinto lungometraggio di Giuseppe Tornatore ambientato all’interno di un fatiscente commissariato dove, sullo sfondo di un efferato omicidio, si confrontano in un lungo, inquietante interrogatorio uno zelante commissario (Roman Polanski) e lo smemorato Onoff (Gerard Depardieu), famoso scrittore avvolto da un’aura di mistero.
La pioggia incessante, le atmosfere claustrofobiche e surreali: il regista siciliano ricorre a un’accurata, suggestiva messinscena per tornare ad affrontare i temi legati al dualismo verità/menzogna e alla memoria (qui mostrata a contrario con l’amnesia di Onoff) come elemento identitario.
Una pura formalità è a suo modo un film d’alto valore simbolico, giustamente ambizioso nelle sue striature metafisico-esistenziali. Quella parte di pubblico abituata a un Tornatore agrodolce e sentimentale non può che trovarsi spiazzata davanti ad un’opera metaforica ed enigmatica che si avvale delle performance eccellenti del duo monstre Polanski/Depardieu. E così è persino normale che questo intenso, ottimo thriller che si interroga sulla vita e sulla morte finisca per assumere un carattere divisivo. Carattere che tuttavia non ne frustra l’alto valore artistico, tanto che Una pura formalità verrà premiato con il David di Donatello 1995 per la miglior scenografia e il Globo d’oro 1994 per la miglior fotografia.
L’uomo delle stelle: il ritorno del regista nella sua Sicilia
L’amore di Giuseppe Tornatore per la Sicilia e la sua passione per il cinema tornano a ricongiungersi ne L’uomo delle stelle (1995), dramma dolceamaro basato sulla storia di Joe Morelli (Sergio Castellitto), sedicente rappresentante di una casa di produzione cinematografica che, agli inizi degli anni ’50, gira con il suo furgoncino per la Sicilia facendo sostenere, dietro pagamento, falsi provini ai suoi abitanti con l’ingannevole prospettiva di una carriera attoriale. Tra questi anche un maresciallo dei carabinieri e i componenti di una famiglia mafiosa, i quali, scoperto l’imbroglio, non esiteranno a punire, ciascuno a modo proprio, l’improvvido truffatore.
Racconto dagli umori grotteschi incentrato sulla forza fascinatrice della settima arte e su quell’illusione intesa come urgenza di superamento/fuga dalla realtà – su cui Tornatore posa uno sguardo affettuoso ma non indulgente -, il film offre allo stesso cineasta l’occasione di ripercorrere quella sicilianità del secondo dopoguerra già esplorata in Nuovo Cinema Paradiso. Ricompaiono perciò i volti, i caratteri, le aspirazioni e i sogni di un mondo ancora ingenuo e puro, dove risulta fondamentale l’ottimo tratteggio dei personaggi secondari incarnati da attori dello spessore di Leo Gullotta e Leopoldo Trieste.
Sostenuto dall’ottima fotografia di Dante Spinotti e dalla puntuale ricostruzione della Sicilia dell’epoca, L’uomo delle stelle riscuote un notevole successo di pubblico e di critica ricevendo, tra gli altri, il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia 1995 e la candidatura come miglior film straniero agli Oscar 1996.
La leggenda del pianista sull’oceano: il kolossal di Giuseppe Tornatore
Un kolossal in sapor di fiaba è al centro dell’opera n. 7 del regista siciliano. Ci riferiamo a La leggenda del pianista sull’oceano (1998), pellicola liberamente tratta dal monologo teatrale Novecento di Alessandro Baricco in cui, attraverso la rievocazione dell’amico Max Tooney (Pruitt Taylor Vince), si racconta in una serie di flash-back la parabola esistenziale di Danny Boodman T.D. Lemon Novecento (Tim Roth), il quale, abbandonato in fasce, viene ritrovato il primo gennaio del 1900 da un macchinista di colore sul transatlantico Virginian. Da qui Danny non scenderà mai, nemmeno quando, una volta adulto, diventerà un geniale e acclamato pianista. L’uomo, infatti, sceglierà di seguire il destino della nave sino alle estreme conseguenze.
Humor, nostalgia e lirismo si compenetrano in una storia di amicizia dalle atmosfere leoniane fondata sul ricordo e composta di domande: cos’è la nave? Microcosmo ideale, ventre materno, prigione dorata? Ma soprattutto chi è Danny? Un uomo solo e spaventato che preferisce la superficie dell’acqua alla profondità di una vita vera o una creatura libera e anarchica che nell’arte incrocia quel mondo dove sublimare le proprie emozioni?
Giuseppe Tornatore non fornisce risposte e lascia che lo spettatore tragga da sé le proprie conclusioni, invitandolo alla visione attenta di un racconto/metafora dalle molteplici chiavi interpretative che, esaltato dall’accuratezza dell’impianto visivo e dagli eleganti movimenti della mdp, trova nelle musiche realizzate da Ennio Morricone il punto di massima espressività emotiva.
Malèna: un doloroso ritratto di donna
Cosa c’è di più illusorio di un amore sognato e non corrisposto? È il sentimento in cui si strugge l’adolescente Renato (Giuseppe Sulfaro), segretamente perduto di Malèna (Monica Bellucci), donna bellissima dal cui nome Giuseppe Tornatore trae nel 2000 il titolo per il suo ottavo lungometraggio ambientato nella Sicilia a cavallo tra la Seconda Guerra Mondiale e l’immediato dopoguerra.
Malèna è una donna desiderata dagli uomini e invidiata dalle donne, che, alla notizia della morte del marito ucciso in guerra, vede mutare questi sentimenti in aggressività e disprezzo. Protetta soltanto dallo sguardo innamorato di Renato, Malèna, la cui colpa è d’esser bella, viene travolta suo malgrado da pettegolezzi e calunnie di ogni genere ed è costretta a rinunciare ad una nuova vita. Così marchiata dalla pubblica opinione, la donna, ormai sola, finirà in una spirale di degrado e umiliazione.
Non fuorviino lo spettatore il tono comico-grottesco, la riduzione a macchietta dei personaggi di contorno, i deliri onanistico-metacinematografici di Renato: Malèna è una feroce messa alla berlina della cultura maschilista; un impietoso spaccato dalle venature pirandelliane sul “purché non si sappia in giro” e sulle drammatiche conseguenze del pregiudizio. A sottolinearlo non occorrono l’esplosione di violenza che nella seconda parte volge il racconto in dramma, né tantomeno il sottofinale intriso di ipocrisia benpensante.
Tutto è già negli occhi di Renato, nella sua ribellione innocente che, pur di difendere la donna prediletta, non risparmia nessuno, nemmeno la triade Famiglia, Chiesa e Stato. Quello stesso Renato attraverso le cui lettere d’amore mai consegnate (tranne una), Tornatore trova quella sublimazione poetica che, in un film dalla confezione morbida ma dalla sostanza dura, gli consente di riscattare la protagonista dalla brutalità del mondo circostante. Un mondo dove l’unica certezza è l’amore puro e senza tempo del giovane ammiratore.
La sconosciuta: un thriller per un nuovo ritratto di donna
Un altro sofferente ritratto femminile è alla base del nono film del regista siciliano, La sconosciuta (2006), thriller dalle sfumature psicologiche che ha per protagonista Irena (Ksenia Rappoport), enigmatica donna di origine ucraina, la quale fa di tutto pur di essere assunta come domestica nella casa dove l’orafa Valeria Adacher (Claudia Gerini) vive con la piccola figlia Tea (Clara Dossena). V’è una precisa ragione, ed è strettamente connessa al passato doloroso della stessa Irena. Un passato che non tarderà a riemergere.
Con un dramma intriso di mistero e violenza – rappresentata, quest’ultima, in disturbanti flashback -, Giuseppe Tornatore affronta il tema scabroso dello sfruttamento della prostituzione e della tratta dei neonati ricorrendo ad una messinscena algida e asciutta catturata dall’ottima fotografia di Fabio Zamarion.
Ne La sconosciuta scompaiono i toni caldi e grotteschi di Malèna per far posto ad una cupa storia al femminile carica di suspense e colpi di scena in cui l’unico barlume di speranza assume il volto dell’amore. Il tutto imperniato sull’eccellente interpretazione della Rappoport, la quale, giocando di sottrazione, riesce a conferire alla sua Irena quell’intensità implosiva che è cifra stessa del dolore che permea l’intero racconto.
Baarìa: il ritorno alle radici
Nel 2009 il regista siciliano torna di nuovo nella sua terra d’origine per realizzare quello che ad oggi è il suo film più personale. Parliamo di Baarìa, saga-kolossal dalle tinte nostalgiche che, a partire dagli anni ’30 del Novecento, investe tre generazioni della famiglia Torrenuova dove spicca la figura di Peppino (Francesco Scianna), le cui vicende personali, dall’infanzia all’età matura, fanno da filo conduttore in un affresco corale che, ripescando dai ricordi dello stesso Tornatore, ripercorre la storia di Bagheria (Baarìa in siciliano), della sua gente e dell’Italia intera.
Il film è un amarcord sentito e sincero di sovrabbondante ricchezza estetica e narrativa. Una peculiarità che sembra quasi voluta dal regista come a non voler tralasciare nulla, a raccontare ogni dettaglio in un film d’ampio respiro che, lungi dal voler essere un semplice omaggio, è un ritorno alla propria infanzia, a quei volti, voci e odori perduti nel tempo da cui la sua arte ha tratto origine e a cui quella stessa arte vuol tornare.
Un cerchio che si chiude con un atto d’amore, dunque. Eccessivo, forse. Persino barocco, magniloquente. Ma al contempo, chiaro segno di un’incontenibile urgenza personale che rende Baarìa qualcosa di altro da sé: non più mezzo attraverso cui provocare un’emozione, ma testimonianza dell’emozione stessa. L’emozione di Giuseppe Tornatore, per l’appunto, il quale, dopo aver girato il mondo intero, torna là dove tutto ha avuto inizio per regalare a sé e allo spettatore un’immersione nelle atmosfere avvolgenti di un racconto che, incrociando umorismo, melodramma e realismo, riesce ancora a strappare una lacrima e un sorriso.
La migliore offerta
A distanza di quattro anni da Baarìa, per il cineasta è tempo di tornare in sala con una raffinata e ambiziosa pellicola che di nuovo si interroga sul confine vero/falso. È infatti il parallelismo che Giuseppe Tornatore traccia tra contraffazione nell’arte e simulazione in amore a costituire l’elemento portante de La migliore offerta (2013), racconto che ha per protagonista l’attempato Virgil Oldman (Geoffrey Rush), famoso e solitario battitore d’aste, nonché scaltro collezionista di pregiati ritratti femminili, il quale, contattato per la valutazione di alcune opere dalla giovane agorafobica Claire (Sylvia Hoeks), finisce per imbastire con questa una tenera relazione amorosa sino ad allora sublimata nei suoi preziosi dipinti. Ma nei sentimenti, come nell’arte, il trompe-l’oeil è in agguato.
Tornando ad uno dei temi a lui più cari quale quello legato all’illusione come bisogno vitale, il regista siciliano realizza qui una delle sue opere più convincenti grazie ad una regia sempre attenta ed equilibrata che dà pieno risalto alla grande prova d’attore di Geoffrey Rush.
Elegante nella mise en scène, l’undicesimo lungometraggio di Tornatore è in definitiva un sottile, seduttivo gioco di nascondimenti e finzioni che procede per piccoli, inesorabili passi. Un accurato thriller sentimentale che, riproponendo la domanda de La leggenda del pianista sull’oceano sul rapporto tra arte e vita, elide il confine tra verità e finzione, e nega risposte nette e compiacenti. Perché nella vita come nell’arte “in ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico”.
La corrispondenza
Tre anni dopo La migliore offerta, il regista siciliano propone un lungometraggio giocato sul dualismo amore/morte. Ne La corrispondenza (2016) Giuseppe Tornatore racconta la storia di Amy (Olga Kurylenko) studentessa di astrofisica che arrotonda lavorando come stuntwoman. La giovane donna ha una relazione sentimentale col suo professore Edward “Ed” Phoerum (Jeremy Irons). I due si amano profondamente e si sentono spesso attraverso videochiamate e messaggi telefonici. Ad un tratto, però, Ed scompare misteriosamente. Durante un convegno scientifico la stessa ragazza apprende che l’uomo è morto. Ciò nonostante, Amy continua a ricevere lettere, messaggi e video di Ed in cui questi le dichiara il proprio amore. Pur affranta, la ragazza cerca di scoprire cosa sia realmente accaduto.
Universi paralleli, armonia cosmica, cloni sparsi nell’infinito del multiverso: è un amore tra le stelle quello che lega i due protagonisti, alla ricerca di doppi virtuali attraverso i quali sconfiggere la morte. Un autoinganno con cui negare la realtà, una via di fuga dal dolore: è il cuore di una pellicola con cui il regista torna al tema dell’illusione come necessità esistenziale.
L’intreccio di romanticismo e tecnologie digitali interroga lo spettatore sul rapporto amoroso nell’era della virtualità: cosa resta se mancano i corpi, i profumi, le carezze? La risposta è già nell’impianto visivo algido del racconto; in quella incomunicabilità di fondo fatta di domande inevase che trasformano un riverbero in realtà. Tutto, insomma, è nella solitudine di Amy e nell’ostinazione del suo cyber-fantasmatico Ed, che mescola realtà e finzione per superare il tempo e lo spazio. Un po’ come le stelle morte che continuano a brillare benché non esistano più.
Ennio
Nel 2021 Giuseppe Tornatore realizza il documentario Ennio, omaggio a Ennio Morricone, leggenda della musica e del cinema. Il titolo già dichiara il tono affettuoso e confidenziale dell’opera: il protagonista del racconto non è solo il Maestro Morricone, il mitico compositore padre di indimenticabili colonne sonore ormai entrate a far parte della storia, ma anche l’Ennio uomo; il figlio, il marito e l’amico col suo bagaglio di esperienze personali. Ne scaturisce un biopic intimo e commovente, dove il racconto dello stesso compositore fa da filo conduttore in una narrazione a più voci che, partendo dai tempi della gioventù, rievoca i momenti più importanti della sua carriera.
E così riemergono i primi studi di tromba al conservatorio, le serate nei locali notturni e con le orchestre d’intrattenimento, l’incontro con il Maestro Goffredo Petrassi e con l’arte della composizione musicale. Sono i prodromi del suo esordio come autore di quelle colonne sonore cinematografiche che gli spalancheranno le porte del successo. Ma prima arriva la collaborazione con la RCA, casa discografica in difficoltà che riesce a risollevarsi grazie ai brani geniali e innovativi da lui composti (Il barattolo, Con le pinne fucile ed occhiali, Sapore di sale e tanti altri).
La prima colonna sonora firmata da Ennio Morricone è quella de Il federale (1961) di Luciano Salce. È da qui che ha inizio un crescendo artistico che culminerà nella collaborazione con il suo ex compagno di scuola Sergio Leone, per i cui film comporrà brani ormai appartenenti alla memoria collettiva. Il Maestro ricorda, il suo sguardo si perde nel tempo, la sua musica riecheggia assieme alle immagini delle pellicole che ha contribuito a rendere grandi. Assieme a ciò ascoltiamo la testimonianza di amici, registi, musicisti e artisti che dalla sua musica hanno tratto ispirazione. È una passerella lunghissima: Gianni Morandi, Bernardo Bertolucci, Pat Metheny, Bruce Springsteen, Quentin Tarantino, Dario Argento, Oliver Stone, solo per fare alcuni nomi.
Emergono episodi divertenti, scene di vita personale. Si tratta di un coinvolgente, immersivo tourbillon che cattura lo spettatore rivelandogli la determinazione di un compositore deciso a difendere la propria arte e a non accettare alcun tipo di compromesso. Nemmeno se davanti a sé ci sono mostri sacri del calibro di Pierpaolo Pasolini ed Elio Petri.
La sua musica deve andare avanti ad ogni costo. Anche dinanzi allo snobismo degli ambienti musicali colti – quelli da cui lo stesso Morricone proviene – che lo accusano di essersi piegato a scelte commerciali e antiartistiche. Sono insinuazioni che, inizialmente, lo addolorano e gli procurano uno straziante senso di colpa. Un sentimento fortunatamente destinato a svanire non appena ci si renderà conto della miopia e dell’infondatezza di tali (pre)giudizi, incapaci di cogliere nelle creazioni del compositore romano quella genialità e quella spinta innovativa che rendono le sue colonne sonore opere d’arte in sé.
Il Maestro continua a ricordare lasciando che la sua memoria vada ad incrociarsi con quella collettiva. Ed è così che riascoltiamo brani impossibili da non riconoscere: sono quelli indimenticabili che accompagnano Mission (1986) il capolavoro di Roland Joffé. E poi ancora le musiche malinconiche di Nuovo Cinema Paradiso (1988) di un Giuseppe Tornatore che qui rende anche la sua affettuosa testimonianza ricordando la modestia di un uomo destinato a diventargli amico.
Ma si tratta soltanto della punta di un iceberg. Perché la produzione musicale del grande compositore è molto più vasta di quanto non si creda e si estende anche a quella musica colta da cui egli stesso proviene. Un genere che in realtà non ha mai abbandonato e che il musicista romano lascia riemergere nelle coraggiose sperimentazioni contenute in colonne sonore dove riprende apertamente le lezioni di Bach, Stravinskij e di quel John Cage che gli insegna a trasformare il rumore in musica. Morricone ascolta, metabolizza ed elabora. Musica popolare e musica alta si fondono spesso assieme. È un innovatore geniale che lascia traccia di sé nel tempo a venire.
E mentre scorrono filmati e si riascoltano le sue composizioni, di nuovo l’uomo Ennio torna a sovrapporsi al Maestro Morricone nel ricordare il padre trombettista e la moglie Maria, la sua più fidata consigliera. La commozione spesso coglie questo artista – per dirla col regista Silvano Agosti – “di una timidezza estrema e di una determinazione abissale”. Forse è davvero un abisso quello che gli si spalanca dentro. Fors’anche un’ossessione che lo porta alla ricerca costante di una forma espressiva che sia la più esatta possibile.
Nulla è dato al caso. Ogni particolare ha un suo preciso senso. Lo si comprende nel suo descrivere la genesi di un brano, nei dettagli con cui spiega le ragioni di un suono piuttosto che di un altro. Gli occhi si chiudono e le mani si librano come ali nel ripercorrere le sue amate note. È da questa piccola estasi che si coglie tutto l’amore per la musica; per la sua musica. Quello stesso amore che lo ha condotto a un successo che egli stesso sa d’essere meritato. E che, dopo cinque frustranti nomination, lo ha portato, nel 2007, all’Oscar alla carriera e, nel 2016, alla sospirata statuetta per la migliore colonna sonora composta per The Hateful Eight (2015) di Quentin Tarantino.
È il suggello alla carriera straordinaria di un uomo straordinario, di cui oggi si sente forte la mancanza. Un uomo che ha preferito le note alle parole perché “non si racconta la musica, la musica bisogna ascoltarla”.