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Personaggi

Roberto, Roberto! I 70 anni di un genio

Giullare, anticlericale, comico disarticolato, marionetta, interprete dantesco: sono tante le definizioni per un artista unico come Roberto Benigni

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Roberto Benigni, uno dei più grandi e influenti artisti del cinema italiano, compie 70 anni il 27 ottobre 2022: ripercorriamo le tappe della sua luminosa carriera tra cinema, teatro e televisione.

GLI INIZI

Roberto Benigni nasce a Castiglion Fiorentino il 27 ottobre 1952, unico maschio dopo tre sorelle figlio di due contadini, Luigi e Isolina. Prima Castiglione, poi Vergaio, a Prato, e poi Firenze, dai gesuiti, poi ancora Prato all’Istituto tecnico commerciale Datini.

Sembrava insomma destinato ad una vita come le altre, questo giovanotto dalle belle speranze con un padre prigioniero in un campo di concentramento a Bergem-Belsen, tra il 1943-1945, come Anna Frank, che invece a 47 anni, al Dolby Theatre di Hollywood, a Los Angeles, avrebbe saltato sugli schienali delle poltroncine rosse sulle teste dei divi del cinema, richiamato da Sophia Loren con l’urlo ormai leggendario “Roberto, Roberto!” per ricevere l’Oscar come miglior attore per La Vita E’ Bella.

Perché una volta abbandonati definitivamente gli studi della Facoltà di Fisiologia di Firenze, si butta nei primi spettacoli per decidere poi, a vent’anni, di trasferirsi a Roma.

Lì, con gli amici Silvano Ambrogi, Carlo Monni e Aldo Buti, formerà i Burosauri, presenze fissa del cabaret Beat 72, che recitavano su testi di vari autori tra cui anche Giuseppe Bertolucci, autore ad esempio di Cioni Mario fu Gaspare di Giulia.

Ed è proprio Cioni Mario il protagonista del suo debutto su grande schermo, proprio con Giuseppe Bertolucci: è il 1977 ed esce Berlinguer Ti Voglio Bene.

MARIO CIONI, IL CINEMA E LA PERIFERIA

Oggi, di provincie sonnacchiose e ambienti puritani ne spuntano ad ogni piè sospinto: ma quasi cinquant’anni fa, il mondo della provincia come spettacolo mortale era davvero una novità in sala, e Mario Cioni (Benigni) sguazzava nelle periferie di Prato tra una madre poco freudiana che lo odia, un film porno in un cinema a luci rosse e i rimorchi con gli amici poco vitelloni e molto volgari.

Uno scenario desolante, che viene sollevato solo dalla metafora centrale, suggestione fortissima e immagine ancora oggi vivida e potente, dallo spaventapasseri di Berlinguer che gli instilla l’ideologia del comunismo e lo spinge a frequentare la Casa del Popolo.

È in questo piccolo e scoordinato cult movie che nasce e si codifica subito il personaggio tipo di Benigni autore: lontano da quel palco che verrà anni dopo con papillon e paillettes, sconclusionato, disordinato, sessuomane, illogico, sentimentale fino a sprazzi di spontanea, commovente liricità. Mario Cioni non siamo noi, Mario Cioni è la più alta espressione della povertà umana sia spirituale che materiale, in un film ruvido e realmente proletario, icona incapace di trasmettere amore.

La forza del personaggio/persona Benigni si conferma nelle sue immediatamente successive apparizioni televisive, quando ne L’Altra Domenica di Renzo Arbore compare e si mostra, tra gli applausi scroscianti del pubblico, tronfio e irresistibile nella sua rozzezza ignorante e bizzarra. Un disarticolato giullare, splendente e cacofonico, dissacrante e poliedrico.

Da un Bertolucci all’altro: Bernardo lo dirige ne La Luna (1979, accanto ad un giovanissimo Carlo Verdone), e nello stesso anno anche Costa-Gavras in Chiaro Di Donna, ma nel salto nel buio -della sala e del grande successo- lo fa insieme a Marco Ferreri che lo vuole protagonista nel suo Chiedo Asilo.

Il legame tra uno dei primi maestri uomini -era l’epoca nella quale la riforma della scuola materna permetteva anche ai maschi di insegnare nelle scuole dell’infanzia- e un bambino psichicamente disturbato è la prima prova maiuscola di Benigni come attore, delicato e struggente, che si infila nelle scene del quotidiano e della finzione con una non-storia ancora oggi emotivamente straordinaria.

CHE COSA MI HAI PORTATO A FARE IN TELEVISIONE SE NON MI VUOI PIU’ BENE?

Ma di smettere di scandalizzare l’Italia benpensante Roberto non ci pensa proprio: e dopo la conduzione del Festival di Sanremo insieme ad Olimpia Carlisi, alla quale darà in diretta un bacio per nulla puritano da prima serata, si conferma chiassoso e ribelle nel film da regista di Renzo Arbore, il geniale e assolutamente sottovalutato F.F.S.S. Cioè… Che cosa Mi Hai Portato a Fare Sopra A Posillipo Se Non Mi Vuoi Più Bene, nel 1983.

Un film mosaico che alterna citazioni coltissime e lazzi pecorecci, parodia e satira di bassa lega, dialetto e lingua, invenzioni visive e lessicali irresistibili con al centro l’irsuta e bravissima Pietra Montecorvino, una vera forza della natura.

Il mito è già all’opera, la storia e la leggenda sono già scritte: contribuiscono Sergio Citti con Il Minestrone nel 1981 e la voglia di passare direttamente dietro la macchina da presa con Tu Mi Turbi, sempre nello stesso anno (dove curiosamente compaiono sia l’allora compagna Carlisi, sia la Nicoletta Braschi che undici anni più tardi sposerà in un convento delle clarisse).

Intanto prosegue il sodalizio con Giuseppe Bertolucci, il quale non solo collabora alla sua prima antologia di spettacoli dal vivo (Tutto Benigni Dal Vivo, 1983), ma lo introduce ad un personaggio che diventerà a dir poco essenziale nella seconda fase della sua carriera di autore, Vincenzo Cerami.

Una seconda fase che coincide con un film letteralmente storico, che celebra la capacità di Roberto di stringere non -solo- rapporti professionali ma soprattutto umani: il film è Non Ci Resta Che Piangere, incredibile successo di pubblico nella stagione 1984-1984 con 15 miliardi di incasso, girato insieme a Massimo Troisi che contribuirà a creare una lunga, inarrestabile improvvisazione che raggiunge vette di nonsense assolute, con una trama che sembra seguire affannosa un canovaccio inesistente.

IL FILM DELLA VITA

Un’opera comica moderna e iconoclasta paragonabile forse solo ai duetti di Totò e Peppino, surreale e dominata semplicemente da una improvvisazione geniale e irriverente, totalmente slegata da ogni tipo di trama e capace di catturare il pubblico di ogni epoca.

Nei primi anni Ottanta erano tanti i talenti che passavano dal teatro off alla televisione e poi al cinema, declinando lentamente alle regole strutturali del racconto canonico, seppure con esiti eccellenti (tra gli altri, Carlo Verdone, Marco Messeri, i Gatti di Vicolo Miracolo…): il soggetto di Non Ci Resta Che Piangere, invece, creato a quattro mani ed edificato solo in fase di sceneggiatura con lo stesso Giuseppe Bertolucci, diventa sul set un tour de force attoriale, con Benigni e Troisi duellanti che cannibalizzano qualsiasi velleità narrativa del soggetto, dando vita ad un’opera monstre della quale esistono addirittura più versioni (una delle quale, di più di due ore di durata, è anche passata di tanto in tanto in tv).

Resta sempre però l’alchimia dei due attori, in un film profondamente sconnesso ma dichiaratamente nato e impostosi come anti-cinema, virulento e sincero, al di fuori di ogni logica produttiva e per questo vincente. Una rivoluzione.

Due anni dopo, l’incontro con Jim Jarmusch sfocerà nel film Daunbailò insieme a Tom Waits; e nel 1988, un nuovo tentativo, riuscitissimo, di scardinare la sacralità, i tabù e le regole della Chiesa, Il Piccolo Diavolo. Per un film, questa volta, dove il nonsense sembra tirare il freno a mano, seppure con un mattatore al centro (Benigni) che tra le pieghe dell’azione e dei toni è sempre all’altezza, oltretutto con una spalla di lusso come Walter Matthau.

SOSIA, MOSTRI E LAGER

È quindi tempo di consacrazioni: con Federico Fellini, che ne La Voce Della Luna (1990) mette in luce il lato umanista e poetico ricalcando le intuizioni visive di Fellini; e con Jhonny Stecchino e Il Mostro, rispettivamente del 1991 e 1994.

Il primo è una bomba ad orologeria: perché lo script, in coppia con Cerami, prepara le situazioni e le gag per farle esplodere nella seconda parte. Un one man show allestito per esaltare la gestualità visiva del comico toscano, una delle commedie più seducenti e intelligenti del cinema italiano del periodo, straboccante di trovate che si allungano e si comprimono proprio come il corpo dell’attore/marionetta.

Il Mostro, d’altro canto, è solo apparentemente una copia carbone del primo: nonostante riprenda i tempi narrativi e drammaturgici di Jhonny Stecchino, il sesto film da regista di Roberto è una black comedy che tenta la carta della satira sociale guardando da vicino alle vicende oscure del Mostro di Firenze, e straordinariamente mette al centro del racconto un essere umano virato al negativo, che ruba, mente, evade le tasse, ma tutto in nome di una ingenuità buona che si scontra con una società che lo rigetta, nella quale non si ritrova e risulta come disadattato.

Il mostro diventa allora una caricatura spietata e ironica dell’isterismo e della tensione di quel periodo.

L’ennesimo fool, isolato, maltrattato, contraddistinto da un’eccentricità minacciosa, una maschera che con naturalezza assume i tratti del demone, del mafioso, del killer, sempre eversivo, immerso in un ambiente decostruito nella e dalla non-logica.

In quest’ottica profondamente autoriale, La Vita È Bella è uno sbocco naturale, consequenziale: quelli che nei film precedenti erano isolate idiosincrasie societarie qui diventano una rete perfettamente integrata, una macchina di morte attraversata da una linea nera che collega la battuta di spirito e la morte (intesa come distruzione).

Una tale complessità ideologica e teorica avrebbe avuto esiti ancora migliori se fosse stata supportata però da una scrittura filmica meno approssimativa ed elementare: certo, rimane un film dove coraggio e ambizioni si rincorrono e si sorpassano alternativamente.

E le sette nomination, ma soprattutto l’Oscar come miglior film straniero e quello come attore protagonista, sono da considerare più come un premio alla statura del personaggio che alla singola performance: perché certamente l’establishment americano non avrebbe mai potuto celebrare il genio disarticolato e non-senso di Roberto Benigni, più facile celebrare un film a misura di gran galà.

ULTIMI FUOCHI

Certo è che da quel momento in poi il rapporto di Roberto Benigni con il cinema si incrina: i film successivi, Pinocchio (2002) e La Tigre e La Neve (2005) ricevono un’accoglienza contrastante ma sono dei flop al botteghino, e bisognerà aspettare il 2012 per rivederlo in una fugace apparizione in To Rome With Love di Woody Allen, e poi il 2019 nel Pinocchio di Matteo Garrone. La sua verve continuerà a vivificare le sue letture dantesche che faranno storia, recitando con commossa e sincera partecipazione interi canti a memoria.

Ma anche qui, l’ambizione e la volontà di potenza insite nell’incredibile vigore della sua capacità interpretativa (che si fermava solo apparentemente alla forma del giullare anticlericale) hanno giocato a suo sfavore: dopo la Divina Commedia, le letture-interpretazione della Costituzione Italiana e dei Dieci Comandamenti hanno appannato il successo iniziale.

Ad oggi, diradando al massimo le sue apparizioni pubbliche, Benigni rimane uno dei migliori interpreti/autori del cinema italiano tra gli anni Ottanta e Duemila: con la sua sferzante voglia dissacratoria è riuscito ad avere una voce originale che parte dalla comicità per arrivare ad abbracciare tanto altro, dividendosi e insieme unendo la cultura locale al mondo intero.

i 70 anni di Roberto Benigni

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