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‘Steno’ Raffaele Rago racconta il suo documentario alla Festa del cinema di Roma

Un documentario racconta la figura di Stefano Vanzina attraverso aneddoti e racconti di amici e parenti

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steno raffaele rago

Presentato alla Festa del cinema di Roma, nella sezione Freestyle, c’è anche il documentario Steno diretto da Raffaele Rago.

Prodotto da Andrea Petrozzi per World Video Production, Steno è scritto su soggetto di Nicola Manuppelli e su sceneggiatura dello stesso Manuppelli con il regista Raffaele Rago. Le musiche sono di Claudio Sanfilippo e la fotografia di Vincenzo Taranto.

La nascita di Steno di Raffele Rago

Com’è nata l’idea di questo documentario? Perché hai/avete scelto proprio la figura di Steno?

È nato casualmente. Quando realizzai il mio precedente documentario, Segretarie, incontrai Nicola Manuppelli, lo scrittore che firma la sceneggiatura, insieme a me, di questo documentario, che scriveva libri sul cinema. In occasione del festival di Gorizia ci trovammo insieme a presentare il mio documentario e il suo libro perché parlavano dello stesso periodo storico. Da lì ci siamo conosciuti meglio ed è nata un’amicizia. Abbiamo pensato a delle collaborazioni, buttando giù delle idee.

steno raffaele rago

Nel frattempo lui ha scritto altri due libri, uno era A Roma con Alberto Sordi e uno A Roma con Nino Manfredi, entrambe biografie nel centenario della nascita dei due attori. Scrivendo l’ultimo (quello su Nino Manfredi) ha incontrato la figura di Steno e ha iniziato a fare delle domande al figlio, Enrico Vanzina. Così facendo si è accorto che non c’era molto su Steno, tranne un solo libro, molto preciso e dettagliato e fin troppo storico. Nel cinema c’erano solo due documentari, molto vecchi televisivamente parlando, di cui quasi tutti si sono un po’ dimenticati. Tanto che, quando siamo andati a intervistare tutti coloro che hanno collaborato con Steno, e che sono ancora viventi, erano tutti entusiasti. Ci hanno accolti dicendoci finalmente qualcuno fa un documentario su Steno. Lo stesso Enrico si era dimenticato dei precedenti documentari. A lui abbiamo proposto l’idea e lui, che aveva visto Segretarie, ha accettato con entusiasmo anche perché, secondo lui, il mio precedente lavoro era un documentario molto commuovente. E, non a caso, si è commosso molto anche quando ha visto questo.

Quindi è nato tutto per caso, ma ci tengo a sottolineare che il soggetto è a pieno titolo di Nicola Manuppelli.

La struttura del documentario

Quello che mi è piaciuto di questo documentario è anche l’impianto classico: non ci sono sperimentazioni e tutto risulta pulito e preciso. L’attenzione è rivolta esclusivamente alla figura di Steno. Come avete lavorato in questo senso?

Si potrebbe dire che la storia nasce montando. Con Nicola c’è stata una forte collaborazione, anche a distanza. La costruzione del racconto è stata fatta al montaggio. Nicola, che vive a Vicenza, mi mandava delle scalette con gli argomenti. Io li elaboravo e gli mandavo il risultato con delle osservazioni. Quindi è stato, a tutti gli effetti, un lavoro di sceneggiatura a 4 mani, a distanza.

Per quanto riguarda la narrazione siamo partiti dal fatto che avevamo a disposizione 25 intervistati con Enrico al centro. E abbiamo pensato di fare come se fossimo in una sala con la sensazione che tutti fossero insieme e ognuno raccontasse qualcosa di Steno. Come in una normale conversazione, un racconto dove le voci si devono tutte intrecciare e una deve cadere dentro l’altra e una frase deve dare l’avvio a un’altra frase. Per questo non abbiamo scelto l’ordine cronologico, ma, se vogliamo, c’è un ordine tematico come avviene nelle conversazioni. C’è una continuità in cui ogni argomento chiama l’altro in maniera naturale. L’intenzione era raccontare Steno a qualcuno che non lo conosce. Su questa intenzione è stato costruito questo inanellarsi dei vari argomenti con le prime informazioni, all’inizio, per orientarsi. E poi si è trattato di giocare tra la vita privata e la vita artistica in cui l’artista e l’uomo continuamente si sovrapponevano. La sua vita era il suo cinema e il suo cinema era la sua vita. Tutto con ritmo e scansione di argomenti che portassero a empatizzare e anche commuovere il pubblico.

Il documentario ha voluto essere informativo, nel senso di dare informazioni, ma allo stesso tempo con sentimento e patos. Di solito i documentari sono più freddi.

Lo Steno di Raffaele Rago è uomo oltre che regista

Alla fine empatia e commozione sono ciò che emerge dalla visione del documentario. Ho apprezzato molto l’idea di delineare la figura di Steno in quanto uomo piuttosto che solo e soltanto regista. Sono stati belli anche gli aneddoti che lo raccontano. Forse è anche questo il tratto distintivo del documentario?

Questo è sempre un rischio che corro volentieri: non inserire mai lo storico che apparirebbe come elemento di separazione. Abbiamo voluto mettere tutte persone che hanno avuto a che fare personalmente con Steno, in modo che si avesse prima un grado emotivo e poi uno informativo. E il ruolo dello storico di cinema che ne parla in maniera impersonale perché non l’ha conosciuto non aveva senso in questo tipo di lavoro.

Il fatto di non mettere uno storico è rischioso e pericoloso perché si tende a dire che, senza questo elemento, viene meno la figura artistica del soggetto in questione.  In realtà i momenti in cui si parla della figura artistica ci sono e sono tanti rispetto al lavoro globale.

E poi anche l’inserimento di immagini/scene contestualizza e aiuta chiunque perché tutti conoscono almeno una di queste a prescindere.

Esatto. E, in questo caso, anche l’uso della fotografia, avendo a disposizione lo sterminato archivio di Enrico, è stata molto sfruttata. La foto spesso diventa più evocativa della scena in sé. Anche perché la scena l’abbiamo vista tantissime volte.

Gli interventi e gli intervenuti in Steno di Raffaele Rago

Come siete entrati in contatto con tutti gli intervistati? Avevate pianificato tutti questi interventi? Spesso con i documentari è tutto un divenire…

Siamo partiti da Enrico. E poi da un altro elemento importante: quello della conversazione. Tutto è partito dall’idea di un figlio che racconta un padre. Ma Enrico ci ha anche chiesto di non inserirlo troppo. Naturalmente, come quantità, è ed era inevitabilmente più presente perché ha più informazioni rispetto agli altri, ma non è preponderante. Praticamente il documentario è una grande conversazione con il figlio che tiene le fila del racconto. Gli incontri ci sono stati grazie a Enrico che ha fatto da tramite e ha contattato tutti coloro che, ancora viventi, avevano avuto modo di conoscerlo. Per ovvie ragioni anagrafiche hanno parlato dell’ultima parte della filmografia di Steno.

Sì perché si tratta della generazione dopo.

Infatti. E poi abbiamo fatto leva su un altro elemento: una sorta di sentimento verso quel periodo dell’Italia. Si tratta di una cosa che avevo già fatto in Segretarie e che ho voluto ripetere anche qua: raccontare un’epoca come il sentimento di quella stessa epoca. Così anche chi ha poche informazioni riesce ad avvertire e sentire la nostalgia di un’Italia che era un’altra cosa.

Sono dell’idea che, alla fine, il documentario debba trasmettere sentimenti.

Emozione e commozione

E direi che ci sei riuscito perché c’è emozione. Sia nello spettatore che negli intervistati. A tal proposito mi è rimasta impressa una scena nella quale Claudio Amendola si rivolge a te dicendo che se inserisci questo pezzo di conversazione lo rendi felice.

Quel finale, che dura 6 minuti da quando comincia il racconto intimo della mamma da parte di Enrico, dà tanto sapore di intimità, di bellezza, di estetica, di amore e di cinema. Ho cercato di fare il possibile per restituire la commozione degli intervistati. Se il personaggio si commuove anche il pubblico si commuove. Però, allo stesso tempo, è una commozione che devi rispettare. E nei documentari, spesso, c’è poco rispetto: è come se il regista fosse sempre davanti ai personaggi, si vede sempre il punto di vista di chi racconta la storia e i personaggi sono quasi funzionali al ragionamento. Io, invece, tendo sempre a ribaltare questa prospettiva e a sparire facendo emergere loro.

Quando monti un documentario loro diventano dei personaggi di finzione, come se fossero personaggi di una storia tua anche se in realtà è la loro storia. Quindi devi far emergere tutta la loro verità. Quando il regista si mette al servizio del racconto avviene questo.

steno raffaele rago

Infatti non si nota la mano del regista nel senso che è un documentario pulito.

È vero, sono contento che questo emerga.

Il rapporto con Steno

Cosa viene in mente a Raffaele Rago se dico Steno?

Mi vengono in mente la mia infanzia e la mia giovinezza. Si tratta di una cosa che ho sempre tenuto vicino a me, anche prima di montare il documentario. Dover rifare un documentario su cose che vedevo da bambino mi ha riguardato in qualche modo.

Il tuo film preferito di Steno?

Ne cito due: I due colonnelli e poi Il trapianto.

Raffaele Rago dopo Steno

Prossimi progetti?

Ci sono già un paio di idee. Uno dei nuovi lavori è sempre sull’ambiente del cinema, ma parlerà di un film e non di un personaggio. Sarà sempre in collaborazione con Nicola e riguarderà sempre gli stessi anni. Stiamo solo aspettando la risposta per i diritti da Mediaset. E da Titanus. A tal proposito ci tengo a ringraziare proprio Titanus perché sia per Segretarie che per questo documentario ci hanno dato gratuitamente accesso agli archivi. Dopo Segretarie la Titanus ci ha regalato le sequenze dei suoi 12 film su Steno che aveva a disposizione per la stima nei confronti del regista.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

Steno

  • Anno: 2022
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Raffaele Rago

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