Presentato ad Alice nella città Il ritorno in sala dal 15 dicembre, racconta la storia di una madre che lotta per tenere unita la propria famiglia. Con Emma Marrone protagonista assoluta del film. Temi e forme dell’opera nella conversazione con Stefano Chiantini
Distribuito da Adler Entertainment
Il ritorno di Stefano Chiantini
La prima sequenza de Il Ritorno è emblematica del tuo cinema e in particolare di questo film. La protagonista è una donna che affida le sue reazioni all’istinto finendo sempre per mettersi nei guai.
Sì, in effetti è così. È come se lei avesse una specie di facilità a trovarsi in certe situazioni e questa è una cosa che succede in tutto il film. È quasi un continuo, lento, precipitare, anche quando lei cerca di salvarsi. Ogni situazione porta con sé un’ulteriore disgrazia, un po’ come succede con il meccanismo della tragedia in cui tu fai una cosa che ti deve portare alla salvezza e invece ti condanna al tragico.
Che abbia ragione o meno non conta nella vita di Teresa. Quello che invece sappiamo è che Il ritorno racconta il percorso di espiazione/guarigione della protagonista, a partire dall’esplosione di rabbia della scena introduttiva. L’istinto di Teresa la fa padrona anche in una delle sequenze più importanti del film, quella in cui la donna, per difendersi dal malvivente, che minaccia il suo bambino si condanna con le proprie mani. L’ultima scena chiude il cerchio con le altre due, ma questa volta la tragedia è solo sfiorata. Teresa, infatti, si sottrae alla sua impulsività per lasciare spazio alla ragione: il suo percorso di guarigione deve passare dalla rinuncia a ciò che ama di più. A quello per cui fin lì ha lottato con tutte le sue forze.
Sì, è l’unica salvezza che le è possibile. Nella sequenza finale Teresa, per la prima volta, rinuncia all’istinto diventando madre fino in fondo. In un certo senso mi piaceva l’idea di partire dal fatto che l’istinto di salvarsi e di continuare a vivere diventasse una condanna. E di come la salvezza per lei corrisponda alla rinuncia della maternità. Nel suo caso la rinuncia è salvifica.
La rinuncia
Per diventare una persona migliore deve rinunciare a ciò che ama di più.
Sì, quello è un gesto di grande generosità verso il figlio. Poi magari non sappiamo se per il ragazzo ciò corrisponderà all’ennesimo dolore. Questo io non lo racconto lasciando a ciascuno la possibilità di immaginarsi il seguito che preferisce.
In questo senso non è sbagliato dire che la protagonista e la sua vicenda sono raccontate in una prospettiva anche cristiana: rinunciare a se stessi a favore dell’amore gratuito ne è quasi il manifesto.
Mi fa piacere che tu lo abbia notato e sia tu a dirlo perché il senso di questa affermazione è qualcosa che mi porto anche dentro. Questi gesti di rinuncia sono quelli che conducono a un cambiamento, a una specie di catarsi. In parte succede anche in Naufragi.
Stefano Chiantini prima de Il ritorno
Il ritorno ha molti punti in comune con il lungometraggio precedente. È come se con questo film continuassi a raccontare, in un contesto diverso, temi e personaggi che ti stanno a cuore. Anche qui, come in Naufragi, la protagonista fa di tutto per tenere insieme la propria famiglia.
È esattamente così, tant’è vero che in Una Madre – il film che inizierò a girare nel nuovo anno -, chiudo la trilogia raccontando tre diverse tipi di madre, ognuna caratterizzata da un proprio percorso. Ho iniziato a scriverlo d’istinto e solo ora mi rendo conto che le protagoniste fanno parte di un percorso iniziato con Naufragi e destinato a chiudersi con il prossimo lavoro in cui analizzo tre donne con personalità a me molto vicine.
Un film politico
Nella prima scena, come in quasi tutte le altre, il tema del lavoro è centrale sia da un punto di vista narrativo che morale. Il film è pieno di immagini in cui Teresa è impegnata in mansioni lavorative. Per lei il lavoro è necessario non solo in termini materiali, ma anche etici e sociali. In questo Il ritorno è un film profondamente politico.
Per come lo mostro, il lavoro per il personaggio di Emma Marrone è quasi un mantra e da parte mia sono stato molto attento alla scelta delle varie location. Il lavoro fa parte della nostra vita e la nostra società è così intrisa di difficoltà e necessità legate a esso che, per forza, affrontarle diventa un aspetto sociale e politico; anche perché quando poi racconti personaggi che vivono ai margini, e comunque in situazioni particolari e difficili, spesso il lavoro finisce per essere un territorio di analisi legato allo sfruttamento, alla precarietà, al caporalato, e a tutte le cose che l’instabilità lavorativa si porta inevitabilmente dietro. Nei miei film non voglio mai dare un’opinione sociale e politica però poi raccontando certi contesti finisci sempre per prendere una posizione, anche solamente mostrandoli.
Peraltro sempre la prima scena, quella in cui il personaggio di Sandra Ceccarelli licenzia Teresa, allontanandola dal suo appartamento, è simbolica rispetto al rapporto della ragazza con la dimensione casalinga e famigliare. Anche la sua casa per lei è un luogo problematico, caratterizzato dai continui conflitti con il marito e con il figlio. Teresa fatica a starci dentro e ogni volta che vi rientra è come l’inizio di una nuova guerra. Rimanere lì è una vera e propria conquista.
Anche perché lei fin dall’inizio si porta dietro il peso di un figlio che è croce e delizia, amore e difficoltà. Teresa fatica ad avere un ruolo sociale e anche in quello di madre, pur volendolo, si percepisce inadeguata. All’inizio è per il figlio che perde il lavoro ed è sempre per lui che finisce in carcere. Quando cerca di tornare a ricoprire quel ruolo, restaurando il rapporto con il figlio, viene sempre respinta. Si tratta di un aspetto che mi piaceva raccontare.
Il rapporto madre-figlio ne Il ritorno di Stefano Chiantini
Rispetto a quello Naufragi il rapporto tra madre e figlio è esattamente l’opposto. Tanto quello del primo prevedeva una lontananza fisica, tanto quello dell’incontro è simbiotico. Nelle prime sequenze il rapporto tra Teresa e Antonio è innanzitutto fisico, come testimoniano le immagini in cui vediamo la ragazza camminare per le strade della città con il bambino in braccio.
Sì, qui c’è una simbiosi. All’inizio appare come una vera e propria dipendenza perché per lei il bambino è un “peso” fisico da cui non riesce a staccarsi. La prole diventa quasi un impedimento e un fastidio, ma quando la deve difendere si trasforma in una leonessa. In Naufragi c’era il processo inverso, con il padre presente e razionale a fronte di una madre borderline che a un certo punto è chiamata ad assumersi le responsabilità di genitore senza riuscirci fino a quando non torna dal figlio. Al contrario Il ritorno nasceva dal desiderio di raccontare questa simbiosi, questo attaccamento fisico. Per Emma il film è stato molto faticoso. Avevamo tre bambini che si alternavano per lo stesso ruolo ed Emma ce li aveva sempre in braccio mentre piangevano perché non volevano starci. Era una situazione metacinematografica poiché in termini di fatica fisica realtà e finzione si equivalevano.
Un prima e un dopo
Alla pari di Naufragi, Il Ritorno, in termini di narrazione, è strutturato con un prima e un dopo. In questo intervallo di tempo però i ruoli si invertono perché se all’inizio nella struttura famigliare è il marito a essere fuori posto, dopo il ritorno a casa di Teresa è lei a essere l’elemento dirompente, quella che fatica a corrispondere agli altri. Anche il fatto di portare i capelli corti è il segnale di questa inversione di tendenza, della metamorfosi che l’ha collocata laddove una volta stava il marito. Prima era lei a rifiutarne le avances, ora succede il contrario.
Sì, c’è un’inversione. Tra Pietro e Teresa si crea una distanza che prima era vissuta dalla parte di Emma e adesso da quella del marito che la allontana dopo essersi preso la responsabilità di crescere il figlio.
È come se la prigione avesse tolto a Teresa la possibilità di essere madre. All’interno di quello che era il suo nucleo famigliare non viene più percepita così.
Esatto, in un certo senso lei non è più adatta a farlo mentre gli altri hanno perso la capacità di dialogare e di entrare in rapporto con lei, segnati dalle circostanze e dal tempo.
Il montaggio de Il ritorno di Stefano Chiantini
Nel rendere la dimensione esistenziale della protagonista il montaggio svolge un ruolo fondamentale. Lo si vede nelle sequenze iniziali in cui i titoli di testa interrompono la continuità dell’azione restituendo la sensazione che Teresa debba ricominciare ogni volta da capo. Seppur con meno evidenza succede così anche nel resto del film: la frammentarietà è segnale della precarietà esistenziale della protagonista.
Durante il film è meno evidente mentre durante i titoli di testa la differenza la fa il fatto che non si senta alcun rumore. Volevo raccontare lo straniamento del personaggio rispetto al resto del contesto: quelle interruzioni non fanno altro che rafforzare il senso di fastidio e di difficoltà che si respira durante tutto il film. Il montaggio è fatto di stacchi molto netti e anche i suoni sono molto presenti perché comunque mi piaceva raccontare il film in maniera forte e minimale. Anche la scelta del mascherino che chiude e opprime Emma va in contrasto con sonorità onnipresenti, rumorose e caotiche. È come se lei stesse in un carcere per la sensazione che ha di non appartenere al mondo in cui vive.
Ne Il ritorno di Stefano Chiantini parlano i fatti
Il ritorno è un film in cui sono le azioni e non le parole a raccontare le biografie dei personaggi. La ripetitività gestuale e, per esempio, quella di mostrare spesso la scena in cui Teresa si corica a letto per dormire, rende come meglio non si potrebbe la determinazione con cui la donna lotta per conquistare il diritto ad abitare nella sua casa. Anche il tenore ramingo delle numerose scene in cui mostri Teresa camminare per le strade della città è il modo per mostrare la precarietà della sua condizione.
A me piace molto raccontare i fatti attraverso le atmosfere, i silenzi, la fisicità. Un po’ meno amo farlo con le parole perché secondo me se certe cose riescono a venire fuori senza essere dette risultano più forti: hanno più valore. E poi è un tipo di cinema che mi piace di più. Per questo i miei personaggi diventano molto fisici. Come hai detto tu questo continuo reiterare, vagare, ritornare negli stessi posti è un mantra ossessivo che racconta bene l’emotività del personaggio.
In questo, come in altri aspetti del film, ho ritrovato il cinema dei fratelli Dardenne.
Mi fa piacere perché è un cinema che mi piace moltissimo. I fratelli Dardenne sono fra i registi che preferisco.
Non è un caso se per la parte di Antonio hai scelto Fabrizio Rongione che dei registi belgi è l’attore feticcio.
Sì, non è un caso. Con Fabrizio ci inseguivamo da tempo, ma per vari motivi non eravamo mai riusciti a incontrarci. Questa volta ci siamo messi di punta e ci siamo riusciti. Senza voler mettermi a confronto con loro che sono due maestri assoluti però, nel film, c’è un po’ del loro modo di stare dietro al personaggio.
Parli del pedinamento?
Sì, di pedinamento e poi del fatto di stare sempre sul personaggio.
Il formato de Il ritorno di Stefano Chiantini
In questo senso è come se volessi compensare il fatto che Emma è sempre sola. Anche in luoghi solitamente affollati come treno e autobus accanto a lei non vediamo traccia di presenza umana. Tu sei l’unico a starle vicino e lo sguardo della mdp ne è testimonianza. Anche la scelta del formato, più piccolo rispetto a quello normale, va in tale direzione. Sei d’accordo con questa analisi?
Si, lei è chiusa in questa inquadratura: il film è quasi privo di comparse e vicino a lei l’unica presenza è data dalla mdp. Questo è assolutamente voluto: come il fatto di non mettere personaggi intorno a lei, sugli autobus e nel treno. Quando li vedi sembra del tutto casuale. Ho scelto di fare così perché mi piace concentrarmi sui personaggi e nell’assurdo realismo dei miei lavori questo aspetto può diventare quasi surreale perché ti puoi chiedere come mai intorno a lei non ci sia nessuno. Quando racconto amo isolare il personaggio e mentre scrivo mi accorgo di sottolineare il mio fastidio per il mondo circostante. Lo voglio sì, presente, ma nello stridore, nei suoni e per assurdo, nell’isolamento del personaggio.
Hai parlato di realismo, però per il tuo dispositivo hai scelto una forma mista perché al suo interno c’è il cinema verità, c’è il pedinamento, c’è l’assoluta verosimiglianza dei personaggi ma, per esempio, c’è una colonna sonora e poi Emma Marrone che non è un’attrice sociale, ma un volto noto della canzone. Ciò detto il risultato è verosimile ed empatico senza ricorrere ad alcun ammiccamento, dominato com’è da una forma di purezza cinematografica.
Mi fa piacere sentirlo perché la nostra scommessa, la mia e di Emma, era quella di spogliarci di ogni orpello per raggiungere il massimo grado di verosimiglianza e di realtà. Era un tentativo rischioso sotto molti punti di vista per cui sono felice delle tue osservazioni.
La scenografia
Per quanto riguarda le scenografie mi ha molto colpito la corrispondenza tra il bianco dei luoghi del lavoro e quello presente negli ambienti casalinghi. È come se volessi dire che per Teresa il dolore e la fatica deriva dalla mancanza di scarto tra vita pubblica e vita privata. La sua esistenza è un lavoro a casa allo stesso modo in cui lo è nei posti deputati al guadagno del salario.
Sì, c’è una tonalità dominante non solo nella scelta dei colori. Se ci fai caso ho cercato – nel limite del possibile, nel rispetto delle possibilità di tempo e nella difficoltà di trovare delle location -, di eliminare i colori, come per esempio il verde, che potessero in un certo senso ammorbidire la scena o segnare una via di fuga. Sono stato molto attento su questo aspetto, sul fatto di raccontare un mondo scenografico molto “duro”, molto monotono.
La performance di Emma
Immagino che parte del lavoro fatto con Emma consistesse nello spogliarla del suo immaginario per reinventarlo a immagine e somiglianza del personaggio. Dall’altra parte bisognava mettere nel suo bagaglio tanta sostanza perché la sua era un’interpretazione difficile: antididascalica a cominciare dal non poter contare troppo sulla forza comunicativa delle parole. Peraltro la sua performance è davvero buona. Per certi versi sorprendente.
Con Emma abbiamo parlato tantissimo. La prima cosa che le ho chiesto e che lei ha, non solo accettato, ma proprio voluto, è stato quello di mettersi in discussione. Anche il fatto di tagliarsi i capelli – tenendo conto che di lì a poco sarebbe dovuta andare a Sanremo – non è stata una scelta scontata. Da parte mia avevo necessità di spogliarla da tutto: anche di farla vedere con la pelle rovinata e di mostrarsi nuda, mettendosi in gioco con i pregi e difetti che ogni corpo si porta dietro. Con lei abbiamo lavorato molto sulla disponibilità a darsi e mostrarsi. L’impegno è andato anche in direzione di un’essenzialità che io cercavo e volevo a tutti i costi. Parlo di una fissità e di un’astrazione su cui ci siamo particolarmente concentrati perché Emma veniva da un’esperienza lavorativa con un regista bravissimo, ma fondamentalmente diverso da me come Gabriele Muccino. Lei mi prendeva in giro perché a ogni ciak andavo da lei dicendole “Asciutta Emma, sintetica, essenziale, non ti accompagnare con il viso o gli occhi, più togli più arrivi a comunicare” e questo è stato un bel lavoro. A lei mi sono affidato molto perché aveva capito il personaggio, come nella scena dove si abbassa e dice al figlio “mi vuoi bene”. Io quella scena l’avevo scritta e pensata sempre con un minimo di distanza mentre lei mi ha detto: “No Ste’, me lo devi concedere almeno una volta perché in questo momento gli sto dicendo una cosa che è un avvicinamento, fammi abbassare, fammi toccare, fammi fare un movimento verso di lui”. Ha avuto ragione lei.
Stefano Chiantini oltre Il ritorno
Per concludere questa conversazione volevo sapere quali sono gli autori preferiti di Stefano Chiantini, regista de Il ritorno.
I Dardenne te li ho già detti. Ho studiato lettere e ho fatto cinema alla Sapienza quindi ho visto molti film e ho avuto dei riferimenti che sono cambiati nel tempo. Prima mi piaceva molto Tarkovskij, poi mi sono avvicinato ai Dardenne, poi a Kaurismaki, poi a Kusturica e Cassavetes. Una moglie è un film che ho amato e a cui mentre giravo Naufragi ho pensato spesso. Antonioni è un regista che amo. Ci sono più registi che hanno attraversato e influenzato i momenti della mia vita. In questo momento i fratelli Dardenne sono quelli che ho in testa di più.