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Dopo Mezzanotte

Antropophagus II nelle fauci di Master Blaster

Antropophagus II è il sequel del cult dello splatter diretto nel 1980 da Joe D'Amato.

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Il mio negozio, prime prove d’autunno, colonna sonora: Sirius degli Alan Parsons Project.
In principio era la Universal, con i suoi horror in bianco e nero e i mostri tratti dai grandi classici di Poe, Shelley, Bierce, etc…
Tutto filava a gonfie vele e dopo un’entrata a gamba tesa nelle sale cinematografiche, spiazzando un po’ una critica e un pubblico abituati ai toni petalosi delle Rosselle O’Hara e i viali del tramonto, il cinema horror si andava normalizzando ed era sulla buona strada per diventare un prodotto di largo consumo come tanti altri.
Certo ancora si concedeva un po’ alla scena, invitando chi tra gli spettatori fosse malato di cuore ad abbandonare la sala prima della proiezione, ma tutto sommato il genere aveva perso la sua carica eversiva, il potere anarchico della paura.
Anzi, col maccartismo tutto il fantastico si era pienamente adattato (con qualche lodevole eccezione) a diventare una gran cassa mediatica che celebrava la vittoria delle forze del bene e dell’ordine (americano… per carità…) contro il caos, gli alieni e le creature dell’oscurità (ovvero i russi e il comunismo), che con le loro deviazioni minacciavano la tranquillità delle nostre vite.
Poi, nel lontano 1963, Herschell Gordon Lewis disse “venga la luce!” e subito fu fatto Blood feast.
Una pellicola scioccante, il primo splatter di cui si abbia notizia, che con le sue scene cruente sostenute da una trama più evanescente di quella di un porno dell’epoca (eh si, all’epoca i porno avevano soggetto, sceneggiatura, dialoghi e gli attori provavano pure a recitare… vedi Stallone), illuminava l’oscurità di bagliori rosso sangue, andando d’istinto, senza troppi fronzoli, a scavare nelle paure e nei tabù più radicati e ancestrali della società umana.
Come ad esempio il cannibalismo.
Di acqua ne è passata sotto i ponti da allora e dopo aver vissuto il suo zenit tra fa fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90, dopo un finale pirotecnico firmato da Peter Jackson con un meraviglioso dittico (Bad taste e Splatters – Gli schizzacervelli), l’onda di liquami putridi che gridava con orgoglio il suo disgusto finì ahimè in risacca.
In Italia sono gli anni tristi dell’interrogazione parlamentare contro la rivista Splatter ad opera di una Silvia Costa forse inconsapevole di passare con quell’atto agli annali della storia a fianco di Daniele da Volterra, noto anche come il Braghettone, per aver ammutandato le figure un po’ troppo discinte nel Giudizio universale di Michelangelo.

Dario Argento cominciava a fare film brutti, Lamberto Bava si buttava su Fantaghirò e Michele Soavi pensava a salvarsi l’anima realizzando la fiction Francesco.
All’estero Freddy Krueger diventava un bambolotto destinato a far compagnia la notte ai bambini, anziché ad affettarli nel sonno come era ab origine, Jason diventava una serie di film sempre più inguardabili, il povero Leatherface remake, dopo remake, veniva privato di ogni riferimento politicamente scorretto.
Certo se prometteva di non mostrare troppo sangue e frattaglie, poteva continuare a sfragolare passanti, purché bianchi, etero, non fumatori, non bevitori e in perfetta salute.
Persino agli zombie, il prodotto più rivoluzionario dell’immaginario horror, veniva messa la mordacchia per trasformarli in merce da blockbuster patinati per famiglie.
Al povero George Romero non è stato concesso di chiudere gli occhi in pace, senza vedere Arnold Schwarzenegger cercare di riciclarsi come attore drammatico nel pessimo Contagious.
Mi chiedo, con il rammarico e il pessimismo dei vecchi, se gli stessi giovani che considerano i Måneskin un gruppo rock e ribelle abbiano idea di cosa sia un film splatter e abbiano mai provato il catartico potere liberatorio insito in questo genere.
Tutto questo per dire che a me lo splatter manca tantissimo.
Mi manca nelle proiezioni e nelle nuove produzioni, considerando che persino i festival una volta coraggiosi come il Fantafestival pare che da anni abbiano bandito questo genere per virare su filoni più introspettivi al fine di darsi una patina di autorialità.
Ma a rompere la malinconia delle mie riflessioni pare ci abbia pensato Dario Germani, che quest’anno ha deciso di farmi uscire dal torpore post-pandemico a colpi di frattaglie.
Dopo avermi fatto sinceramente divertire con un film leggero, senza pretese ma spontaneo come The Slaughter – La mattanza, l’inarrestabile Dario attira nuovamente la mia attenzione cimentandosi con un mostro sacro del genere: il mai troppo compianto Aristide Massaccesi, Joe D’Amato per chi ne guardava solo i porno.
Ovviamente parlando di Massaccesi sono tanti i lavori che vengono alla mente.

Nella veste di produttore il mio ricordo affettuoso va all’ultimo film di Fulci, Le porte del silenzio.
Non tra i migliori del grande maestro a dire il vero, ma sicuramente un punto d’onore al Massaccesi produttore che, con il coraggio e lo sgangherato romanticismo tipico dei protagonisti del cinema di genere italiano, scommette forte (e perde) pur di far rientrare in carreggiata l’amico che stava lentamente finendo nel dimenticatoio.
Ma se parliamo del Massaccesi regista oltre le orge, un nome torreggia sopra tutti gli altri. Antropophagus!
Ovviamente la trama è molto flebile e lascia alle immagini e alle suggestioni il compito di trapanare il nostro inconscio con il tabù più radicato e inconfessabile della nostra società civile: il cannibalismo.
E forse non è un caso che sia lo stesso filo rosso che parte dal lontano 1963 con il lavoro di Lewis ad arrivare fino ad oggi trovando Germani a confrontarsi con questa pesante eredità col suo Antropophagus II.
Una piacevole sorpresa e una visione con i suoi pro e i suoi contro.
Partiamo dalle cose che ho apprezzato da questo film di agile visione.
Uno dei tratti che sto cominciando ad apprezzare molto della regia di Dario è senza dubbio la leggerezza.
Germani vuole raccontarti storie, non salvare il mondo.
Certamente degli spunti di riflessione si possono trovare se si decide di cercarli.
Lo splatter è la negazione dell’horror imborghesito allo stesso modo in cui il punk divenne la negazione del rock istituzionalizzato e da salotto (i Måneskin?) ed è per sua natura un genere politico nel senso greco del termine.
Ma sta allo spettatore trovare le chiavi di lettura che vuole, il regista si limita a sfondare porte con il primitivo uso della forza bruta.
Quello che vedremo all’interno della stanza è una cosa che riguarda solo noi.
E in questo caso Germani sfonda una porta dopo l’altra, forse senza la delicatezza poetica che seguiva sottotraccia tutto il lavoro di Massaccesi, ma questo non è necessariamente un male.
È difficilissimo fare un sequel rimanendo se stessi, senza cadere nella tentazione di clonare l’originale, specie se ci si deve confrontare con una pietra miliare del cinema.
Lo stile è povero e asciutto, come si conviene al genere, la recitazione zoppica, ma non è importante.
Le attrici, chiuse in un bunker antiatomico, non sono lì per declamare versi di Sofocle, né per dar prova d’arte interpretando il ruolo di Ofelia.
Sono materia prima, carne da lavorare come in un macello, per giungere a una forma finale totalmente diversa da quella della condizione umana.
Anzi volendo trovare lo spunto sociale di cui sopra, possiamo dire che il massacro cominci ben prima che il nostro antropofago entri in azione.
L’ambiente claustrofobico in cui per “motivi di studio” le protagoniste si rinchiudono, diventa un acquario in cui osservare gli attriti sociali di un sistema che sotto la cenere cova contraddizioni pronte ad esplodere.

Germani non esprime giudizi, non ci fa una lista di buoni e cattivi da elogiare o condannare.
Si limita a mostrare lo sviluppo delle relazioni tra tipologie umane incompatibili, costrette a condividere lo stesso ristretto spazio, dipingendo una perfetta metafora dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria.
Quello che certamente manca è un protagonista positivo in cui identificarsi.
Anzi, il personaggio più coerente è proprio il cannibale.
Lui non ha pregiudizi sociali, razziali o sessuali.
Non giudica né ha preferenze.
In modo lineare si limita a perseguire i suoi bisogni naturali più elementari: nutrirsi e riprodursi.
E lo fa in modo automatico, istintivo, ripetitivo e quasi rituale, in una sezione del bunker trasformata in macelleria con un tavolo operatorio che diventa al tempo stesso altare del sacrificio e perverso desco familiare.
In questo lo aiuta molto la azzeccatissima scelta della location, i bunker del Monte Soratte, e la coraggiosissima scelta di non cedere alla tentazione del digitale.
Come in ogni splatter che si rispetti, gli effetti sono realizzati alla vecchia maniera da artigiani degli effetti speciali come David Bracci, che ci sommerge con bidonate di frattaglie ed ettolitri di sangue sparati con un getto ad alta pressione.
Che altro aggiungere?
Dario Germani non ha girato un film con l’ossessione di dover piacere a tutti e a tutti i costi, non si è soffermato sugli estenuanti pipponi introspettivi che hanno ammorbato gli appassionati del genere per oltre un decennio. Sembra che ad un certo punto della sua vita abbia deciso di girare film che gli piacciono, soprattutto per se stesso.
Una cosa che ormai ben pochi registi fanno, dimenticando che quando l’autore è il primo a divertirsi lo stesso godimento verrà trasmesso, in forma esponenziale, al pubblico.
Meditate gente… meditate.
Colonna sonora: First, Last and AlwaysSisters of Mercy

Antropophagus II

  • Anno: 2022
  • Distribuzione: Flat Parioli
  • Genere: Horror
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Dario Germani

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