Per la rassegna “Absolute beginners“, dedicata dalla Festa romana agli esordi col botto di famosi registi, Le dernier combat rappresenta quello notevole che il ventitreenne Luc Besson compie nell’ormai lontano 1983, e che lo destina a un futuro di soddisfazioni fino a renderlo il “Re Mida” del cinema francese, che affronta Hollywood a viso aperto e senza timori o complessi.
Parigi e l’apocalisse
Parigi non c’è più: una guerra nucleare l’ha resa un ammasso indistinguibile di rovine, entro e sopra le quali un residuo ammaccato e brutalizzato di umanità cerca di sopravvivere a scapito di chi le sta intorno con le scarse risorse di cibo ancora rintracciabili.
La popolazione, inoltre, imbarbarita nei costumi e nelle attitudini, ha perso pure il dono della parola e pertanto le scarne comunicazioni tra individui si celebrano o con uno spesso brutale conflitto fisico, o con una gestualità che rende questi sopravvissuti come trogloditi entro una giungla di macerie.
Un piccolo uomo dall’apparenza mite cerca ingegnosamente di costruirsi un rudimentale aereo assemblando pezzi che a noi paiono raccattati a vanvera, ma che alla fine somigliano a qualcosa in grado di librarsi in cielo.
Scampato a un attacco da parte di occasionali nemici, l’uomo parte finalmente in volo lanciandosi dalle finestre di un palazzo e finisce in un’altra area distrutta, leggermente più in periferia, tra le rovine di un ospedale in cui un unico dottore superstite cerca di ripararsi dalla furia distruttiva di un barbaro possente che minaccia di entrare per fare razzia di viveri e medicinali.
Il medico soccorre il pilota, ferito e mezzo svenuto, e lo cura, ricostituendone la salute grazie anche a una abbuffata di pesce, piovuto letteralmente da cielo pochi giorni prima, quasi come ad annunciare un futuro nefasto di stampo biblico.
Si arriverà allo scontro finale tra il nostro piccolo uomo e il massiccio antagonista, tenendo conto che la posta in gioco prevede altresì una merce molto rara, ovvero una donna, l’unica fino ad ora rimasta in vita.
Le dernier combat – la recensione
L’esordio nel lungometraggio di Luc Besson avviene in coerenza con molte delle tematiche che rappresenteranno il suo futuro da regista e pure da produttore.
La sceneggiatura, scritta a quattro mani con l’altro cineasta, qui interprete, anzi protagonista, Pierre Jolivet, rimane incerta sulla strada da prendere, indecisa se restare sul grottesco iniziale (il gesticolare senza parlare crea spesso momenti buffi) o accennare anche a qualcosa di più truce, orrorifico o serio.
Tra gli interpreti notiamo, nel ruolo del cattivo per eccellenza, quel Fritz Wepper divenuto celebre come fido collaboratore dell’ispettore Derrick, mentre con questo film inizia anche il sodalizio tra il regista Besson e un già corpulento Jean Reno.
Il bianco e nero della fotografia rende bene la desolazione che trasuda dalle macerie di un mondo ormai irrimediabilmente compromesso, ma il film, molto irrisolto, rimane nulla più che un esordio curioso ed insolito, stiloso ma anche un po’ troppo calcolato e fine a se stesso.