Se è vero, come diceva il regista francese Alain Resnais, che “la vita è un romanzo”, di certo l’ultimo film di Francesca Archibugi, Il Colibrì, presentato in apertura alla diciassettesima Festa del Cinema di Roma nella sezione Grand Public, sa dare forma e sostanza a questa affermazione. Niente è più romanzesco della vita stessa, basta attraversarla, osservarla e saperla raccontare. E, partendo dall’opera scritta di un bravo romanziere come Sandro Veronesi – che con Il Colibrì ha vinto il Premio Strega 2020 – una regista di talento ed ‘affettività’, come la Archibugi, ha saputo trasporre in arte visiva personaggi, luoghi, sentimenti e linguaggi capaci di raggiungere ogni tipo di pubblico.
Il Colibrì parla di contrapposizioni che fatalmente si attraggono, di amore e morte, gioia e dolore, fragilità e resistenza, paura e coraggio, bugie e verità, attraverso il racconto di una famiglia ‘borghese’, con un avventuroso ed azzardato intreccio fra diverse generazioni e piani temporali (dagli anni Settanta probabilmente al 2030), sempre con uno sguardo non giudicante ma anzi pieno di compassione per padri e madri, figlie e figli, nipoti e amici, fidanzate e fidanzati, e per tutte le figure che sfilano sulla scena del tempo, attraversando mondi differenti ma legati a doppio filo dal gioco imponderabile del destino o delle scelte, fatte o subite.
“Mi è piaciuto molto interpretare questo personaggio – ha affermato Pierfrancesco Favino – per il tipo di mascolinità che racconta, spesso poco descritta e che non ruota attorno all’ossessione della sessualità, pur essendo Marco un uomo circondato da donne, proprio come me nella vita di tutti i giorni. Spesso per riuscire a vedere il presente e il futuro ci aggrappiamo alle cose per cui vale la pena vivere, e che ci danno sicurezza, come abbiamo fatto soprattutto dopo gli ultimi due anni appena trascorsi. In questo senso spero che chi vedrà questo film in sala possa sentirsi meno solo proprio perché tocca temi che riguardano tutti noi che in questo momento”.
Il Colibrì: volare stando fermi in aria.
Il titolo del film si riferisce al nomignolo attribuito dai suoi familiari al protagonista del film, Marco Carrera (un Pierfrancesco Favino solido e indistruttibile, ma ‘senza perdere la tenerezza’, in un ruolo non facile), piccolo di statura da bambino, cresciuto grazie ad una cura voluta dal padre (Sergio Albelli), un ingegnere sognatore che costruiva modellini e discuteva continuamente con la madre (Laura Morante), e divenuto un giovane medico e poi un uomo maturo di elevata statura (morale e non solo).
La metafora del colibrì, capace di restare sospeso in aria sbattendo velocemente le ali, è legata proprio all’attitudine del protagonista di mantenersi saldo e restare sé stesso. Senza particolari eroismi forse, ma cercando di non ferire gli altri né di cedere al rancore e alla disperazione nelle durissime prove che la vita gli presenta. Paragonabili forse solo a quelle del biblico Giobbe e della sua pazienza.
Bisogna attingere alla forza ancestrale della vita per non soccombere a ciò che è insostenibile e impronunciabile: come suggerisce lo psicoanalista di famiglia, interpretato dal sempre corrosivo Nanni Moretti – qui in un ruolo di deus ex machina per il dipanarsi della trama – “Lasci perdere la voglia di vivere. L’importante è vivere”.
Dal passato al futuro prossimo
Nella trama del film si susseguono e sovrappongono personaggi ed eventi in un flusso pressoché ininterrotto dagli anni Settanta (come trapela dai dettagli e dagli abiti) ad un futuro prossimo (che la regista colloca intorno al 2030), sperando che per allora saranno affermati diritti e libertà di scelte ad oggi negate.
La storia di Marco Carrera è legata indissolubilmente a quella di suo fratello Giacomo (Alessandro Tedeschi) e di sua sorella Irene (Fotinì Peluso) – dalla sorte sfortunata – e dei loro genitori e vicini di casa, agli amici più o meno strani della loro adolescenza, alla casualità e al desiderio, al sogno irrealizzabile e per questo perfetto dell’amore di gioventù mai dimenticato, la francese Luisa Lattes (Bérénice Bejo), all’intervento dell’analista Daniele Carradori (Nanni Moretti), alla quotidianità della vita familiare, con la moglie Marina (una notevole prova attoriale di Kasia Smutniak), e più ancora con la figlia Adele (Benedetta Porcaroli) e poi con la nipote meticcia Miraijin (Rausy Giangarè), con la quale condividerà un immenso dolore e una lunga serenità.
A poco a poco tutti i tasselli del mosaico dell’esistenza dei tanti personaggi si incastrano e ricompongono per dare il quadro d’insieme, muovendosi in parallelo su dimensioni temporali e in luoghi diversi: l’estate nella casa al mare in Toscana negli anni Settanta e poi la stessa casa con un breve flash all’oggi; per dare ragione di un altro evento si passa poi alla casa di città in un periodo intermedio fra l’infanzia e l’attualità.
L’operazione era rischiosa, a causa dei tanti personaggi del film, ma l’esperimento di spiazzare e ricomporre è ben riuscita, e tiene anche viva l’attenzione dello spettatore.
Nei titoli di coda del film, la cui colonna sonora è firmata da Battista Lena, è stata ospitata una canzone inedita di Sergio Endrigo e Riccardo Sinigallia dal titolo “Caro amore lontanissimo”, che Claudia Endrigo, figlia del grande cantautore, ha voluto affidare alla voce di Marco Mengoni.
Annullare la macchina da presa, filmare l’invisibile
Chi non ha amato la Archibugi, regista di film quali Mignon è partita, Il grande cocomero e L’albero delle pere, che tra gli anni Ottanta e Novanta lasciarono emergere uno stile personalissimo e uno sguardo ‘al femminile’ delle storie di tutti i giorni, tratteggiando con maturità e indulgenza aspetti critici della famiglia e della società?
A poco a poco, alternando film di grande potenza espressiva a opere cinematografiche più diluite, la regista ha trovato una cifra narrativa che cerca di cogliere il respiro e le emozioni più autentiche dei suoi personaggi, soffermandosi sui volti, sui movimenti e sulle relazioni: la macchina da presa in disparte li accompagna, li sostiene e li rispetta. Bellissimi i primi piani delle attrici e degli attori, giovani e meno giovani, colti nella loro profonda umanità, di fronte alla vita che procede inesorabile sconvolgendo i programmi di tutti.
“Ho amato moltissimo il libro di Sandro Veronesi, volevo essere fedele alla sua scrittura e al tempo stesso farne un materiale personale, perché così lo sentivo – ha raccontato Francesca Archibugi – Il libro è avventuroso sul piano stilistico e, con gli sceneggiatori Laura Paolucci e Francesco Piccolo abbiamo voluto non solo assecondare l’avventura, ma rilanciare. Un unico flusso di avvenimenti su piani sfalsati, come quando si racconta una vita, con episodi che vengono a galla apparentemente alla rinfusa, ma invece sono legati da fili interni, a volte inconsapevoli. La scelta principale di regia, per una storia così fortemente radicata nei personaggi, è stata quella degli attori che dovevano incarnarli. Grandi e piccoli ruoli. Ognuno, primo fra tutti Marco Carrera, ha dovuto portare su di sé l’onere del racconto. Anche in questo film, come nei precedenti, il mio desiderio è stato annullare la macchina da presa, riuscire a creare la percezione che la storia si stesse raccontando da sé. Non è un esercizio di regia facile. A volte la cosa più difficile da inquadrare è il viso di un uomo, di una donna, di ragazzi e bambini. Far capire i sottotesti. E filmare l’invisibile”.
Francesca Archibugi: selezionata in adolescenza per interpretare Ottilia nel film RAI Le affinità elettive, tratto dall’omonimo romanzo di Goethe, dopo gli studi presso il Centro Sperimentale di Cinematografia, realizza diversi cortometraggi e sporadicamente lavora come attrice. Nel 1988 debutta come sceneggiatrice e regista con Mignon é partita, film che descrive le prime esperienze e delusioni degli adolescenti (vincendo 5 David di Donatello), cui segue Il grande cocomero nel 1992, sul tema della neuropsichiatria infantile, attraverso la storia di una dodicenne con disturbi psichici e della sua famiglia. Spesso i temi affrontati nei suoi film, come quelli relativi all’adolescenza, s’ispirano alle proprie vicende familiari. Tra sceneggiature (collabora con Virzì alla scrittura de “La pazza gioia” e di molti film), serie televisive (fra le altre, Romanzo famigliare, Rai1), lungometraggi (fra gli altri: L’albero delle pere(1998), Lezioni di volo (2007), In nome del figlio (2015), Gli sdraiati (2017), Vivere (2019)) e molti premi vinti, la regista romana non dimentica l’impegno contro la violenza alle donne (É stata lei, 2013). Il Colibrì è il suo ultimo film.