Il cinema di Yorgos Lanthimos e la Greek Weird Wave
Crudele, algido, estremo: che piaccia o meno, il divisivo Yorgos Lanthimos non lascia indifferenti.
Massimo rappresentante e ispiratore di quella Greek Weird Wave che, rinnovando i canoni e la poetica del cinema greco, ha imposto a inizio millennio una messinscena glaciale, a tratti surreale e grottesca, certamente alienata per affrontare il disagio e gli assetti disfunzionali della contemporaneità, il regista ateniese si è imposto a pubblico e critica grazie alla forza delle sue opere disturbanti, radicali e allegoriche, sempre profondamente attente alle dinamiche sociali, alle logiche di potere e al tema dell’identità.
Un marchio di fabbrica, questo, grazie al quale Lanthimos, assieme agli altri esponenti della citata nouvelle vague – tra cui Athina Rachel Tsangari, Alexandros Avranas, Yorgo Zois e, da ultimo, il Christos Nikou di Apples (2020) –, ha saputo rilanciare a livello internazionale quel cinema ellenico rimasto orfano del grande Theo Angelopoulos, padre del Nuovo Cinema Greco.
Quello di Yorgos Lanthimos rappresenta, specie a inizio carriera, un cinema che, pur ricco di suggestioni e riferimenti cinefili, non nega la sperimentazione, l’azzardo, il rischio della caduta. È da qui che emerge uno stile personale, perfettamente riconoscibile, a sua volta imitato/imitabile.
Ciò non significa fissità della forma. L’autore greco taglia, aggiunge, smussa. Ed è così che nel suo percorso artistico compaiono grandangoli, zoom, carrelli e inquadrature tanto ricercate nella composizione da sfiorare il manieristico. Restano però le atmosfere, il clima, il tratto simbolico, il senso: tutto all’insegna di quell’ottica pessimista che individua nel potere il suo cuore tematico. Quel potere che Lanthimos, nato nel 1973, un anno prima della caduta della dittatura dei colonnelli, avverte come epicentro di un terremoto esistenziale che annulla volontà e coscienze, e che, anche a causa della crisi economica del 2009, produce crepe, scuotimenti e crolli ancora ai giorni nostri.
L’esordio anomalo di Lanthimos nel lungometraggio: la commedia My best friend diretta assieme a Lakis Lazopoulos
L’esordio nel lungometraggio del regista greco è piuttosto anomalo rispetto alle sue successive scelte estetiche e concettuali. Con la sua opera prima, Yorgos Lanthimos mette in scena assieme a Lakis Lazopoulos una divertente commedia grottesca giocata sul classico triangolo amoroso dal titolo My best friend (nel titolo originale, O kalyteros mou filos, 2001). È la storia di Konstadinos (lo stesso Lakis Lazopoulos), venditore di assicurazioni che, dopo aver perso l’aereo per Parigi, torna a casa trovando il suo miglior amico Alekos (Antonis Kafetzopoulos) a letto con la moglie Andrea (Vera Krouska). Non visto dai due, Konstadinos decide di far finta di niente, lasciando credere loro di trovarsi in Francia.
Come si diceva, si tratta per Lanthimos di un esordio sui generis. Non perché la pellicola non offra spunti interessanti in sé, ma per l’allestimento tutto sommato convenzionale che la caratterizza. Un elemento, questo, certamente inconsueto rispetto alle pellicole dai toni disturbanti cui ci abituerà il regista greco, il quale soltanto quattro anni dopo potrà dare pieno sfoggio della sua originalissima visione/interpretazione della settima arte con il film Kinetta (2005).
Kinetta: il Lanthimos che ti aspetti
Con la sua opera seconda Yorgos Lanthimos non si nasconde più e mette in scena un racconto alienato, cinico ed estremo, in cui si narra la non-storia di una ragazza e di due uomini (un poliziotto e un cameraman) che trascorrono il loro tempo simulando/ricostruendo scene di aggressione immaginarie o già avvenute.
In Kinetta non ci sono nomi, la trama è ridotta ai minimi termini, i dialoghi sono pressoché assenti. Ogni elemento, dalla fotografia desaturata alla recitazione straniata, concorre all’abolizione dell’empatia in un racconto polisemantico in cui si mostra meccanicamente la perdita d’identità nell’ambito di un contesto sociale dove il vuoto di senso viene colmato dalla contraffazione/finzione. Ma non basta. Perché la pellicola pone in risalto anche l’istinto di violenza e sopraffazione che sottostà alle relazioni interpersonali. E poi l’incomunicabilità, la solitudine, l’indifferenza. Infine il potere – su tutti quello esercitato dal poliziotto sulle migranti, a cui chiede prestazioni sessuali in cambio di documenti –, che incombe con la sua forza manipolatrice come ossessione o minaccia.
Insomma, tutto è rigidamente, geometricamente freddo in Kinetta. Tutto tranne lo sguardo concitato della camera a mano mentre pedina gli anonimi protagonisti (interpretati da Evangelia Randou, Aris Servetalis e Costas Xikominos). Sguardo sporco, spesso fuori fuoco. Sguardo disperato, rassegnato, impazzito di un lungometraggio ellittico ed ermetico che, pur con qualche eccesso, è opera seminale di quella cinematografia lanthimosiana che nel terzo film, Dogtooth (titolo internazionale di Kynodontas, 2009), troverà uno dei punti di massima espressione, tanto da vincere il premio Un Certain Regard al Festival di Cannes 2009 e ottenere la candidatura all’Oscar 2011 come miglior film straniero.
Il successo internazionale con Dogtooth
In Dogtooth viene raccontata la storia di una famiglia benestante formata da madre, padre, due figlie e un figlio. I tre ragazzi sono ormai adulti. Ma lo stato di inconsapevole segregazione in cui vengono tenuti dai genitori fa di loro soltanto dei bambini cresciuti. Privi persino di un nome, i tre (interpretati da Angeliki Papoulia, Mary Tsoni e Hristos Passalis) non sono mai usciti di casa, convinti che lì fuori ci sia un mondo “brutto, sporco e cattivo” che potrà essere affrontato soltanto quando sarà loro caduto il dente canino. Ad avere accesso a questo sistema chiuso è la sola Christina (Anna Kalaitzidou), chiamata a soddisfare gli istinti sessuali del figlio maschio. Una presenza, la sua, che rischia di far crollare il castello di menzogne architettato da padre e madre (rispettivamente interpretati da Christos Stergioglou e Michele Valley).
Con Dogtooth, Lanthimos – autore della sceneggiatura assieme a Efthymis Filippou – propone una surreale e spietata allegoria che, servendosi delle dinamiche di una disfunzionale famiglia borghese, mette a nudo la mostruosità oppressiva e adulteratrice dei regimi totalitari e delle società chiuse. Ma a ben vedere è il potere in senso più ampio l’oggetto dell’analisi di questo film dallo sguardo entomologico. Il regista ne mostra grottescamente le perversioni, le brutalità e le mistificazioni propagandistiche. Emergono in tal modo gatti mortalmente pericolosi, fratelli immaginari uccisi, parole manipolate di cui viene stravolto il senso. Ed è così che persino Frank Sinatra nella paterna pseudo-traduzione di My way finisce per diventare un nonno che invita i nipoti a rispettare la famiglia.
Come in Kinetta, mancano i nomi, la messinscena è fredda, la recitazione distaccata. Dogtooth lascia che humor e venature hanekiane si compenetrino a vicenda per formare uno straniante racconto politico ed engagé attraverso cui denunciare la cultura patriarcale (quella che consente al solo figlio maschio di soddisfarsi sessualmente), l’annullamento della personalità, la mercificazione del sesso. Vige un clima di frustrazione repressa e violenza latente pronta ad improvvise fiammate. S’impone una via di fuga. Già, ma come? Lanthimos non fornisce risposte dirette, ma ricorre ad una suggestione metacinematografica: sarà la visione delle videocassette di Rocky, Lo squalo e Flashdance ad instillare nella figlia maggiore il desiderio di aprirsi al mondo. Insomma, per il regista greco il cinema – quand’anche di puro intrattenimento – è pur sempre un veicolo di riflessione e liberazione.
DOGTOOTH: il capolavoro disturbante di Yorgos Lanthimos
Alps, quarto film di Lanthimos che chiude la stagione greca
Il quarto lungometraggio di Yorgos Lanthimos non si allontana dalle tematiche dei film precedenti. Alps (2011) – vincitore alla 68esima Mostra del Cinema di Venezia del Premio Osella per la miglior sceneggiatura scritta ancora una volta dal regista con Efthymis Filippou – è la storia di uno strano gruppo di individui composto da un’infermiera (Angeliki Papoulia), un paramedico (Aris Servetalis), una ginnasta (Ariane Labed) e il suo allenatore (Johnny Vekris), il cui compito, dietro compenso, è quello di sostituire per breve tempo le persone da poco decedute presso le rispettive famiglie.
Monte Rosa, Monte Bianco, Cervino: così si fanno chiamare i personaggi in cerca d’autore della più pirandelliana delle pellicole di Lanthimos. Esattamente come le montagne della catena alpina da cui è tratto il titolo di questo racconto che s’interroga – come Kinetta – su quell’urgenza d’identità rivelatrice di un incolmabile vuoto esistenziale. È questa stessa urgenza, molto più del denaro, a costituire il bisogno che spinge i protagonisti ad assumere le vesti altrui. Un bisogno che, nel caso dell’infermiera/Monte Rosa, diventa feroce, disperata dipendenza. E così, dietro una fuorviante patina solidaristica, Lanthimos torna a mostrarci il baratro interiore dentro il quale collassano vite a perdere: non quelle dei morti, ma quelle dei vivi, destinati a restare soli e incompresi. Il tutto ancora una volta sottolineato dalla messinscena algida e alienata, su cui sorge infine un interrogativo sulla surrogabilità degli affetti: cosa manca davvero di chi non c’è più?
La nuova stagione delle produzioni in lingua inglese: The Lobster
Con Alps si conclude quella che potremmo definire come la stagione greca di Yorgos Lanthimos. Per la sua pellicola successiva, infatti, il cineasta ateniese si avvale per la prima volta di un cast internazionale composto da star hollywoodiane.
Parliamo di The Lobster (2015), racconto distopico girato in lingua inglese in cui si narra di una società dove le persone rimaste senza partner, dopo essere state rinchiuse in un albergo diretto da un’algida donna (Olivia Colman), hanno quarantacinque giorni di tempo per trovare una nuova anima gemella. In caso di fallimento queste vengono trasformate in un animale a loro scelta. Tra loro c’è David (Colin Farrell), architetto appena lasciato dalla moglie, il quale, dopo aver tentato invano l’approccio con una donna senza cuore (Angeliki Papoulia), onde evitare di essere trasformato in animale (l’aragosta – in inglese lobster – è quello da lui scelto), fugge nei boschi per unirsi ad un gruppo di ribelli solitari dove vigono regole opposte: qui a nessuno è concesso di avere rapporti sentimentali e/o sessuali con altri individui. Peccato però che tra loro ci sia un’affascinante donna miope (Rachel Weisz) della quale David finisce per innamorarsi.
Con il suo quinto lungometraggio, il regista greco torna di nuovo a scandagliare le strutture sociali repressive: The Lobster è una dolorosa immersione nei meccanismi di controllo che caratterizzano anche i sistemi apparentemente più liberali (il gruppo di ribelli), dove comunque l’autodeterminazione è negata e l’individuo costretto a conformarsi. Davanti a questo muro autoritario apparentemente insuperabile Yorgos Lanthimos apre una breccia: è la forza dell’amore la vera risposta al potere. Non un corpo da quest’ultimo plasmabile (la trasformazione uomo/animale), ma un sentimento libero e incontenibile pronto a rompere le convenzioni. Si tratta di un accesso d’ottimismo dell’autore o di un suo feroce trompe-l’oeil? Quale che sia la risposta, resta la violenza di fondo che permea l’intero racconto e che inserisce The Lobster nella scia di quella cinematografia attraverso cui si perpetua la lezione crudele di Michael Haneke.
In un simile contesto, i toni grotteschi non possono che ridursi ai minimi termini, messi ai margini di una pellicola improntata, nel consueto stile lanthimosiano, alla freddezza dell’immagine e dell’interpretazione attoriale. Il cineasta però dà anche dimostrazione della costante rinnovazione estetica del proprio cinema. E così compaiono voice over, slow-motion, grandangoli. La composizione scenica sembra farsi più ricercata, maggiormente attenta alle simmetrie. E il commento musicale – spesso affidato ad archi dissonanti – diventa elemento narrativo fondante. Il tutto al servizio di una storia imperniata sulla forza dei sentimenti e su quell’omnia vincit amor su cui però resta un amaro punto interrogativo.
Il sacrificio del cervo sacro: la tragedia greca ai giorni nostri
Il sesto lungometraggio di Yorgos Lanthimos dichiara esplicitamente quella discendenza dalla tragedia classica greca, peraltro già a tratti ravvisabile in alcune delle sue precedenti opere.
Il sacrificio del cervo sacro (2017) è infatti la trasposizione fortemente rielaborata dell’Ifigenia in Aulide di Euripide. Non una novità nel cinema ellenico, se si ricorda l’Ifigenia (1977) di Michael Cacoyannis.
Lanthimos ha però il pregio di attualizzare l’opera euripidea secondo i suoi canoni estetici e concettuali pur non stravolgendone il senso più profondo. E ciò anche grazie all’ottima sceneggiatura dello stesso regista e di Efthymis Filippou, vincitrice del Prix du scénario al Festival di Cannes 2017.
La trama è intrigante: il misterioso Martin (un ottimo Barry Keoghan) si insinua sempre più prepotentemente nella vita familiare del cardiochirurgo Steven Murphy (Colin Farrell) con un’assurda pretesa: il medico dovrà uccidere, a sua scelta, un membro della propria famiglia composta dalla moglie Anna (Nicole Kidman) e dai figli Kim (Raffey Cassidy) e Bob (Sunny Suljic). In caso contrario tutti costoro moriranno. È la punizione/vendetta che il giovane infligge all’uomo per la morte del padre, deceduto durante un’operazione effettuata dallo stesso Steven dopo aver bevuto. In seguito al rifiuto di quest’ultimo di eseguire quanto richiesto dal ragazzo, Kim e Bob si ammaleranno inspiegabilmente.
Il tema della colpa e dell’espiazione è alla base di questa sorta di thriller/horror crudelmente retto dalla legge del contrappasso. Lanthimos torna al tema dell’ineluttabilità del potere – qui esercitato dalla figura allegorica di Martin – allargando lo sguardo sulle dinamiche ipocrite ed egoistiche che governano i rapporti umani. Per il regista greco è la legge del branco a regolare persino i meccanismi delle più strette relazioni sociali; anche all’interno di quelle famiglie borghesi spesso oggetto del suo sguardo. Ne è riprova la figura paradigmatica di Anne/Kidman: il suo affetto di madre non implica il sacrificio personale. La scelta del “cervo sacro” da immolare viene da lei dirottata sul più debole dei figli. Perché non ci sono amore o identità che tengano: nel freddo sistema lanthimosiano si è tutti sostituibili, inessenziali.
Yorgos Lanthimos compie la sua amara indagine socio-antropologica ricorrendo ad una mise-en-scène dai rimandi decisamente kubrickiani: le carrellate a seguire evocano l’iconografia di Shining (1980); l’ambientazione, il milieu a là Eyes Wide Shut (1999). Ma in realtà i riferimenti cinematografici sono molteplici: il Monicelli di Un borghese piccolo piccolo (1977) nel sequestro di Martin, il Pasolini di Teorema (1968), già precedentemente evocato in Dogtooth, e soprattutto quel Michael Haneke di Funny Games (1997 e 2007) che irrompe in un sottofinale traboccante di cinismo e crudeltà. Nel confezionamento dell’opera prevale come sempre la freddezza lanthimosiana, stavolta risaltata, oltreché dalla recitazione meccanica, dal commento musicale minimalista. Mentre l’abbondanza di carrelli, zoom, slow-motion e lenti grandangolari conferma, da The Lobster in poi, l’evoluzione estetico-formale di un autore sempre pronto a non mettere comodo il proprio pubblico.
L’opera settima di Lanthimos: La Favorita
Un triangolo femminile fatto di intrighi e lotte di potere è alla base del settimo lungometraggio di Yorgos Lanthimos. Parliamo de La favorita (2018), racconto in costume ambientato nell’Inghilterra del XVIII secolo dove, sullo sfondo del conflitto con la Francia, si sfidano alla corte della regina Anna (Olivia Colman) le due cugine Sarah (Rachel Weisz) e Abigail (Emma Stone). La prima, cinica amante e confidente di una sovrana sofferente nel corpo e nello spirito, riesce, in virtù dello stretto rapporto con quest’ultima, ad ottenerne favori e influenzarne le decisioni sugli affari di Stato. La seconda, nobile decaduta dall’apparente carattere remissivo, dopo essere entrata a corte in punta di piedi, è invece chiamata a svolgervi le mansioni più umili. Non sarà sempre così. Perché Abigail, grazie alla sua scaltrezza e ai suoi stratagemmi, riuscirà a poco a poco a scalare le gerarchie interne arrivando ad insidiare il ruolo di favorita appartenente alla cugina. Tra le due, perciò, si scatenerà una guerra senza esclusione di colpi. Una guerra che, mettendo in campo crudeltà e astuzia, porrà in evidenza il loro lato peggiore.
Sulla base di un racconto tratto da una storia vera, il regista ellenico torna ancora una volta ad analizzare le dinamiche del potere, affidando ad un trio di attrici in stato di grazia il compito di scomporne i meccanismi fondati su manipolazione, mistificazione e violenza.
Quella che la pellicola mette in mostra è una lotta per la supremazia che non conosce limiti, in cui anche il sesso e i sentimenti vengono utilizzati come merce di scambio. Una visione, questa, spesso ricorrente nella cinematografia lanthimosiana. E che qui viene ribadita anche per sottolineare come ne La favorita non esista alcun confine tra vittime e carnefici. Perché a ben vedere non è soltanto vittima la regina Anna, ferocemente pronta a colmare i suoi vuoti affettivi alimentando il conflitto tra le due contendenti; così come non sono soltanto carnefici Sarah e Abigail, la cui aspirazione è pur sempre diretta verso un potere che impone un atto di sottomissione.
Insomma, è il Lanthimos di sempre, freddo, aspro, ai limiti del nichilismo. Eppure – anche grazie alla sceneggiatura di Deborah Davis e Tony McNamara – emerge dal racconto una solida vena di black humor che ne smussa le asperità. Così come smussano le immagini i molteplici grandangoli con cui viene messo in evidenza un sontuosissimo impianto visivo – frutto di un’accurata ricerca iconografica – che, anche grazie alla fotografia realizzata con la sola luce naturale, offre allo spettatore momenti di pura esaltazione dello sguardo.
La favorita riscuote un ottimo riscontro di pubblico e critica. Il film riceve ben 10 nomination agli Oscar 2019, ottenendo la statuetta d’oro per la miglior attrice protagonista a Olivia Colman, la quale, per la sua interpretazione della regina Anna, verrà premiata anche con il BAFTA 2019 e con la Coppa Volpi alla 75esima Mostra del Cinema di Venezia. Kermesse nel corso della quale la pellicola del regista greco riceverà anche il Leone d’argento – Gran premio della giuria.
Per Yorgos Lanthimos si tratta della definitiva consacrazione internazionale.
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