Prodotto da Indigo Film con Rai Cinema e in collaborazione con Sky Documentaries, Il cerchio di Sophie Chiarello, unico film italiano passato in concorso ad Alice nella Città, e vincitore del David di Donatello come miglior Documentario é stato presentato ieri a Palermo grazie a Sole luna doc film fest.
Realizzato alla scuola Istituto Comprensivo Daniele Manin plesso Di Donato di Roma Municipio 1 Roma con i bambini della sezione B della scuola Daniele Manin di Roma dal 2015 al 2020, Il Cerchio di Sophie Chiarello lancia un messaggio di speranza ricordandoci chi eravamo e forse chi siamo ancora.
Il cerchio ; Sophie Chiarello racconta la scuola e l;infanzia di oggi
Sophie Chiarello e il suo Il cerchio
Nel film scegli di far sentire non solo la tua voce, ma anche di rendere evidente la presenza della mdp. Rinunciare a una dimensione neutra e dunque universale a favore di una intima e personale equivale a fare del film un territorio lontano da verità assolute, ma più simile a uno spazio di domande aperte, tipico di un certo tipo di documentario.
Sono partita da un’autenticità sgombra da qualsiasi forma di pregiudizio. Come regista avevo bisogno di ritrovare la mia voce e il mio sguardo e quindi di avere a che fare direttamente con la telecamera eliminando ogni filtro tra me e lei. Solo così avrei potuto capire dove si posava il mio sguardo. Non sarei potuta entrare in una classe con un dispositivo cinematografico e documentario tradizionale, quindi era fondamentale che la telecamera diventasse un’estensione di me. L’altro aspetto che ricercavo era di eliminare il più possibile l’artificio cinema e di spogliarmi io stessa dai preconcetti e idee che mi ero fatta osservando la crescita dei miei di figli o semplicemente come parte di una società educante.
Non volevo cercare la dimostrazione di una teoria piuttosto che un’altra, avendo intenzione di lasciarmi guidare totalmente dai ragazzini. Anche questo ha determinato il film, soprattutto questo perché, di fatto, non sapevo verso che cosa stavo andando. Conoscevo l’esperienza della scuola da genitore, ma non sapevo chi avrei incontrato perché mi sono ritrovata una classe che si è composta poco prima di iniziare le riprese. Per questo ho deciso subito che la maniera migliore di procedere era di farmi guidare da loro.
I bambini e le riprese
Questo ti è tornato utile per abbassare il livello di recitazione dei bambini. Palesando la presenza della mdp e lasciando loro liberi di relazionarvisi non dovevano far finta che non ci fosse.
Questa cosa è successa proprio per quello che ti dicevo prima. La maestra con cui ho lavorato era quella avuta da mio figlio nei cinque anni precedenti per cui è attraverso di lei che ho scoperto questa scuola e il suo universo. Insieme a lei avevano deciso che non avrei voluto conoscere i genitori dei bambini, a eccezione di un primo incontro in cui ho raccontato loro cosa avrei voluto fare e che attraverso la maestra li avrei tenuti informati su quello che sarebbe venuto dopo. Questo proprio perché non volevo conoscere in anticipo la storia dei bambini: da dove venivano, chi erano le loro famiglie. Il desiderio era quello di avere la loro voce e la loro verità. Del resto non mi importava. Un altro aspetto è che con la maestra abbiamo capito subito che dovessero essere loro ad abituarsi alla mia presenza e quindi a venire verso di me, perciò all’inizio io me ne stavo sempre un po’ in disparte.
In effetti è quello che vediamo soprattutto all’inizio del film, con i bambini che si avvicinano per fare la tua conoscenza.
Esatto! Piano piano si sono avvicinati e hanno preso dimestichezza con la telecamera. Se ti faccio vedere come mi hanno disegnato vedresti che la mdp con tanto di monopiede e microfono sembrano l’estensione della mia mano. A un certo punto la telecamera è sparita o addirittura se ne sono appropriati e quello che si è creato è stato uno spazio di ascolto, collettivo o intimo, a secondo del caso. Io mi presentavo durante la ricreazione ed erano loro a chiedermi di andare a parlare. Non c’è stato niente di programmato quindi c’è chi si è svelato di più e chi invece è rimasto lontano da me: non tutti hanno avuto la stessa reazione. È stato tutto così magico e naturale, ma di quanto lo fosse me ne sono accorta solo montando perché durante le riprese ero totalmente immersa dentro a questa cosa.
La crescita dei bambini raccontata da Sophie Chiarello
Rispetto a quello che racconta il film ho trovato molto calzante lo scarto tra il primo piano delle mani di genitori e figli strette una all’altra, con le immagini in cui mostri i bambini entrare a scuola. Si tratta del primo giorno di scuola, ovverosia di un percorso di crescita nel quale i bambini faranno il primo passo del viaggio che li farà diventare adulti. Per come è montata la sequenza iniziale riesce a farci sentire quello che nella vita dei bambini è un passaggio epocale perché si tratta di iniziare a vivere un’esistenza che li vede impegnati in prima persona e in autonomia rispetto alle consuetudini famigliari.
Sì, esatto è proprio così.
Le interviste ai bambini risultano molto particolari perché i primi piani dei protagonisti rappresentano un vero e proprio paesaggio che in ognuno dei cinque anni di riprese tu torni ogni volta a verificare per cogliere assonanze e dissonanze rispetto a come lo avevi lasciato. La visione di quei volti travalica le parole portando il film su un livello di comunicazione superiore.
Sì, questo che mi stai dicendo mi rimanda a quello che c’è dentro quei volti. Sono molto affascinata dalle storie delle persone “comuni” perché dietro a ognuna trovi dei racconti straordinari nel senso di fuori dall’ordinario, dipende da come le osservi e le racconti. Per me dietro a quei volti ci sono interi universi. Di fatto quella classe, come tantissime altre, si erge a simbolo di tutti i bambini, della scuola e della società perché se mettessimo i genitori di questi ragazzini seduti in cerchio avremmo la rappresentazione della società.
Il modo di raccontare di Sophie Chiarello
I campi stretti su di loro raccontano il turbinio di emozioni che li attraversano ma sono anche l’emblema di una purezza che ci fa ricordare chi siamo e, forse, da dove veniamo. Mentre li osserviamo è come se per magia ci fosse data la possibilità di rivederci bambini. Peraltro quando allarghi il campo scegli di farlo in un ambiente esteso e luminoso, capace di restituire l’energia e la libertà di quelle giovani vite.
Ti ringrazio per queste parole, sono contentissima. Il mio modo di girare è molto istintivo. Oltretutto per me fare questo film, da persona e da regista, è stato cercare e trovare il mio sguardo per cui sono felice di quanto hai appena detto. Ho trecento ore di materiale girato e oltretutto la mia idea era anche di raccontare l’universo intorno alla scuola. Nel film non c’è perché, come sai, al montaggio il girato si concentra di più verso quello che deve essere il clou del film, scartando le cose superflue e distraenti rispetto al nucleo principale. Ho filmato tantissime immagini del quartiere intorno alla scuola perché avevo voglia di vedere che cosa intercettava lo sguardo dei bambini. Mi sono lasciata spesso prendere la mano dalla telecamera perciò sono felice del pensiero che hai appena espresso. Penso di avere un gusto mio e amo moltissimo il racconto per immagini. Devo aggiungere che la collaborazione con Andrea Campajola, il montatore del film, è stata molto importante e intensa per riuscire a tirare il filo che ci ha portato alla forma finale del film. Siamo partiti da quasi 300 ore di materiale. Andrea ha un’intuizione e una sensibilità eccezionali, per me è un poeta del montaggio. Fondamentale è stata anche la guida di Francesca Cima, la produttrice, e le sue collaboratrici, che hanno portato sul film e lungo tutto il processo di montaggio, uno sguardo sempre lucido e appassionato. Questo ci ha permesso di raggiungere un equilibrio e un’armonia nel racconto che non era facile né scontato da trovare.
A scuola si può stare insieme
Il tuo punto di vista sulla scuola più che sul piano della didattica si concentra sul fatto che sia diventato uno dei rari luoghi in cui è possibile stare insieme e ascoltarsi. Sembri dirci che la scuola insegna innanzitutto a stare insieme.
Mi sono appassionata al lavoro di questa maestra e mi ricollego a quello che dici quando affermi che nel film ci si rivede. Io l’ho capito dopo perché la musica finale, una canzone francese degli anni 70/80 me la sono ricordata da sola: non l’ho cercata ma è riemersa dalla memoria mentre montavo il film, a testimonianza che per me questo lungometraggio è stato come se avessi osservato dal buco della serratura la mia classe negli anni ottanta, in Francia, alla periferia di Parigi, figlia di italiani emigranti in queste classi miste dove però forse non c’era tutta questo dibattito. E’ stato come andare a ricercare e a capire come sono cresciuta in quella posizione particolare. Oltretutto incontrando questa maestra, il cui lavoro è quello di fare da guida ai ragazzini, ho constatato come la scuola sia capace di insegnarti gli strumenti per poter poi camminare da solo nel mondo. La maestra di cui parlo, Francesca Tortora, è stata fondamentale per il mio lavoro. È stata lei a preparare il terreno che poi è diventato film. È stato un impegno che ho fatto con lei, osservando il suo metodo, e poi, anche se Francesca è in silenzio e in disparte era comunque sempre presente, pronta a supervisionare ogni aspetto. Lei è stata la garanzia che questo spazio d’ascolto fosse protetto: usato dai bambini e non da noi.
Lasciare i bambini liberi di interagire con la telecamera e quindi con il tuo sguardo in realtà rispecchia il principio che hai appena affermato. Ne Il Cerchio lo scambio non è unilaterale ma reciproco perché mente tu guardi i bambini loro fanno la stessa cosa con te.
Sì, è totalmente reciproco. Per me questa è stata un’esperienza che va oltre il cinema.
Il cambiamento dei bambini, ma anche di Sophie Chiarello
Infatti per questo volevo chiederti se nel girarlo hai tenuto conto del fatto che durante i cinque anni di riprese a cambiare non sarebbero stati solo i bambini ma anche tu, come regista e come persona. In parte me lo hai detto all’inizio affermando che non sapevi dove il film sarebbe andato.
L’ho preso in considerazione sotto tutti gli aspetti. Anche dal punto di vista meramente tecnico e artistico, tanto è vero che con il procedere del film il mio modo di girare si è affinato. Credo si veda.
Quello che hai detto sarebbe stata la domanda successiva perché effettivamente è così.
Penso si veda un’evoluzione e un cambiamento perché poi gestire una telecamera, venticinque bambini che parlano, un microfono, non era facile. Ad aiutarmi è stata in parte la mia formazione di aiuto regista. Per me si è trattato di prendere delle misure, capire cosa mi piaceva di più. Questa scuola era uno spazio fisico che avevo voglia di filmare perché nel frattempo anche la sua struttura andava cambiando. Standoci dentro ti accorgi che fatica è stare in piedi: ci sono dei buchi, ci sono cose che si rompono e che poi vengono riparate. Com’è successo per una piccola finestra di cui avrei potuto raccontare la storia delle sue numerose peripezie. Dentro quelle mura ho potuto cogliere i segni e le tracce che il tempo lascia su di noi e sulle esperienze che attraversiamo. Questo mi ha accresciuta, cambiata in meglio anche come adulta nella consapevolezza di fare parte di una comunità educante. In quest’ultimo caso non solo in quanto genitore, ma proprio per la postura che decidi di avere: anche come regista, perché Il cerchio mi ha fatto capire dove ho voglia di andare. Per questo motivo ho cercato di ascoltarmi il più possibile.
L’immagine dei bambini riuniti in un cerchio predisposti all’ascolto dell’altro lancia un messaggio di speranza in tempi in cui il solo riunirsi intorno a un tavolo per scongiurare la morte di centinaia di persone sembra una cosa impossibile.
Esattamente, credo che la cosa interessante de Il cerchio e del mettersi intorno a un tavolo è che è tutto complesso, ma anche possibile.
La conclusione di Sophie Chiarello
La storia si conclude nel 2020 nel bel mezzo della pandemia. La cosa che deve far riflettere di più noi adulti è la nostalgia dei bambini consapevoli del fatto che con il termine della scuola non potranno più tornare a far parte di quella collettività scolastica. Le immagini del film ci restituiscono la sensazione del paradiso perduto ed è come se i bambini ci dicessero che da soli non si va da nessuna parte o si fa più fatica farlo.
Sì, totalmente. Per questo parliamo di scuola anche come luogo fisico dove nonostante la complessità tutto è possibile, e dove forse i bambini si sentono liberi di esprimersi. Però poi finito quel momento magico di fatto c’è da chiedersi se la società è pronta ad accogliere questo cerchio e a dargli una continuità. Conoscendo bene questi ragazzini e avendo una relazione con loro in qualche modo mi rendo conto che l’uscita dal mondo dell’infanzia è molto più difficile. Ad attenderci non c’è un cerchio che ci rende tutti uguali. Mi sto inoltrando in sentieri che forse c’entrano poco con il cinema ma mi piacerebbe sapere che l’ascensore sociale esiste. La realtà mi dice che non è così ma poi penso a quanto sia importante per questi bambini aver attraversato questa esperienza per la possibilità di poter attingere alle tracce che questa ha lasciato in loro.