Prodotto da Jason Blum e Ryan Murphy e diretto da John Lee Hancock, Mr. Harrigan’s Phone, ultimo horror targato Netflix, è l’adattamento di un racconto breve di Stephen King. Una ghost story che fa della fedeltà il suo principale punto di forza.
Mr. Harrigan’s Phone Trama
Dal 2003 al 2008, ogni settimana per tre giorni a settimana, il giovane Craig (Jaeden Martell), in cambio di qualche dollaro, legge al vecchio miliardario John Harrigan (Donald Sutherland) i classici della letteratura. Sono gli anni cruciali del passaggio dall’infanzia all’adolescenza e Craig, inevitabilmente, comincia a vedere nel solitario e cinico Harrigan una figura di riferimento se non, addirittura, un amico. La scomparsa del miliardario segnerà profondamente il giovane. Ma tutto cambierà quando dal cellulare col quale l’anziano è stato sepolto arriveranno strani, incomprensibili messaggi.
Mr. Harrigan’s Phone Un rapporto tormentato
Si sa. Di Stephen King – soprattutto in tempi di remake, reboot e adattamenti – non si butta via niente. A maggior ragione se l’adattamento in questione è un racconto tutto sommato recente e poco conosciuto. Certo, il rapporto tra i romanzi del Re del Brivido e il cinema non è stato sempre dei migliori, e lo stesso vale per i racconti brevi. Salvo rare, clamorose eccezioni (Stand By Me e Le ali della libertà, sopra tutti), sono stati pochi infatti gli adattamenti memorabili di questa forma di racconto molto cara allo scrittore del Maine.
Tra amicizia, lutto e fantasmi
Non lasciava ben sperare, dunque, l’annuncio di questo adattamento per Netflix di un racconto recente (e nemmeno tra i migliori) di King come “Il telefono di Mister Harrigan”, contenuto nella raccolta “Se scorre il sangue”. Eppure, complice forse l’alto grado di fedeltà all’opera originale (lo scrittore figura anche come produttore esecutivo), c’è qualcosa in questo Mr. Harrigan’s Phone che sorprende positivamente. In questa storia di amicizia e lutto, tra ambiguità e spiriti di capitalisti vendicativi, c’è infatti un inquietudine strisciante che il regista John Lee Hancock riesce a trasporre attraverso soluzioni visive felici per quanto convenzionali. Hancock, del resto, non è Mike Flanagan, e lo sa. Per questo opta per una narrazione più tradizionale, centellinando l’inquietudine e annullando quasi del tutto le suggestioni orrorifiche.
La fedeltà prima di tutto
Il risultato è un film che, nonostante l’inevitabile apporto di scene “gonfiate” per allungare la storia e il maggiore risalto dato a temi secondari, sa essere “kinghiano” in tutto e per tutto. Dal Maine come luogo dell’anima al coming of age adolescenziale, dall’amicizia intergenerazionale alla scoperta della letteratura, passando per il senso di un soprannaturale che si insinua lentamente tra le pieghe della realtà, tutto, in Mr. Harrigan’s Phone, pare voler richiamare a gran voce i temi cari all’autore di “It” e “L’ombra dello scorpione”.
Una ghost story senza troppe pretese
Il problema, casomai, in quest’opera senz’altro solida e ben costruita, sta in un materiale di partenza derivativo e senza particolari guizzi inventivi. Un punto debole cui il regista e sceneggiatore cerca di sopperire rendendo attuale e più marcata la riflessione sulle derive di smartphone e internet e sui cellulari come unico (e funesto) legame col mondo.
Mr. Harrigan’s Phone resta così un prodotto interessante ma senza troppe pretese, coinvolgente e godibile come il testo da cui è tratto, lontano dalle derive più disturbanti e macabre del genere e più vicino, in questo, alla ghost story classica, a quel sottile senso di ambiguità che pervade ogni cosa e non se ne va più via.