Nello spazio che Mubidedica in questi ultimi mesi alla grande attrice Tilda Swinton, The invisible frame rappresenta il film che riunisce la celebre attrice britannica alla regista Cynthia Beatt a vent’anni di distanza da quel Cycling the Frame, risalente appunto al 1988, anno in cui il muro esisteva ancora, con la sua grigia e minacciosa presenza, vissuta in tal senso anche da parte di chi si trovava a vivere nella parte Ovest della capitale divisa.
A Berlino… va bene
Continuando a parafrasare la famosa canzone di Garbo, trascorsi vent’anni da quel primo viaggio in bicicletta ostacolato dai percorsi obbligati resi necessari dall’esistenza di quel muro della vergogna e della discordia tra popoli, ora, nel 2009, pare davvero che vada tutto bene.
“Ventuno anni. Che cosa ho imparato in ventun anni? Tutto quello che devo fare ora è restare su questa bici. Tenere occhi e orecchie aperte, e tenere la mente più libera possibile.”
La nostra ciclista gira in piena libertà, e le tracce di quella odiosa barriera a volte sono così vaghe che finiscono per perdersi entro un paesaggio che ha fatto di tutto per fagocitarlo e nasconderlo non solo alla vista, ma anche alla memoria, qualora ricordarlo possa effettivamente servire ad impedire di ripetere esperienze simili.
“Un muro che e tanti altri più piccoli ne sorgono altrove. E’ come il leggendario serpente marino: se gli si taglia la testa, ne nascono molte altre. Avidità, avidità, sempre più avidità.”
Nel suo percorso, la ciclista ad un certo punto perde la cognizione del dove trovarsi: parte Est? parte Ovest? Ormai, dopo oltre un ventennio, è quasi impossibile discernere una divisione che proprio ora appare ancora più insensata e fuori luogo.
La Swinton si ritrova, più per caso che per scelta, nei pressi di un obelisco commemorativo in cui viene menzionata l’ultima vittima del muro: un ventenne ucciso il 5 febbraio del 1989 mentre tentava di valicarlo per trasferirsi ad Ovest. Il muro cadde il 9 novembre di quello stesso anno.
Famiglie divise per decenni poterono ritrovarsi, ed un messaggio concreto sembrava essere stato definitivamente compreso in tutto il mondo. Ma in realtà i muri continuarono ad essere eretti.
The invisible frame – la recensione
L’idea di ritrovarsi, regista ed interprete, a distanza di due decenni e di una quadro geografico completamente stravolto, non solo per la città di Berlino, ma per l’intera Europa, ha consentito di completare un dittico davvero intimo, profondo e significativo su ciò che il Muro ha costituito per Berlino e per il mondo intero.
La Swinton è sempre in movimento, sulle tracce di un percorso che ormai esiste solo nella sua memoria, cancellato da eventi e stravolgimenti che hanno cambiato il volto della storia e di un intero continente.
“Vorrei tanto che sulle mappe venissero segnati alberi, siepi, nidi. Sarebbe più facile trovare la strada. Le mappe sono qualcosa di veramente fasullo: ci dicono che il tempo si è fermato. Ma il tempo non si è fermato, e continua a scorrere, ricreandosi in continuazione.”
Giunta finalmente ai piedi della Porta di Brandeburgo, la nostra ciclista conclude la sua passeggiata con una riflessione che suona soprattutto, oggi più che mai, come un augurio ed un monito alle popolazioni di tutto il globo:
“Porte aperte, occhi aperti, orecchie aperte, aria aperta, paese aperto, stagione aperta, campi aperti, cuori aperti, menti aperte, lucchetti aperti, frontiere aperte, futuro aperto, cielo aperto, braccia aperte…”
Lo sguardo della Swinton procede in avanti, libero tra le colonne della porta libera da barriere e da muri, come è naturale che sia, in un luogo che, proprio come può fare ogni porta, è destinato ad unire, piuttosto che a separare.
Il bel mediometraggio, lungo quasi un’ora, è dedicato agli abitanti della Palestina, anche loro coinvolti nelle conseguenze drammatiche che la mancata possibilità di integrazione tra popoli genera, generando conflitti, tensioni, contri e morte di innocenti.