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Prison 77: la recensione del nuovo film di Alberto Rodriguez

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Prison 77 è un film diretto da Alberto Rodriguez, distribuito da Movies Inspired e prodotto da Atipica Films e Movistar Plus.

La trama 

Manuel (Miguel Herràn) è un giovane contabile condannato ad un’esagerata pena di 20 anni di reclusione per aver intascato l’equivalente di 1,200 euro. Con l’aiuto del suo compagno di cella, Pino, Manuel diventerà il leader di un movimento che unirà tutte le prigioni nella lotta per la libertà, e che cambierà per sempre il diritto penitenziario e la società.

É il 1977 e, all’esterno nelle strade e piazze sovraffollate, si celebra la recente democrazia dopo 40 anni di dittatura, ignari di un sistema legale profondamente sbagliato.

Prison 77 La storia

Prison 77 è ispirato a fatti realmente accaduti, e racconta la storia dei prigionieri spagnoli alla ricerca dei propri diritti durante gli anni dalla creazione del COPE (Comitato Coordinatore dei Prigionieri in Lotta) e della fuga di 45 carcerati.

Il cinema di Alberto Rodriguez ha sempre indagato, con sguardo partecipe e appassionato, le differenze sociali e le ingiustizie secolari: e con Prison 77 unisce il contatto con i corpi (vedi After) alla profondità del campo (La Isla Minima) che metaforizza le inquietudini collettive, con un tono sempre sottolineato da un accompagnamento sonoro viscerale.

La recensione di Prison 77

L’intuizione migliore di Prison è il voler raccontare la storia di Manuel, perso in un labirinto di ingiustizia e procedimenti giudiziari kafkiani, attraverso i volti: è per questo che fin dalle prime immagini, la macchina da presa si stringe intorno al suo obiettivo. Che sia un secchio pieno di escrementi, o la faccia spaventata del protagonista, o anche i suoi carcerieri-aguzzini o gli stessi luoghi.

Prison 77 è un film profondamente politico che non rinuncia alla sua anima cinefila

E nei pochi passaggi in cui l’inquadratura si allarga, resta una simmetria sfrontata e rigida che contribuisce a non dare mai nessun respiro, nessuna libertà alle immagini.

Grazie alla profondità di campo, sempre nitida e potente anche in mezzo alle numerose ombre della storia, Prison 77 restituisce fin da subito un senso di soffocamento e oppressione che non si traduce mai in claustrofobia ma intride il dolore esistenziale di Manuel.

Le ombre diventano caratteri: cala il buio sugli sguardi, sui corpi, sul sangue, sui fallimenti di un sistema a brandelli, e in questo Herràn è particolarmente efficace, come forse non gli permetteva il suo ruolo tagliato con l’accetta ne La Casa Di Carta.

Prison 77 Un apologo lucido e durissimo, oscuro e tragico

Ciò che fa la differenza, in quello che potrebbe sembrare un prison-movie adattato a dolorosi fatti di cronaca, è la capacità del regista di mascherare quasi totalmente il tono cronachistico per elevare Prison 77 a film dal respiro e dalla declinazione profondamente cinematografica: perché nei corridoi bui e nelle scene di lotta politica c’è Becker (Il Buco), ma anche Bresson (Un Condannato a Morte è Fuggito) e ovviamente Siegel (Fuga da Alcatraz).

Un cinema classico, robusto, che non lascia spazio a fronzoli ma che trasuda fin dalle immagini passione e cuore: e che dimostra ancora una volta, con la potenza e prepotenza delle idee, come il pubblico sia sempre privato, e come a volte ci si dimentica di guardare al passato per costruire meglio il futuro.

L’ottavo film di Rodriguez è un thriller dal ritmo solidissimo, più attento alla definizione dei caratteri, di atmosfera e allusioni politiche, piuttosto che alla costruzione di una trama complessa.

Ma la tensione è continua, e non viene mai meno neanche quando si tratta di dover tirare le somme di quello che esonda gli argini del genere e diventa un apologo, durissimo e lucido, tragico e oscuro.

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