Dopo Il Cattivo Poeta Francesco Patanè continua a raccontare il viaggio nella parte oscura dell’essere umano in Ti Mangio il cuore di Pippo Mezzapesa in cui nella parte di Andrea Malatesta da vita a un memorabile cuore di tenebra. Di seguito la conversazione con uno dei migliori attori italiani della sua generazione.
Il film di Pippo Mezzapesa Ti mangio il cuore ha visto l’esordio nel mondo della recitazione di Elodie, ma accanto a lei c’è anche Francesco Patanè. Il film, nella sezione Orizzonti a Venezia 79, è adesso in sala con 01 Distribution. Abbiamo, quindi, fatto qualche domanda all’attore.

Francesco Patanè in Ti mangio il cuore
Con Ti mangio il cuore continui a raccontare il viaggio nella parte oscura dell’essere umano. Lo avevi già fatto ne Il cattivo poeta attraverso il personaggio del federale Giovanni Comini. Quello di Andrea Malatesta rappresenta un passo in avanti in termini di ricerca e di rappresentazione.
Entrambi i ruoli hanno in comune questo contatto con il nero appartenente a un pezzo di storia tra le più oscure del nostro paese. Per Comini è il colore della divisa, ma anche della parte più oscura da cui a un certo punto riesce a prendere le distanze scegliendo un’esistenza più luminosa. La sua è una vicenda da racconto di formazione mentre quella di Andrea Malatesta la si può definire di “deformazione”, perché invece di ricostruire la vita del personaggio finisce per distruggerla.
Il nero del film di Pippo Mezzapesa non è politico come poteva esserlo quello de Il Cattivo poeta ma lo diventa se diamo al termine il significato di polis greca, intendendolo come responsabilità di un gruppo di persone. In quel senso c’è una politica anche in Andrea chiamato a gestire una guerra e una comunità senza saperlo fare. Il suo è un nero violento che poi è anche il colore del sangue così come risulta nella fotografia in bianco e nero del film.
Il personaggio di Andrea
Uno dei possibili modelli del film è Cuore di tenebra di Joseph Conrad non solo per le caratteristiche ancestrali del viaggio compiuto da Andrea, ma anche per il nichilismo che accomuna il protagonista al Generale Kurtz. La visione dell’abisso finisce per divorare entrambi.
Esatto. È un bel paragone perché in effetti Ti mangio il cuore è un viaggio verso luoghi sconosciuti dell’anima, un perdersi in terre sconosciute e remote dove prima non ci si era mai spinti. L’Andrea dell’inizio è diverso da quello della fine perché il suo è un viaggio di perdizione. D’altra parte smarrirsi è un modo per conoscere aspetti sconosciuti di se e del mondo. L’ultimo sguardo di Andrea prima di dire Lasciami la faccia ricorda quello del Generale Kurtz, avendo l’espressione di chi, arrivato alla fine del viaggio, guarda il mondo con la consapevolezza di chi è arrivato a conoscere fino in fondo la vita e sorride con amarezza all’orrore che ha toccato. Andrea lo vede, lo odia, lo condanna, avendo dentro un dolore inconsolabile. Per lui la fine è la liberazione da un terribile viatico.
Il destino di Andrea è scritto nei suoi occhi. In questo senso l’interpretazione del tuo personaggio parte innanzitutto da lì. Sono quelli a dirci quanto Andrea sia consapevole del suo destino. Come succede in molte tragedie greche il destino dei personaggi è segnato in partenza.
Se è vero che Andrea diventa consapevole solo alla fine, come dici tu il percorso è già scritto perché, fin dall’inizio, il film dissemina indizi di quello che lui raccoglierà più avanti. Il primo sguardo con Marilena, quello che i due si scambiano nel corso dell’asta, richiama la sequenza finale, a testimonianza di una ciclicità del tempo che si rifà a quella degli antichi greci. Il film è un arco che si chiude su se stesso perché poi in qualche modo l’ultima scena è lo specchio della prima. Quindi sono d’accordo con te, nel film c’è molta tragedia greca.

Una storia realmente accaduta
Questa è la seconda volta che reciti un personaggio ispirato a una storia realmente accaduta. Nei film in questione i fatti non sono replicati in maniera pedissequa, ma appaiono il risultato di un grande lavoro di trasfigurazione formale. In questa ottica la scelta del bianco e nero e l’essenzialità delle composizioni trova ragione con il fatto di parlare di una cultura criminale atavica e ancestrale, ma anche violenta e materialistica. La tua interpretazione come quella degli altri attori rispecchia un dualismo fatto di carne e spirito. Le vostre sono figure archetipiche calate in un contesto astratto reso concreto dalla consistenza materica dei personaggi.
È una cosa molto bella quella che dici perché è il doppio registro su cui è riuscito a giocare Pippo sia in fase di scrittura, con Davide Serino e Antonella Gaeta, sia al momento di girare il film, con noi attori e con la fotografia di Michele D’Attanasio. Da un lato Pippo è riuscito a raccontare una storia di carne essenziale e cruda, fruibile per il fatto di non far pesare la presenza di simboli e allegorie. Dall’altro, ha offerto allo spettatore la possibilità di abbracciare questa trasfigurazione perché il film abbonda di simboli, di richiami, di immagini archetipiche, come quella del padre, pastore che riporta all’ovile la pecorella smarrita. Anche il bianco e nero e l’eleganza dei primi piani sono crudi ma anche plastici, per dire come ogni cosa nel film ha un doppio registro.
Nel film sei capace di rendere credibile il forte mutamento psicologico del protagonista. Il passaggio da vittima a carnefice è da sempre a rischio di enfasi per la retorica che accompagna i rovesci dei protagonisti. Tu riesci a evitare qualsiasi eccesso affidando agli occhi il compito di esprimere la trasformazione di Andrea.
La preoccupazione e la cura per questo ruolo mirava a non fare di Andrea due figure diverse, ma di rappresentare la sua evoluzione all’interno dello stesso personaggio. Come attore odio l’enfatizzazione e il superfluo, ciò che è forzato e che ti porta fuori dalla verità e la credibilità dell’interpretazione. Per questo ho cercato di stare insieme ad Andrea costantemente e questo, come hai detto, lo si fa attraverso gli occhi che sono lo specchio dell’anima. Per un attore, ma anche per un regista gli occhi sono la prova del nove. È lì che vedi se l’interprete c’è ed è con il personaggio o se non c’è e sta semplicemente recitando.
In questo caso quello che emerge da quelli di Andrea è una profonda evoluzione. All’inizio il protagonista ha negli occhi il Gargano, una donna meravigliosa, l’amore dei genitori. Ha molta terra a disposizione e dunque tanto spazio, tanta libertà. Al contrario la sua metamorfosi ha nello sguardo le facce devastate delle persone che ha ucciso. Parliamo di un ragazzo che ha visto la violenza e se n’è fatto partecipe, quindi il mio compito era di riuscire a far vedere occhi che avevano visto e fatto queste cose. In sostanza si trattava di mettermi in testa lo stesso tipo di immagini. Internet purtroppo offre un campionario interminabile di tragedie che mi sono sforzato di fare mie e questo credo che alla fine esca fuori.

L’interpretazione di Francesco Patanè in Ti mangio il cuore
In un film fatto di corpi e paesaggi l’importanza dei volti è fondamentale e con essa quella dei primi piani che li raccontano. Lasciami la faccia è l’ultima richiesta dei personaggi prima di essere uccisi e ancora, sono le facce ritratte nelle fotografie appese al muro a fare il punto delle persone uccise dal protagonista per vendicare la morte del padre. A differenza degli altri Andrea è l’unico a non venire trasfigurato dai colpi di pistola. Una singolarità questa che fa il paio con il fatto di essere il solo tra i personaggi maschili a subire un evoluzione psicologica. È qualcosa di cui hai tenuto conto nella costruzione della tua performance?
Sì, è stata una consapevolezza che mi ha aiutato a costruire il mio personaggio. Peraltro adoro raccontare persone in via di trasformazione, quelli che di scena ti regalano sempre un possibile cambiamento, come se ogni volta il personaggio offrisse qualcosa che stupisce lui per primo. Andrea è l’unico a cambiare insieme a Marilena che parte come una regina per poi diventare una sorta di schiava, segregata della famiglia Malatesta. La faccia è importante perché è la testimonianza di questa storia quindi è significativo che ad Andrea non venga deturpata: è la prova che il viaggio c’è stato.
L’uso dei primi piani
In termini narrativi i tuoi primi piani permettono allo spettatore di verificare a che punto è arrivato il viaggio di Andrea.
Esatto, è come quando ti guardi allo specchio. Durante le riprese non l’ho mai fatto perché sapevo di non dover vedere Francesco Patanè in Ti mangio il cuore. Ho cercato di incontrarlo il meno possibile per cui in camera e in bagno evitavo gli specchi perché, come dici, i primi piani del film erano un po’ la verifica del viaggio. Sono loro a dirci dove siamo e qual è l’emozione che comanda.
Non si tratta di cose scontate perché nel cinema, a differenza del teatro, non si gira in sequenza cronologica. A me un giorno poteva capitare di fare l’ultima mentre in quello successivo la prima. Dunque come attore era importante avere ben chiaro l’arco narrativo prima di iniziare a lavorare. Addirittura è capitato che nello stesso giorno girassimo scene iniziali e conclusive, quindi anche in quel caso era importante essere consapevoli del punto a cui era arrivata l’esperienza di Andrea in quel momento del film. Se dovevo avere negli occhi l’amore o la violenza, se aveva già provato questi stati d’animo e se li stava solo immaginando? Se ne aveva paura oppure no.
A maggior ragione ti chiedo come si fa a restare in equilibrio rispetto a sollecitazioni così antitetiche. Immagino sia richiesto uno sforzo notevole anche in termini di concentrazione?
È una grande fatica. C’erano giorni in cui avevo la nausea perché se la mattina avevi partecipato a un funerale il pomeriggio ti poteva capitare di fare una scena d’amore. La sera tornavo a casa stremato perché la recitazione del cinema è fatta di grande concentrazione: una volta dato il ciak hai la responsabilità di restituire al volo e con precisione una determinata esperienza emotiva. L’immagine del Juke Box emotivo aiuta molto a far comprendere quanto ti ho detto perché un attore deve essere consapevole di essere uno strumento con dei tasti che ti azionano per rispondere immediatamente alle sollecitazioni della mdp. Uno può riguardare il pianto, l’altro la gioia, un altro ancora il dolore. Il mio compito consiste nell’essere pronto a replicarli nel giro di qualche ora.

Il bacio
Tra le scene più importanti del film c’è quella del primo bacio con il personaggio di Elodie. In un cinema italiano in cui pulsioni e nudità sono spesso edulcorate la vostra performance acquista ancora più valore per la forza e la verosimiglianza con cui rendete l’esplosione dell’amore e l’unione dei corpi. Anche in questo caso non penso sia stata una scena facile. Come si arriva a farla con una tale assenza di finzione?
Sono contento che la sequenza sia arrivata in questa maniera. Quello che abbiamo fatto con Elodie è stato creare un rapporto sincero e di conseguenza molto protetto, nel senso che sotto i personaggi c’eravamo noi due a tutelarci a vicenda. Tra di noi esisteva una dimensione privata anche se poi sul set non eravamo soli mentre la giravamo. Da una parte il lavoro consisteva nel creare una condizione di intimità, quella bolla in cui ciò che succede riguardava solo noi anche se la mdp con registi e operatori erano a 20 cm da te. Dall’altra c’è la cosa che dici tu, ovvero il lasciarsi andare. La scena era importante perché se non si raccontava bene la passione tra Andrea e Marilena, se non c’era la carnalità, il senso di irresistibile trasporto, sarebbe stato difficile giustificare la faida che si scatena a causa di quella. Non doveva essere una semplice cotta, ma una sorta di fame reciproca.

Un’altra sequenza di Ti mangio il cuore con Francesco Patanè
Un’altra scena decisiva è relativa al primo omicidio compiuto da Andrea, quello da cui inizia la vendetta della famiglia Malatesta. Si tratta di un passaggio importante per la capacità di cogliere il punto di non ritorno un attimo prima del suo superamento. Davanti alla mdp Andrea appare in bilico tra due stati d’animo opposti, allo stesso tempo spaventato e voglioso di versare il sangue del nemico. Senza quella sequenza il prima e dopo di Andrea sarebbe risultato meccanico mentre nel film risulta naturale e inevitabile dal suo punto di vista.
Esatto. Lì ci sono vari momenti da considerare. Se si scompone la scena si riconoscono diversi stati d’animo del personaggio: da quando vede arrivare il pericolo, con l’arrivo di un membro della famiglia avversaria, all’attimo in cui decide di prendere la pistola senza sapere che di lì a poco lo ucciderà. Ci sono tanti piccoli momenti in cui sullo schermo c’è l’Andrea iniziale e quello finale. Prima di premere il grilletto lui e Marilena si scambiano uno sguardo che è un saluto alla donna amata da parte dell’Andrea che lei aveva conosciuto. Dopo aver chiuso gli occhi e premuto il grilletto li riapre non essendo più lo stesso. L’Andrea che guarda la vittima e si lecca il dito pieno di sangue non prima di averne sfigurato la faccia è la sua versione finale. Per arrivarci ci sono almeno quattro, cinque passaggi che traghettano Andrea nella seconda parte della storia.
Tra i possibili riferimenti del film ci sono la tragedia shakespeariana, e per esempio Romeo e Giulietta, e ancora di più i poemi omerici con Marilena novella Elena di Troia, per non dire del personaggio di Lidia Vitale in cui esistono echi di un dramma edipico come Medea. Sono stati anche per te dei riferimenti, ci hai pensato e in che modo li hai fatti entrare in qualche maniera all’interno della tua interpretazione?
Assolutamente sì. Ci ho pensato e ho anche lavorato in quella direzione. Per me erano dei compagni di scena visibili. Mentre facevo la scena la tragedia greca e il western erano fantasmi che abitavano il set. Due personaggi che mi hanno aiutato durante il percorso sono stati quello di Macbeth. In particolare mi riferisco alla scena subito dopo la morte del fratello in cui Andrea minaccia con il coltello il suo luogotenente interpretato da Francesco Di Leva. In testa avevo la frase di Macbeth in cui il re dice all’amico: Ormai ho camminato a tal punto nel sangue che tornare indietro o proseguire sono la stessa cosa. Un altro modello è stato il Caligola di Albert Camus, un testo che adoro per come incontra l’assurdità della violenza e della morte, con l’imperatore che abbraccia la fine e inizia a ballarci insieme. In entrambi i casi mi dovevo ricordare che a vivere le scene era l’Andrea ingenuo degli inizi, non un Re.

La performance
In effetti Ti mangio il cuore è anche un film di Re e Regine, tanto per citare un titolo di Arnaud Desplechin.
Assolutamente, di scettri del comando e di iniziazioni verso le quali bisogna dimostrarsi all’altezza del compito.
In un passaggio del film ad Andrea viene detto che lui non è un agnello ma un lupo. Mi viene da chiederti se nella tua performance hai inglobato il body language di questi due animali?
In realtà ho usato il cane perché questo può essere tanto docile con il padrone, quanto feroce e rabbioso quando lo si sguinzaglia. Ho utilizzato il suo modello anche a livello psicologico perché è la testa a mandare gli impulsi al corpo.
Nel film gli animali hanno un forte significato simbolico. Se prendiamo la scena iniziale, quella dell’uccisione dei membri della famiglia Malatesta, vediamo la mdp concentrarsi sull’uscita dal recinto di un gruppo di maiali, a sottolineare il passaggio dallo stato umano a quello animalesco che è appunto la condizione per cui si scatena la faida tra le due famiglie.
Hai ragione. Ti mangio il cuore è un film corale in cui anche gli animali molte volte sono protagonisti. Li vediamo fare da contorno ai personaggi rispondendo con muggiti e belati, latrati. Penso al banchetto disertato dalla famiglia Malatesta, per l’appunto sostituita da cani e tacchini che camminano sopra i tavoli. È come se l’animalità prendesse il possesso del territorio. Ogni volta che l’umanità si ritrae il film lascia spazio a un’animalità incontrollata e volgare.
L’estetica del film
Se recitare è anche dare e trasmettere energia, volevo chiederti quanto ha influito quella ricevuta da location e scenografie che tanto raccontano della vicenda? E poi volevo anche domandarti se l’estetica del film ha influito nella costruzione della tua performance?
L’ambiente è un personaggio muto che si fa sentire al momento giusto. Così era il Vittoriale ne Il cattivo poeta, così erano i palazzi del regime, capaci di dettare anche un modo di stare fisicamente dentro questi posti. A maggior ragione questo succede in Ti mangio il cuore. Prima ti accennavo dell’abitudine di Andrea a vivere in spazi aperti. Il fatto di essere circondato da una vastità di terra ti da un modo di stare al mondo completamente diverso.
Rispetto all’estetica del film il mio modo di recitare è cambiato quando dopo qualche giorno dall’inizio delle riprese ho avuto modo di vedere una scena attraverso il monitor. Una volta che capisci l’estetica del film ci si setta su un diverso modo di recitare. Con Michele D’Attanasio mi sono rapportato con la reverenza professionale di chi vede un maestro all’opera. I provini macchine, fatti prima di iniziare a girare, li ho visti per capire come funzionava il bianco e nero su di me: un aspetto che mi ha aiutato a vedere la vita con questo tipo di colori. Pippo e Michele per due mesi lo hanno fatto e così dovevamo immaginare di farlo anche noi attori.
Come ne Il Cattivo poeta con Sergio Catellitto anche qui avevi di fronte maestri come Tommaso Ragno, Michele Placido e Lidia Vitale. Volevo capire se la stima, il rispetto e il fatto di essere il collega più giovane ti ha aiutato a rendere quella del protagonista nei confronti dei personaggi più importanti.
Questi confronti sono dei doni perché giocare in scena con questi maestri è il modo migliore per imparare e per farti le ossa. Fare una scena significa anche creare un’armonia, quindi se il maestro di fronte a te propone una nota tu in qualche modo ti ci devi sintonizzare altrimenti la sequenza non funziona. Come attore sei portato in maniera naturale a stare nella sinfonia che sta creando chi ti sta di fronte; se quest’ultimo è uno degli attori menzionati devi per forza alzare la qualità della tua interpretazione, cosa che si fa prima con l’istinto che con la testa.

Francesco Patanè oltre Ti mangio il cuore
A conclusione di questa conversazione ti chiedo quali sono i tuoi attori di riferimento.
Sarò scontato ma ho grande passione per le interpretazioni di Daniel Day Lewis e di Gary Oldman, attori che più di altri mi fanno perdere la testa. Ci sono poi Joaquin Phoenix, Colin Farrell, Christian Bale. In generale mi piace il cinema di Paul Thomas Anderson perché è quello che mi parla di più. I suoi film li ho visti migliaia di volte.
Daniel Day Lewis ha sempre parlato della difficoltà di uscire dal personaggio una volta terminate le riprese. Immagino non sia stato facile disfarsi di Andrea?
Sì, di solito esiste un periodo di latenza perché quando sblocchi le energie il corpo si affeziona a qualcosa che ha creato, per cui bisogna convincerlo a lasciare andare i ritmi della velocità emotiva. Per Ti mangio il cuore il processo è durato un po’. Ho impiegato un paio di mesi. Mi ricordo che quando sono tornato a casa al termine delle riprese mio padre mi disse che avevo occhi diversi, in un certo senso cattivi. Questo per dirti fino a che punto mi era cambiato lo sguardo.