Per Niente al Mondo di Ciro D’Emilio racconta la caduta di un uomo attraverso una messa in scena solida e rigorosa, caratterizzata da grandi interpretazioni a cominciare da quella di Guido Caprino, protagonista di una performance da Actor’s Studio.
È adesso in sala con Vision Distribution Per niente al mondo, il nuovo film di Ciro D’Emilio. Con l’occasione abbiamo chiesto al regista di parlarcene.

La Napoli di Per niente al mondo di Ciro D’Emilio
In una stagione in cui i registi napoletani tornano a raccontare la propria città tu ci proponi il percorso opposto. Penso agli ultimi lavori di Mario Martone, ma anche al De Filippo di Edoardo De Angelis e mi viene da dire che la distanza tra te e la terra in cui sei nato ti ha permesso di esprimere con maggiore obiettività i temi che ti stanno a cuore. È così?
Sono abituato a seguire il mio istinto e, quando con Cosimo Calamini ci siamo confrontati con la storia di mala giustizia accaduta a un imprenditore del nord-est una decina d’anni fa, non ho fatto che seguire la mia curiosità infantile verso una storia svoltasi in luoghi a me sconosciuti. Lo studio di quella vicenda, diventata un pretesto per raccontare altro, mi ha posto nella condizione di fare una ricerca scrupolosa, quasi antropologica, su quei territori, sulla loro storia e su quelle che potevano essere le debacle umane di un campione umano simile a noi. Fin da subito l’istinto mi ha aiutato in qualche modo a uscire fuori da una comfort zone già analizzata e affrontata per più di sei anni – tanto è stato il tempo impiegato per realizzare Un giorno all’improvviso-, catapultandomi in un territorio “straniero” ma generoso per la proposta di una serie di punti di forza tali da sfuggire qualunque tipo di pigrizia artistica e autoriale. Per uno come me, che dà priorità al racconto e pensa a uno stile che si piega alla forma, ho dovuto necessariamente fare i conti con una storia meritevole di essere raccontata in maniera diversa dal primo film. Sapendo che all’interno del lungometraggio sarei stato comunque riconosciuto per la continuità delle idee con il lavoro precedente. Detto ciò, io do priorità alle storie che voglio raccontare più che a me stesso: come dico sempre, rivendico il diritto dell’autore di fare il proprio percorso prendendosi anche la libertà di sbagliare, cosa che spero di non avere fatto qui perché si tratta di un film a cui tengo molto. Sorrido al pensiero di essere percepito come un pesce fuor d’acqua però credo che le storie devono essere sempre superiori a noi stessi; più interessanti dei registi che le filmano.
Un ostacolo
Il fatto di raccontare la storia di un uomo tentato dal superare i limiti del lecito trova corrispondenza di significati nella presenza del nord est italiano, la cui frontiera rappresenta di per sé una barriera da superare.
Esatto. Da ragazzo ho conosciuto un mondo adulto, fatto di persone che ricercavano una felicità svincolata dal percorso professionale e lavorativo. Si poteva essere felici nonostante la presenza o meno del lavoro. A differenza del nord est, territorio che più di tutti dal dopoguerra a oggi è diventato riferimento del sistema lavorativo italiano, facendo andare la felicità personale di pari passo con la gratificazione professionale. La caduta di Bernardo non è data dalla mancanza di fiducia delle persone a lui più vicine, ma dal crollo di quella facciata iniziale che io definisco una specie di Truman Show, tipica di società che fanno coincidere la ricerca della felicità con l’ambizione personale. Nel momento in cui cadi da quel piedistallo e viene meno la famiglia perfetta, il lavoro perfetto, gli amici perfetti, tu sei completamente finito. Una volta subita l’ingiustizia l’errore di Bernardo è di combattere quegli errori lottando contro se stesso.

L’ambiente nel film di Ciro D’Emilio
D’altronde Per niente al mondo è talmente connaturato al modo di pensare dell’est italiano da non poter essere ambientato a Napoli. La mancata solidarietà degli amici una volta che Bernardo è uscito dal carcere non sarebbe verosimile se il film fosse stato girato nel capoluogo partenopeo.
Te lo confermo, perché il sistema societario e relazionale di tutti i sud del mondo si è da subito caratterizzato con una lotta costante contro la giustizia e quindi da una perdita di fiducia verso il sistema. Dunque nel bene o nel male quel tipo di comunità avrebbe riaccolto Bernardo condannando lo stato infame che lo aveva distrutto. Quindi hai pienamente ragione ed è per questo che l’unica cosa a cui non avrei mai rinunciato è di girare in quei territori. È stata la condizione sine qua non affinché questa storia avesse un senso e una forza.
Più del paesaggio fisico e geografico a te interessa quello umano: parlo dei volti, dell’idioma, dello stile di vita e soprattutto del modo di stare insieme delle persone. In termini di immagini questo si traduce in un’osservazione circoscritta e ravvicinata dei personaggi.
Hai colto nel segno. A seconda del tipo di racconto mi domando sempre in che modo lo spazio può diventare narrazione e personaggio. Essendo questo sempre protagonista delle mie storie provo a raccontarlo nella maniera più universale possibile. Nel primo film ero rimasto sui volti e, in particolare, su quello del protagonista, in maniera più claustrofobica perché volevo riprodurre il punto di vista di Antonio, privo della maturità per comprendere l’esistenza di uno spazio diverso dal suo piccolo nido. Qui lo spazio, soprattutto quello narrativo, era fondamentale perché era quello che giudicava e pregiudicava la vita di Bernardo. Se lo avessi escluso aprioristicamente avrei commesso un errore, però, quello che agisce sui volti e sui corpi dei personaggi mi appartiene molto di più.
Le location
Sempre parlando di spazio e del modo in cui lo riprendi, le location sono spesso interne e comunque luoghi che, in qualche maniera, rappresentano lo status dei personaggi, conseguenza dell’importanza rivestita dall’affermazione in campo lavorativo.
Assolutamente. L’esempio più lampante è quello relativo al ristorante che all’inizio è il suo tempio, la sua vera casa, quella che gli viene tolta e nella quale lui vuole a tutti i costi ritornare. Se ci fai caso è costruito come lui voleva che fosse e cioè un teatro. Un paradigma completamente rovesciato dopo l’uscita dal carcere, quando il locale è molto più cupo: ripreso dall’alto per tradurre il desiderio di Bernardo di farsi guardare da tutti e per riceverne il giudizio. E poi anche quella cucina così acida, quasi verde nell’illuminazione era perché volevamo che apparisse quasi un dietro le quinte. Uno spazio scenico che andasse a presenziare in maniera invadente e violenta sul personaggio di Bernardo.
L’inizio
Le sequenze introduttive sono indicative rispetto a quanto succederà a Bernardo. Quella dell’assaggio bendato del vino ti serve per farne vedere la leadership, ma anche la capacità di tenere sotto controllo la situazione. La seconda, in cui Bernardo, con a fianco l’amico, fa andare la macchina a tutta velocità come stesse facendo una gara di rally ci dice della sua indole, pronta a sfidare il pericolo sempre sicuro delle sue azioni.
La mortificazione della sua esistenza si verifica quando viene a mancargli la riconoscenza della fiducia e del talento da parte dei suoi amici. Il fatto che l’unico a farlo sia un criminale serbo la dice lunga su quello che è stato il Truman show iniziale. Quest’ultimo ha grande significato per quello che la storia andrà a raccontare dopo.
Dopo l’accusa infamante Bernardo non riesce più a controllare la situazione. Per una persona come lui, abituata a essere ammirata e stimata è un vero e proprio shock.
Per niente al mondo il tema portante è la fiducia e la sua mancanza. Le persone si potrebbero domandare perché Bernardo fa quella scelta. Molti al suo posto sarebbero andati in un altro paese; avrebbero ricominciato da capo, aperto uno street food fregandosene della società che lo aveva condannato. In realtà lui non riesce neanche a prendere in considerazione quest’idea. Si ostina a riavere tutto quello che gli hanno tolto perché secondo lui è giusto così. Lo fa ricercando la riconoscenza e la riconoscibilità derivatagli dal talento e dalla fiducia che prima gli veniva riconosciuta.
Il confronto con la realtà nel film di Ciro D’Emilio
Nel film il punto di partenza è il rapporto tra realtà e soggettività, tra interno esterno. Poi, un poco alla volta, l’equilibrio si rompe a favore di una sempre maggiore presenza dell’interiorità del personaggio. Per il protagonista il confronto con la realtà diventa sempre di più una lotta con se stesso.
Esatto! Di fronte ai problemi degli altri siamo abituati a tutelare in qualche modo la nostra posizione in maniera quasi pornografica attraverso un punto di vista che davanti al delitto di una persona si preoccupa di sapere la modalità del delitto e non delle sue conseguenze. È come se volessimo spiare lo stato delle cose mentre qui l’obiettivo è quello di portare lo spettatore – anche attraverso gli scarti temporali presenti in sceneggiatura – in una prospettiva molto più interiore. Io metto il pubblico nella condizione di diventare Bernardo, di essere per una una volta colui che ha giudicato senza sapere. A un certo punto più che chiederci dove sta andando Bernardo ci domandiamo come sta perché siamo entrati dentro la sua testa.

Le immagini di Ciro D’Emilio
A livello visivo le immagini sono coerenti al concetto da te espresso perché la mdp si avvicina sempre di più al protagonista raggiungendo il suo climax nella scena finale in cui stai sull’occhio del protagonista con una stasi che ci dice come tutto sia diventato una questione interna alla sua anima, facendocene sentire l’abisso.
Quello era il nostro obiettivo tanto che in sceneggiatura avevo scritto che saremo stati su di lui, con l’inquadratura dell’occhio volta a sancire la condanna di Bernardo. Con il montatore Gianluca Scarpa, collaboratore dal talento purissimo, abbiamo riscritto quel finale potenziandone i significati. Lo stesso è successo con il direttore della fotografia Salvatore Landi, con la scenografia di Antonella Di Martino, con i costumi di Veronica Fragola. Da subito abbiamo immaginato tre diversi stadi in cui mi immergevo in maniera sempre più profonda all’interno del personaggio e sempre meno nella finzione esterna. Quest’ultima ritratta come una sorta di Grande Fratello, con l’illuminazione esterna molto sovraesposta e con la patina volutamente laccata degli ambienti. Anche la scelta di girare in anamorfico solamente nelle scene del carcere era fatto per cambiare il paradigma del personaggio rispetto allo spazio, enfatizzando il fatto che Bernardo doveva per forza fare i conti con un mondo nuovo per riuscire a sopravvivere.
Il montaggio
Sono d’accordo sull’importanza del montaggio perché la frammentazione spazio temporale va proprio nella direzione che hai appena detto, avendo il fine di raccontare dal di dentro l’anima del protagonista. Le emozioni ragionano in altra maniera rispetto ai fenomeni della realtà esterna: in questo senso se si prende in considerazione la sfera psicologica ed emotiva della storia la narrazione ha caratteristiche di linearità. La discontinuità esterna è destinata a diventare continuità interiore.
Sposo appieno quanto hai detto. Già in fase di scrittura questo era un obiettivo autoriale: quando abbiamo scritto la sceneggiatura le linee temporali erano smontate per cui tu passavi dalla scena dell’arresto a quella della sua vita una volta uscito dal carcere. Le scene e il montaggio non hanno fatto altro che interrogarsi su tutto quello che poteva rinforzare una scelta già presente in sceneggiatura. Questo aspetto è stato un punto di forza perché ha permesso che il lavoro di tutti gli altri reparti fosse coerente con il racconto che volevo fare. Non si trattava solamente di andare avanti e indietro nel tempo ma di costruire un puzzle dell’anima del personaggio.
A fare il paio con questa scelta è anche il modo con cui metti in scena il casus belli, ovvero l’accusa infamante che fa finire in carcere Bernardo. Non ti preoccupi di di raccontare come è stato possibile incastrarlo ne di come lui faccia a tirarsene fuori. Quello che ti interessa è l’effetto che ha sulla vita del protagonista. In questo senso Per niente al mondo è un racconto archetipo perché la vicenda è raccontata in maniera da risultare universale.
Anche questa è una chiave già presente in fase di ricerca. Il primo film era stato girato in quel modo. Ho voluto fare lo stesso anche nel secondo. Non desideravo fare un lavoro buonista e furbo. Sfruttando l’elemento criminale avrei potuto strizzare l’occhio allo spettatore ma era una cosa che non mi interessava.
L’accusa che rappresenta il caos
In questo dramma archetipo l’accusa subita da Bernardo rappresenta l’entrata in scena del caos che sconvolge la vita del personaggio.
Esatto. Avrei potuto mettere qualsiasi altro movente perché, come dici, a me interessava l’aspetto archetipico, quello necessario a mettere protagonista e spettatore nella stessa drammatica condizione. Fin dall’inizio a me non interessava l’accusa di per sé ma le sue conseguenze. Era importante che l’argomento non arrivasse a sostituire il tema principale. Rimanervi attaccato non mi ha fatto cadere nel cliché dei film sulla mala giustizia.
Per niente al modo è un film molto rigoroso perché la sceneggiatura o comunque l’argomento potevano indurti a inseguire soluzioni spettacolari o melodrammatiche. Al contrario il film rinuncia a esporre sangue e violenza. Amore, morte, tradimento amicizia e fiducia sono temi forti perché archetipi e non per l’ossequio ai cliché commerciali.
Se non fossero stati archetipi questi temi avrebbero finito per vampirizzare il resto del lungometraggio. Non ho fatto un film di genere ma uno che ne mette gli elementi al servizio di un racconto intimo. La diversità la vedi per esempio nella scena dell’inseguimento: poteva diventare una cosa tipo Fast and Furious ma in quella corsa stiamo più tempo dentro la macchina che fuori. La stessa cosa accade per la scena dell’irruzione a casa. Lì la frammentazione mi avrebbe aiutato a rendere la sequenza più accattivante mentre io ho scelto di renderla con un piano sequenza di sette minuti molto complesso dal punto di vista produttivo ma capace di rendere giustizia alla lealtà con la quale io voglio che lo spettatore sia legato a quella vicenda.
L’inizio
La prima scena all’interno del carcere è esemplare nel togliere al romanzo criminale qualsiasi fascinazione. Mi riferisco a quando ci presenti il compagno di cella di Bernardo seduto sulla tazza del water mentre parla con lui.
Era una scena fondamentale: la chiamavo la scena del trapasso, quella in cui Bernardo in maniera estrema e mortificante doveva rendersi conto di essere entrato in un altro mondo. Durante la fase di ricerca e nel corso della scrittura avevo creato questa scena per enfatizzare la mancanza di spazio della cella e dunque la condivisione forzata di una certa intimità. D’altronde cosa c’è di più deprimente che quello di assistere all’espulsione delle feci altrui. Durante la preparazione ho visto un reportage meraviglioso di Valerio Bispuri intitolato Prigionieri in cui c’era una foto simile. Si vedeva una cucina e dietro un uomo ce ne era un altro attaccato a lui seduto sulla tazza del bagno. È stata una scoperta incredibile perché mi ha fatto capire di aver preso la strada giusta.

Il protagonista
Nella parte di Bernardo Guido Caprino ha il phisique du rôle e cioè un’energia maschile molto forte che ne giustifica la leadership. D’altra parte ha la capacità, come pochi attori hanno, di far leggere sul suo viso tutto il tormento del personaggio.
Quando ho scritto il film ho pensato subito a lui e sono felice di averlo fatto. Al di là di questo devo dire che Guido è uno dei pochissimi attori in Italia che riesce con coraggio e generosità a lavorare in rapporto con il dolore. Lui non ama assolutamente restare nella situazione di confort. È un attore molto esigente, e secondo me fa bene a esserlo, quando si tratta di essere portato sulla soglia del baratro, lontano da situazioni di agio. Questo a spinto me e i miei collaboratori a dare il massimo per restituire a Guido lo spazio scenico e drammaturgico che serviva per rispettare il valore della sua interpretazione.
II lungo piano sequenza a camera fissa in cui Bernardo parla con il compagno di cella conferma generosità, coraggio e bravura dell’attore.
Parliamo di un monologo molto corposo. A livello attoriale è una scena pazzesca perché Guido è riuscito a non essere retorico e didascalico in quattro o cinque passaggi in cui si poteva rischiare di esserlo. In quella scena ha la capacità di far venire fuori tutto il dolore del personaggio. Solo un interprete capace di lavorare in maniera così coraggiosa te lo può restituire con quella forza.
La maggior parte degli attori avrebbero lavorato sul proprio ego e sull’apparire. Lui invece trasfigura quel momento e rende figurative le sue parole. Secondo me parliamo di una scena di altissimo cinema: non lo dico perché è un mio film, ma quella scena l’ha fatta Guido. Io sono stato fermo su di lui volendo restituirgli tutto quello che ci aveva dato.

Gli altri interpreti e le scelte di Ciro D’Emilio
Gli attori che gli stanno accanto non sono da meno. Anche qui a essere privilegiato non è il glamour ma la capacità espressiva. Parliamo di attori di livello come Antonio Zavatteri Diego Ribon Boris Isakovic
La grande scommessa è stata quella di prendere Antonio Zavatteri, Diego Ribon, Irene Casagrande e Boris Isakovic e chiedergli di non giudicare i loro personaggi ma di cercare di trovare in maniera ostinata una loro verità, una loro ragione. Al di là di chi era la vittima o il carnefice il concetto era che almeno una volta siamo stati tutti nei loro panni. Per questo sarebbe stato ingiusto ridurli meramente a un coro giudicante. Quei personaggi dovevano parlare, si dovevano muovere con la loro convinzione, con la loro verità. Averlo fatto è stato molto importante perché la maniera con la quale Antonio ha interpretato il sindaco e Diego Ribon il personaggio di Stefano è stato un lavoro di grande fatica attoriale perché tutta di sottrazione. Il silenzio scelto da Diego nella scena in cui Bernardo cerca di spiegare a Stefano perché è innocente parla più di mille parole. Il momento in cui lui butta la carta nel cestino del bagno e va via senza aver detto una parola è di una ferocia incredibile. La sua è stata una prova di grande talento e di grande intelligenza. La stessa che ho riconosciuto negli altri attori. Oltre al fatto di aver richiesto ad una attrice come Irene Casagrande un grande rischio com’è stato quello di sorreggere la massiccia presenza fisica ed emotiva di Guido. Il piano sequenza dell’irruzione casalinga si regge anche grazie a lei e al personaggio di Samuele. Bastava non riuscire a gestire un momento a avremmo dovuto riprendere da capo.
Senza gli attori non riesco a pensare alle scene. Nel lavoro di messinscena per me sono prioritari e penso che debbano esserlo per ogni regista. Per questo mi fa piacere che tu ne abbia colto l’importanza. Mi convince sempre di più che oltre a raccontare storie necessarie e scritte con un certo piglio la strada sia quella di privilegiare la recitazione. Quando lavoro con gli interpreti cerco sempre di agevolarli lavorando insieme sui dialoghi prima dell’inizio delle riprese. Nel momento in cui si inizia a girare questo permette al film di riappropriarsi di una verità’ che definisco messa in carne perché quello è l’attimo in cui vedo finalmente le parole scritte sulla carta entrare nella testa e nell’animo degli attori.
Il cinema di Ciro D’Emilio
Parliamo del cinema che ti ha ispirato il tuo lavoro.
In gioventù, sono cresciuto amando maniera ossessiva la Nouvelle Vague di cui oggi abbiamo perso Jean Luc Godard, ossia uno dei massimi rappresentanti. Ho però evitato di ghettizzarmi quindi divorando i film di Pasolini, di Truffaut, Scorsese e Kubrick. Ho sempre amato il cinema a trecentosessanta gradi e tutte le storie che ho sentito necessarie mi hanno fatto apprezzare i film. Però ci sono voluti quindici anni per scoprire quale fosse il mio lungometraggio preferito. Non perché è il più bello ma per il fatto di rispecchiare il motivo per cui faccio questo lavoro e perché ho lottato tanti anni per riuscirci. Si tratta di Un uomo da marciapiede di John Schlesinger. In lui riconosco tre valori portanti della mia ricerca che sono l’ascesa e caduta di un mito, che è anche il mito di se stessi, la resilienza, presente un po’ nel mio film anche se in maniera più cruda, e infine il prezzo da pagare per diventare grandi. Quest’ultimo rintracciabile anche nei miei lavori. Tre motivi che mi spingono a fare questo mestiere, a raccontare storie.