Intervista a Julia Murat, vincitrice di Locarno 75: “Femminismo, queer, oppressione: vi spiego Regra 34”
Il sesso come scoperta, la violenza come sopruso ma anche piacere. Tra analisi sociale e chiacchierata di cinema, la regista brasiliana, già premiata alla Berlinale 2017 con "Pendular", parla di temi e astuzie tecniche del film col quale ha vinto il Pardo d'Oro
Senza fiato. Così Regra 34 di Julia Murat deve aver lasciato la giuria del Locarno Film Festival, aggiudicandosi il Pardo d’oro del 75esima edizione dello storico festival europeo. E nel film della pluripremiata regista brasiliana – già vincitrice del Premio FIPRESCI alla Berlinale 2017 con Pendular – le scene all’ultimo respiro non mancano. Non che Regra 34 sia un thriller. È questione di asfissia erotica: una delle pratiche sessuali, spinte ai limiti, che Simone (Sol Miranda), giovane studentessa di legge, ingaggia tra rischio e piacere.
Di giorno, vestita di tutto punto, segue un master sulle violenze domestiche. Ascolta, dibatte, argomenta di Stato e violenza, legalità offesa, tutela delle donne. Di notte, svestita di tutto punto, si finanzia il master nella video-chat erotica, con le laute mance degli utenti incollati ai pixel del suo corpo di ebano. In mezzo, con gli amici-amanti-colleghi, i coetanei Coyote (Lucas Andrade) e Lucia (Lorena Comparato), condivide la chiacchiera, il party, il fumo, l’alcol, il sesso. E s’incuriosisce per le pratiche BDSM: una sigaretta spenta sulla pelle, una corda che soffoca e fa godere, un bicchiere rotto puntato alla gola. Tra privato e pubblico, violenza e piacere, libertà e libri, Simone fa il suo corso.
I sistemi di oppressione, femminismo e queer, la società patriarcale, le scene di sesso al cinema, le realtà virtuali, il sado-masochismo: dei tanti temi di Regra 34 e delle scelte di stile del film, abbiamo conversato con la regista Julia Murat.
Il prologo di Regra 34 è estremamente fisico. Simone, la protagonista, si concede visivamente agli utenti di una chat erotica. Il suo corpo occupa la scena, in una sorta di schermo nello schermo, che comprende anche i commenti degli stessi utenti della chat. Apprendiamo, dal commento compiaciuto della ragazza, che così si guadagna i soldi per pagarsi un master in legge che riguarda le violenze domestiche. Ci saranno altri momenti di questo tipo nel film, ma alternati, per l’appunto, alle lezioni dialogate in aula e a complessi dibattiti sul tema, spesso focalizzate su cosa faccia lo Stato per prevenire e gestire i casi di violenza. Nei titoli leggo che si ispirano alle lezioni di criminologia del Prof. Mauricio Stegemann Dieter. Si tratta di discussioni vive e presenti in Brasile, o le hai ricreate in vitro nell’ambiente artificiale del film?
Ritengo che negli ultimi 10 anni, almeno dal 2013, tutte queste discussioni siano diventate parte integrante della vita quotidiana in Brasile, sia pure con maggiore o minore diffusione a seconda degli ambiti professionali e di frequentazione. Certo, nel mio gruppo di amici riconosco che c’è un interesse verso la politica più alto rispetto alla media del paese. Ciononostante, a prescindere dalla mia cerchia, la discussione politica è decisamente cresciuta ed è molto presente nel tessuto sociale. Dal canto mio, però, ho cercato di sviluppare un discorso più profondo di quello a cui si è abituati. L’ho fatto spostandomi deliberatamente sul versante della legge, perché la legge è generalmente concepita in una forma che la gente comune non riesce a comprendere del tutto. È un dato di fatto: quando gli avvocati parlano, la gente non capisce.
E non temi che anche al cinema l’effetto “settario” di non capire quel linguaggio si riproponga?
La legge è fatta per un gruppo di persone che, per essere seguito, deve avere rispetto. Per avere rispetto, queste persone necessitano di parlare in modo diverso. Quello che ho cercato di fare è stato, dunque, realizzare un mix tra il linguaggio della quotidianità e quello specifico degli studenti di legge. La modalità di comunicazione nell’ambito del diritto è più formale e profonda, ma io ho cercato lentamente di rendere i dibattiti più “ascoltabili”, a vantaggio delle persone che normalmente non s’intendono di legge. Così, in Regra 34 ho adottato entrambe i punti di vista: quello più accessibile del quotidiano e quello più specifico della legge.
LEX E SEX
Guardare Regra 34 può costituire, dunque, un’esperienza spiazzante per lo spettatore. Il tuo film risulta per certi versi “bipolare”. Da un lato ci sono scene di profonda intimità ed erotismo, dall’altro i contesti formali delle aule del master e delle simulazioni in tribunale. Perché hai deciso di concepire questo continuo cambio di scena? Qual era il tuo obiettivo?
Penso in effetti di essere una persona bipolare! (Ride, n.d.R.) Quando avevo più o meno vent’anni, non frequentavo molti amici, ma alla fine ho legato con un gruppo di persone che amava le feste, il sesso, il divertimento e al tempo stesso la discussione, la politica, l’impegno intellettuale. Per la prima volta ho pensato di essere normale, di potermi connettere con delle persone. In precedenza, invece, avevo sempre vissuto questo tipo di polarizzazione: o vado ai party, o faccio l’intellettuale. Per me andare alle feste è un atto intellettuale, e viceversa, discutere e riflettere è qualcosa che può risultare divertente. Credo che Regra 34 rappresenti questa polarizzazione che è parte di me.
Si può affermare che Simone stia in fondo esplorando in modi diversi il medesimo soggetto, quello della violenza. Vale a dire: tanto nelle proprie esperienze fisiche e sessuali, spinte fino alle pratiche sadomasochistiche e all’asfissia erotica, quanto nel proprio master sulle violenze domestiche. È corretto pensare al sesso come a una diversa esplorazione, in questo senso?
Non sono sicuro che diversa sia la parola giusta, ma direi che la prospettiva è indubbiamente differente. Intendo dire che il sesso apporta dell’altro alla definizione del tema. Ma è vero che alla fine, in entrambe i casi, Simone sta riflettendo e facendo esperienza dello stesso soggetto.
POSIZIONI COMODE E SCOMODE
C’è anche qualche scena in cui, più che un’alternanza, si determina una combinazione tra le due forme contestuali, quella dell’intimità e quella del dibattito. Questo avviene perché i tre protagonisti, amici e amanti, sono anche studenti dello stesso master. In una scena di relax domestico, Simone, stravaccata e col corpo in parte intrecciato a quello della compagna Lucia, si confronta piuttosto animatamente con quest’ultima sul caso di una donna a cui il marito aveva impedito di iscriversi a un corso di cucina nascondendole la carta d’identità. Lucia suggerisce di provare a parlare con l’uomo, Simone si mostra indignata anche solo a valutarne le possibili attenuanti. In discussioni come queste, hai voluto inscenare il semplice conflitto di idee, cercando di rimanere invisibile, oppure hai lasciato trapelare la tua posizione?
Devo dire che non credo affatto nell’invisibilità, specie nel cinema. In ogni tipo di discussione, uno dei problemi più diffusi della nostra società è quello di fingere di essere invisibili. Dal canto mio, non provo alcun desiderio di esserlo. Quello che ci tenevo a mostrare è quanto la discussione fosse profonda e difficile. È un aspetto di cui non ero al corrente quando ho iniziato a girare Regra 34. Non sapevo che fosse così complicato dibattere in termini tecnici sul tema della violenza domestica. Da quando mi sono dedicata alla lavorazione del film ho realizzato che la questione non può essere affrontata in modo moralistico. C’è sempre un modo “giusto” di vedere le cose, anche altri punti di vista possiedono buone ragioni.
Ho dunque pensato che se avessi girato un film mostrando solo il mio punto di vista, ne sarebbe venuto fuori un prodotto naif. Dunque, non mi sono sforzata di restare fuori dal film, ma ho comunque tentato di evidenziare come la discussione sia plurale e tutt’altro che riducibile a una posizione unica.
IL TRIANGOLO
Alla pluralità del film contribuisce, a suo modo, anche la costruzione del triangolo di amici e amanti: Simone, al vertice, con Coyote e Lucia. In questa sorta di trio drammatico c’è però quello che definirei uno shift, un cambiamento o slittamento delle complicità. All’inizio Simone sembra propendere soprattutto per Lucia, al punto che è con lei che prova la prima esperienza di “eccitazione da violenza”, baciandola in spogliatoio dopo esserne stata ferita a un labbro nel corso di kickboxing. Dopo, invece, eleggerà Coyote come partner delle pratiche di BDSM e asfissia erotica. Come hai gestito le interazioni di questo triangolo di personaggi?
Hai ragione quando parli di slittamento. Ci sono cose che ho scoperto solo durante le riprese. Quando ho iniziato a girare Regra 34, non sapevo quasi niente di BDSM. Pensavo solo, immaginandolo, a qualcuno che dominasse e a qualcuno che fosse sottomesso. Ho poi capito che lo shift è per certi versi proprio di questa pratica. C’è una persona che fa entrambe le cose e a cui piacciono entrambe le cose, e così nella recitazione del film tutti e due (Simone – Sol Miranda e Coyote – Lucas Andrade, n.d.R.) assumono entrambe i ruoli, e piace ad entrambe. È quanto succede anche nella vita quotidiana. Amo l’idea che ogni relazione subisca un cambiamento di questo tipo. Da questo s’intuisce che il modo in cui vedo i miei personaggi è queer.
In che senso, per la precisione?
Quello che mi piace dell’universo queer è che riguarda più l’affetto che il piacere, ossia, si concentra sui bisogni della persona e non sulla definizione del ruolo. Quanto ho cercato di ottenere nel definire questo triangolo, è stato non farne un semplice trio, bensì mostrare persone che si amano, che condividono esperienze, che trovano insieme delle forme di espressione. Lo fanno tra loro, ma potrebbero farlo anche con altri: non c’è niente che le leghi al di là di essere insieme in quei momenti. Mi interessava lavorare su ogni singolo personaggio ragionando su quali conflitti e a quali bisogni, scaturiti da situazioni di vita, li portassero a condividere quei momenti.
GENERAZIONE INCASINATA
A proposito di momenti insieme, penso alla distensione di una sera, nella prima parte, in cui Coyote confessa un segreto della propria famiglia relativo a suo padre. Mi colpisce il brindisi polemico di Simone: “un brindisi a tutti i genitori che ci hanno incasinato le vite!” (fucked up our lives, nella versione internazionale). Mi è sembrata la controparte “privata” della confusione che lo Stato ha creato a livello di legge, in cui professori e studenti cercano di districarsi. Ritieni che traspaia, in Regra 34, questo tipo di delusione generazionale, con l’idea di porre rimedio ai casini ereditati trovando forme di solidarietà e diventando soggetti attivi del cambiamento?
Devo forse cercare di schivare questa domanda, per un semplice dato di fatto: sono più vecchia di una ventina di anni rispetto ai protagonisti, quindi appartengo a un’altra generazione. Non nego, tuttavia, che Simone senta qualcosa di connesso a ciò che dici e che questo riguardi anche me. Simone riesce a comunicare e ad avere amici e vita sociale, ma allo stesso tempo avverte una specie di solitudine interiore. È vero che questo riguarda anche gli altri personaggi, ma in Simone è più spiccato. Lei è forte, ma allo stesso tempo, molto dentro di sé, sente una solitudine con la quale non riesce a fare completamente i conti. La relazione con Coyote e Lucia è fatta di solidarietà, ma anche della consapevolezza che per quanto possa essere forte il legame di amicizia, permarrà un senso di solitudine dal quale non riuscirà mai davvero ad affrancarsi.
Regra 34, Simone (Sol Miranda), al centro, con gli amici mentre si diverte con la video-chat erotica (fonte: Imovision)
LE VITTIME DEL SISTEMA (PATRIARCALE)
Parlavamo delle scene di sesso proprio come di parte di questi momenti insieme. Nella rappresentazione del sesso, qual è stata la tua preoccupazione principale? Il rischio è spesso quello di ricadere, senza volerlo, in modelli di una tradizione patriarcale e bianco-centrica. Te lo chiedo perché mi colpisce un’argomentazione usata durante una disputa legale da parte di Simone, che per difendere il proprio assistito, colpevole di violenza verso la compagna, accusa il Sistema di averlo in qualche modo “plagiato”. E io direi, ci sono anche plagi visivi e di narrazione che subiamo costantemente come spettatori.
Come filmare le scene di sesso è stata la cosa su cui ho riflettuto maggiormente, specie dopo aver realizzato Pendular(2017; conteneva molte scene di sesso tra i due protagonisti, una ballerina e un artista che condividono un capannone industriale, n.d.R.). Ripensando al film, non mi sentivo completamente convinta e a mio agio rispetto a quanto avevo prodotto. C’era stato qualcosa a livello formale di troppo teatrale che non mi piaceva del tutto. Ho riflettuto tanto, dunque, sulle scene di sesso in Regra 34, e non solo per la loro importanza nel film.
Forse è strano spiegarla così, ma mi sentirei di dire che per girare quelle scene ho pensato soprattutto a cosa non volessi. Non volevo una scena romantica. Non volevo creare una storia d’amore. Doveva esserci semmai una focalizzazione su ciò che succedeva durante l’amplesso, nella scena stessa, senza un’atmosfera predefinita. Non volevo creare una scena erotica, nel senso di suscitare il piacere di chi guardi la scena – anche se, poi, il piacere si genera lo stesso. L’intenzione non è quella di provocare desiderio in chi osservi, bensì di riprendere il desiderio che si sviluppa tra due persone.
E non volevi, naturalmente, pornografia.
Affatto. Già mi sento a disagio quando mi parli di erotismo. Non volevo pornografia, nel senso che non volevo scioccare. Parlando di modelli di rappresentazione, ci sono film femministi che non mi piacciono affatto, mentre trovo interessanti alcuni dei cosiddetti film post-porn. Se proprio dovessi indicare una tradizione, direi proprio post-porn. Ma più precisamente, cercavo un modo di riprendere il piacere dei due personaggi e il loro senso di scoperta. È un film sulla scoperta, più che sul dolore.
Simone ama il rischio, le piace che il proprio piacere la ponga in una situazione di rischio e dal canto mio volevo mettermi in una situazione di rischio insieme a Simone. Volevo rischiare me stessa con questo film, ed è strano a dirsi, perché il film è piuttosto classico nello stile, con molti campi e controcampi. Ma il linguaggio classico viene dal fatto che non volevo pensare a come girare il film, bensì ad essere presente in quel momento insieme ai protagonisti e riprenderli.
L’EMPOWERMENT LOGORA CHI CE L’HA
Ripassiamo il piccolo vocabolario tematico del film. C’è una parola che spunta in un paio di scene, strettamente connessa alle rivendicazioni delle donne contro il sistema patriarcale: empowerment. Di recente mi è sembrato che il tema fosse a suo modo centrale anche in un altro film brasiliano di certo successo, “Medusa” di Anita Rocha da Silveira (Quinzaine de Réalisateurs a Cannes, poi premiato al Sitges in Europea e al Festival di Rio de Janeiro). Tu definiresti Regra 34 un film di empowerment?
Questa è una parola che mi dà da riflettere. Qualunque cosa sia “empowered”, dotata di potere, costituisce ad ogni modo un problema. “Getting empowered of” significa allo stesso tempo che ti senti meglio con te stessa, ma anche che hai soppresso il potere di qualcun altro. Hai guadagnato potere a discapito di qualcuno. Penso al femminismo come a un’istanza centrale nella nostra società. Il femminismo è stato ed è fondamentale nel senso di mostrare i sistemi di oppressione che ci caratterizzano. Sono state le femministe le prime a farlo. Persino alcune teorie di Foucault sui sistemi di oppressione attingono da teorie femministe.
Ma…
Detto valore storico e presente è innegabile, ma mi sento più connessa con l’universo queer. È un modo di vedere il mondo che, per quanto sia difficile, cerca di smascherare l’oppressione senza però rimpiazzarla con un’altra oppressione. A volte, invece, il femminismo tende a questo rischio. Ho dunque un problema con la parola “empowerment”, perché il potere che presuppone di voler dare alle donne lo toglie ad altri. È più importante che il femminismo agisca per dare speranza e possibilità di credere in sé stesse alle donne.
LO STILE CLASSICO E LE REGOLE INFRANTE DI REGRA 34
A fronte della complessità di Regra 34 e delle questioni che il film solleva, parlavi poc’anzi di uno stile classico, la qual cosa, in effetti, è stata riscontrata, anche con qualche biasimo, da una parte della critica. Vorrei commentare con te una tua vecchia dichiarazione sul cinema: “nel tipo di cinema dal quale sono attratto, stile e linguaggio di un film sono conseguenze della storia, della narrazione e del lavoro degli attori”. Come nasce, in relazione a questi fattori, lo stile piuttosto tradizionale di Regra 34?
Per rispondere a questa domanda, devo spiegare con calma il modo in cui mi sono approcciata al film. Nel cinema, in genere, c’è una squadra piuttosto ampia, ma nelle scene di intimità cerchi di lasciare un po’ di gente a casa, fuori dal set. Una cosa che sapevo dall’inizio di Regra 34 era quella di voler una crew piuttosto ridotta. Nel mio film precedente, Pendular, mi ero resa conto del fatto che la presenza di altri creava uno stato di tensione, nonostante il buon lavoro preliminare con gli attori, col risultato che nella scena finale questa tensione si avverte.
Abbiamo girato Regra 34 in due parti, ossia l’insieme delle scene domestiche e piccole scene da un lato, quelle delle lezioni dall’altro. Ebbene, al momento di girare le scene di sesso non volevo espellere nessuno dal set e allo stesso tempo mantenere un’atmosfera adeguata. Per fare questo, serviva una squadra meno numerosa, ma così si generano dei problemi tecnici.
Ad esempio?
La direzione della fotografia e la gestione delle luci. Sono conseguenze delle nostre scelte di production design ed ho dovuto accettare queste difficoltà. Allo stesso tempo, inoltre, non volevo limitarmi a posizionare la macchina da presa per poi chiedere agli attori di trovare distanze e misure; piuttosto, il contrario: preparare gli attori e in base alle simulazioni delle scene capire dove fosse meglio mettere la macchina da presa. Ricapitolando, da queste due scelte – gestione delle luci più complicata per la crew ridotta, centralità del lavoro attoriale – è derivato uno stile più tradizionale.
Soffermiamoci su entrambe. Per cominciare, spiegami concretamente, dal dietro le quinte, qualche problema sulla fotografia.
Per la luce: non volevo, come ti spiegavo, un film erotico, romantico, o pornografico. Conseguenza: ho rifiutato sia luci da dietro che davanti, perché avrebbero evidenziato i corpi. Desideravo invece un’unica luce soffice e diffusa, luce e non-luce, in modo da immergermi nel contesto, nel luogo. Non solo. Ti faccio anche un esempio relativo alla posizione della macchina da presa. Dopo alcune prove, mi sono resa conto che volevo collocarla abbastanza vicino agli occhi di Simone. Ma ecco, di nuovo, un problema tecnico: come fai ad avere una ripresa frontale, altezza occhi, senza avere anche una luce frontale? Nel tentativo di risolvere queste ed altre complicazioni, è scaturito un linguaggio di tipo “classico”.
Non era una scelta a priori, quindi, bensì il risultato di un processo.
Esatto. Mentre il linguaggio classico è in genere tale perché attinto dalla tradizione, nel mio caso il processo è stato completamente diverso. Si è trattato della mera conseguenza di corrispondere a una precisa volontà, ossia quella di essere vicino ai corpi degli attori e predisporli a recitare in libertà. Sintetizzo così: ho creato ostacoli alla mia squadra tecnica, pur di non crearne agli attori.
SEX AND THE CAST
È un’idea precisa di cinema, dunque: generare il film dal lavoro degli attori. Ti chiedo nuovamente, pertanto, come hai interagito con Sol Miranda (Simone) e gli altri nella predisposizione delle scene di sesso e delle pratiche BDSM di cui parlavamo.
Con un enorme quantità di prove. Enorme. Prove meno formali di quelle di Pendular, però. Amo lavorare con gli attori e fare delle prove con loro è la cosa che forse mi piace di più nel cinema. Abbiamo cercato di ricreare intimità tra loro tre (Sol Miranda, Lucas Andrade, Lorena Comparato, n.d.R.), ma anche con me e con Gabriel Bortolini, assistente alla regia. Passavamo anche un’ora e mezzo a creare intimità tra i corpi. Abbiamo fatto lezioni di tantra, lezioni di BDSM, con persone che ci spiegavano tecniche, limiti e rischi delle pratiche sadomaso; abbiamo studiato le pratiche dell’asfissia erotica per ridurre l’ossigenazione dando piacere senza però mettere in pericolo le persone coinvolte.
Qual era l’obiettivo?
Abbiamo fatto tutto ciò per capire dove ci fosse rischio e dove si generasse piacere. Tutto il film è per gli attori un processo di comprensione sui limiti di queste pratiche, che per loro erano totalmente ignoti. Non è stato facile, perché per comprendere il limite ti devi spingere fino ad esso. Come può notare lo spettatore, alla fine, quello che abbiamo cercato di fare con gli attori, è esattamente quello che fanno i personaggi del film.
I PROBLEMI DEL VIRTUALE NEL CINEMA
Torno all’inizio del film, alla scena con Simone che si esibisce nella propria performance sulla video-chat erotica, mentre gli utenti, di cui leggiamo solo i nickname, commentano, inseriscono gif, mandano del denaro. Per semplificare, diciamo che un cineasta degli anni ’80 girava in interni ed esterni, case o strade. Una cineasta contemporanea, per allinearsi agli scenari del terzo millennio, si trova di fronte all’opportunità di includere schermi nello schermo, cioè di far entrare le realtà virtuali nel cinema, che si tratti di una chat erotica, di una videochiamata dal pc o da WhatsApp, e così via. Da autrice contemporanea, come ti trovi a gestire questo mutato “paesaggio cinematografico”, che impone di includere nel film anche gli spazi virtuali?
Sto seguendo un master a New York perché ho capito che dovevo tornare a studiare per le tante cose che stanno cambiando nel processo di filmmaking. Voglio essere più connessa sia al linguaggio, sia a ciò che la società pensa. Quando ho girato le scene “virtuali”, volevo soprattutto che sembrassero reali. Anche su questo il lavoro è stato considerevole. Ogni utente virtuale ha vita propria, è diverso dagli altri. È una cosa su cui io e Gabriel abbiamo molto riflettuto.
Regra 34, Simone parla con un’amica esperta di pratica BDSM
Come si fa a creare interazione tra il personaggio così carnale di Simone e gli utenti “invisibili”?
Un esempio è quello del meccanismo con cui gli utenti della videochat erotica pagano ed elargiscono i token. Il modo tecnicamente corretto era quello di usare il green screen, quindi filmando a parte la performance di Simone e poi sovrapponendo la cornice visiva delle donazioni di denaro sullo schermo. Ma in questo modo, non ci sarebbe stata alcuna reazione in tempo reale da parte di Simone, l’azione sarebbe risultata passiva.
Ci siamo allora inventati un meccanismo particolare. Gabriel ha creato i personaggi virtuali, si è messo nell’altra stanza con un pc connesso al pc di Simone. Di fatto, interpretava tutti gli utenti virtuali allo stesso tempo, scriveva al posto loro. L’unico problema, a questo punto, era che non poteva fingere di essere dieci personaggi allo stesso tempo. Pertanto, dopo ogni ripresa, Gabriel tornava al proprio computer nell’altra stanza e aggiungeva reazioni, emoticon, token di un altro utente\personaggio. Lo faceva reagendo sulla base della parte interpretata da Simone. In postproduzione abbiamo fuso il tutto, ma come vedi, l’effetto realistico è determinato dal fatto che abbiamo cercato di ottenere delle reazioni vere, anziché semplicemente girare in parallelo tutta la parte virtuale e sovrapporla.
VALENTINA DI GUIDO CREPAX, GULLIVERIANA DI MILO MANARA
Era proprio a questo che mi riferivo quando ti parlavo di ingresso delle realtà virtuali nel paesaggio cinematografico. Ci hai dato un esempio vivo di come, per mostrare nuovi aspetti della realtà che cambia, si pongano, anche tecnicamente, nuovi problemi ai cineasti. Ma oltre al nuovissimo, in Regra 34 c’è anche qualcosa di più “vintage”, ci sono tracce di altri codici dell’immagine. Questa è più una curiosità, ma non posso esimermi dal chiedertelo, visto che l’intervista si pubblica in Italia: nella stanza di Simone c’è un poster della protagonista di Gulliveriana di Milo Manara, e uno di Valentina di Guido Crepax. Che valore aveva porre queste icone nello spazio di Simone?
Valentina è stata molto importante per la nostra generazione e ha rotto molti limiti ma allo stesso tempo ha portato altri modi patriarcali di concepire il sesso. La nostra generazione era connessa a un personaggio come il suo, la capiva appieno perché coglieva il nesso tra sesso e oppressione. Col tempo, questa connessione si è forse smarrita. Ma ci tengo a precisarlo: non è una critica a Valentina, né tantomeno ai personaggi femminili di Manara. Per la nostra generazione sono stati davvero importanti. Mi riferisco, piuttosto, a come storicamente la nostra società abbia ripensato a questi personaggi.
LAVORI IN CORSO
A parte il master a New York, qual è il prossimo progetto?
Al momento, se posso sbilanciarmi, direi che il mio prossimo film si avvia ad essere un’autobiografia. Guarderò alla mia storia personale per capire questioni di genere e sesso, genere e razza. Non manca un’ispirazione dallo stesso Manara. Cercherò di capire dove sia l’oppressione e come io sia parte di quel Sistema che mi opprime, ma da cui traggo anche profitto. Sono una donna bianca della classe media in un paese con molto razzismo, ma allo stesso tempo una donna che vive in una società patriarcale. Lo stesso Sistema che usiamo per attingervi forme di potere è il Sistema che ci opprime. Quanto al linguaggio filmico, potrebbe trattarsi di un musical, perché ritengo che sia un genere che mi consenta di affrontare questi temi in un modo più aperto.
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