A Venezia 79, qualche giorno fa nella sezione Orizzonti, abbiamo potuto apprezzare il film The happiest man in the world, che costituisce il gradito ritorno in regia della valida regista macedone Teona Strugat Mitevska, nota nel nostro paese per l’ironico e semi-serio film Dio è donna e si chiama Petyrunya, apprezzato nel 2019 alla Berlinale e presentato lo stesso anno anche al Torino Film Festival.
The happiest man in the world La ricerca dell’amore, e quella del perdono
La quarantacinquenne indipendente e professionalmente realizzata Asja cerca da tempo un’anima gemella. A tal fine si lascia persuadere a partecipare ad un meeting organizzato da una società esperta in materia di cuori solitari, per verificare se è possibile raggiungere quell’effettivo equilibrio sentimentale che pare la sola cosa a mancarle.
Viene abbinata, apparentemente in modo casuale, al taciturno bancario Zoran. Poco per volta scopriremo l’uomo interessato a mettersi in contatto con lei per espiare uno dei suoi più lancinanti sensi di colpa. Un trentennio prima ancora teenagers, aveva partecipato da soldato ad un attentato ai danni di innocenti bosniaci nella città di Sarajevo. Tra le vittime coinvolte, la stessa giovane Asja che, a differenza del fratellino, riuscì a salvarsi, seppure ferita nel corpo e nell’anima.
La recensione
Era lecito avere notevoli aspettative nel film che ci fa ritrovare la regista dell’apprezzato e insieme stordente Dio è donna e il suo nome è Petrunya.
Teona Strugar Mitevska torna in regia affrontando ancora una volta una storia avente per epicentro il senso di appartenenza ed il sentimento straniante e devastante che ha colto tutte le varie etnie jugoslave con lo scoppio della sanguinosa guerra fratricida dei Balcani in pieni anni ’90.
Ed ancora oggi certe ferite, magari completamente guarite nel corpo come quelle di Asja, rimangono scoperte a livello emotivo, suscitando sensi di colpa, rimorsi e soprattutto incredulità ogni volta che la mente torna a ripercorrere quel buio periodo di attentati e agguati sanguinosi.
La regista non rinuncia al suo tocco pungente, paradossale e perfino un po’ onirico, che si traduce soprattutto nella rappresentazione del concorso per anime gemelle e nella descrizione dei partecipanti, ma anche della stessa vetusta struttura demodé e ampiamente kitsch che accoglie tutti i partecipanti a quel gioco delirante in cui tuttavia tutti i concorrenti un po’ credono per davvero.
Ecco allora che il bisogno d’amore e di una coerente vita affettiva si alternano al tentativo, tardivo ma cocciuto, del timido partner della donna, di svelare al più presto le sue carte per liberarsi da un rimorso del carnefice che, alla fine, non risulta meno devastante di quello che divora le vittime.
Argomenti scottanti e sempre vivi nella mente e tra l’opinione pubblica, e il desiderio di reagire con sferzate di ironia che funzionano e si rivelano sempre sagaci, permette al film della Strugar Mitevska di considerarsi riuscito e un nuovo capitolo fondamentale di un percorso artistico che si rivela sempre più stimolante.
L’;uomo più felice del mondo; a Venezia 79