Sono un cineasta. Il cinema è il mio modo di esprimermi ed è ciò che dà un senso alla mia vita. Niente può impedirmi di fare film. Per questo devo continuare a filmare, a prescindere dalle circostanze: per rispettare quello in cui credo e per sentirmi vivo.
Queste parole risuonano in modo ancora più urgente di fronte all’ennesima notizia che getta il mondo del cinema e della cultura nello sgomento: Jafar Panahi è stato tratto in arresto l’11 luglio a Teheran. Si era recato in procura per verificare la situazione di due suoi colleghi detenuti in prigione la settimana precedente. Mohamad Rasoulof e Mostafa al-Ahmad erano stati accusati di aver minato la sicurezza dell’Iran semplicemente perché avevano denunciato attraverso i social network la violenta repressione attuata dal governo in risposta ai disordini dopo il crollo del complesso Metropol ad Abadan il 23 maggio, in cui sono morte almeno 41 persone.
Il regista iraniano dovrà scontare sei anni di detenzione per una condanna (produzione di propaganda antigovernativa) che risale al 2011, finora mai di fatto applicata. Panahi era stato isolato fisicamente col divieto di uscire dal suo Paese. Nonostante tutto, aveva continuato a realizzare film che hanno viaggiato per lui in tutto il mondo e nei Festival più prestigiosi, fino a No Bears (Gli orsi non esistono, 2022), presente nel concorso di Venezia 79.
In Iran arresti per i cineasti iraniani Jafar Panahi, Mohammad Rasoulof, Mostafa Aleahmad
Il cinema, un’ estensione di se stesso
Aiuto regista di Abbas Kiarostami per il meraviglioso Sotto gli ulivi (1994), Jafar Panahi ha debuttato da solo dietro la macchina da presa nel lungometraggio Il palloncino bianco (1995), film rivelazione e Camera d’Or come migliore opera prima a Cannes nel 1997: una bambina deve comprare un pesciolino rosso ad ogni costo. Pervaso dall’aura di Kiarostami (autore della sceneggiatura), in presa diretta, zeppo di personaggi della strada, per guardare anche ciò che non è bello da vedere.
Lo specchio (1997, Pardo d’Oro a Locarno): a Teheran, all’uscita della scuola, una bambina non trova sua madre e decide di tornare a casa. Ma nel bus, la piccola (Aida Mohammadkhani, la stessa folgorante interprete de Il palloncino bianco) all’improvviso si stufa di recitare, si toglie il velo e il finto gesso al braccio e molla tutti, dimenticandosi il microfono. Panahi decide di continuare a girare e di seguirla.
Il cerchio (2000, Leone d’oro alla 57^ Mostra del Cinema di Venezia): un collage tutto femminile nella colpa di esistere ed essere donna in un Iran maschilista e oppressivo.
Offside (2006): Iran e Bahrein giocano per la qualifica ai Mondiali 2006 e alle donne è proibito entrare negli stadi. Sei giovani tifose tentano inutilmente di forzare il blocco, finché la gente invade le strade per festeggiare la vittoria, in un entusiasmo collettivo maschile e femminile, un abbraccio visivo incontrollabile, di sicuro irritante per il regime islamico.
Clandestinità diventa la parola d’ordine del suo fare cinema
Il 2010 sarà infatti l’anno più duro per il regista: accusato di propaganda contro la Repubblica islamica (Panahi aveva partecipato ai movimenti di protesta contro Ahmadinejad del marzo 2010 a Teheran), viene condannato a sei anni di reclusione, riuscendo però a ottenere la libertà vigilata, pagando una cauzione salatissima. Privato del passaporto, scatta l’interdizione dalla professione per vent’ anni: vent’ anni senza dirigere film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste a media stranieri… Un verdetto agghiacciante. Il regista, a questo punto, sceglie di non abbandonare l’Iran ma di continuare a raccontarlo da dentro, senza arretrare nelle lotte da sempre portate avanti con il suo cinema.
This is not a film (2012): un diario della sua reclusione domestica, in attesa del verdetto della Corte d’Appello a cui si era rivolto contro la condanna inflittagli. Panahi chiama Mojtaba Mirtahmasb, un suo collaboratore, che arriva e inizia a filmare, donandoci un visivo prospettico da balcone, da televisione e da androne, sempre critico e denso di esistenza.
Closed Curtain (2013), girato anche grazie al rischioso aiuto del regista Kamboziya Partovi. Un uomo ed il suo cane arrivano clandestinamente con un taxi in una villa. È uno sceneggiatore, continuamente interrotto nella sua ispirazione da un elemento esterno (una giovane donna). Panahi entra lui stesso in scena ad un certo punto, manifestando la presenza di una troupe impegnata nelle riprese. Capiamo che quella villa è sua… La creatività è continuamente spezzata, alla ricerca di uno spazio libero che non può manifestarsi.
La maturità espressiva da reclusione
Taxi Teheran (2015), Orso d’Oro al Festival di Berlino: Jafar Panahi fa entrare Teheran dentro un taxi, nel quale si mimetizza come autista, nascondendo una videocamera e caricando i passeggeri. Dal suo abitacolo, il regista ascolta, interagisce, osserva, realizzando un miracolo di meta-cinema, fondendo realtà e finzione in un novus filmico e visivo carico di libertà creativa, verità e amore immenso per l’essenza che il cinema incarna. Un respiro di rappresentazione, un ‘dolce inganno’, denuncia e atto di forza contro ogni costrizione, limitazione, repressione dei diritti fondamentali.
Three Faces (2018, Migliore Sceneggiatura al Festival di Cannes), una nuova variazione del concetto di confine: al taxi, Panahi sostituisce un fuoristrada, lasciando naturalmente senza permesso Teheran e spingendosi sulle montagne del Nord-Ovest. Una famosa attrice iraniana riceve il video di una ragazza che implora il suo aiuto per sottrarsi a un destino inevitabile. L’attrice e Panahi partono verso il villaggio per scoprire la verità sul video ricevuto. Col suo set itinerante su 4 ruote, il regista percorre un viaggio nel cuore dell’Iran, tra incontri comici, poetici, destabilizzanti, legati idealmente dalle tre donne protagoniste del film: l’attrice emergente (la ragazza); l’attrice famosa Behnaz Jafari che impersona se stessa e si confronta con l’inferiorità giuridica della donna nel diritto iraniano e la superstizione di un monoteismo intransigente; l’attrice isolata (che non vedremo mai), una donna che “faceva film” prima della Rivoluzione del ’79 e ora vive come una reclusa nella casetta al di fuori del villaggio.
Jafar Phanai è riuscito e riesce in condizione estreme, dentro limiti fisici, materiali, geografici, a vincere la libertà di autodeterminazione e di consapevolezza, realizzando quel cinema indispensabile anche nella sperimentazione dei canali dentro i quali far viaggiare pensieri, valutazioni, testimonianze, bellezza, disincanto e tanta, tanta poesia.
‘Gli orsi non esistono’ di Jafar Panahi in concorso a Venezia 79 – Taxidrivers.it
Tre volti di Jafar Panahi la capacità del cinema di generare sogni