Nel ricco e variegato panorama dell’odierno cinema indie americano, una delle figure più interessanti è senz’altro rappresentata dal regista e sceneggiatore newyorkese Noah Baumbach.
Cantore della middle-class intellettuale metropolitana (New York in primis), ma anche narratore del senso d’inadeguatezza dei giovani adulti nel passaggio all’età matura, Baumbach nei suoi film mette in evidenza nevrosi e paure, ambizioni e frustrazioni di un microcosmo tenero e sofferente composto da nuclei familiari disfunzionali e personaggi alla ricerca di sé. Le sue commedie, definite malinconiche, raccontano la quotidianità in agrodolce, preferendo alle trame complesse l’analisi delle dinamiche relazionali e della sfera emotiva dei suoi protagonisti, straordinari emblemi della fragilità umana. Il suo è un cinema che non nasconde le ascendenze colte: Woody Allen, Eric Rohmer e la Nouvelle Vague, John Cassavetes; fonti d’ispirazione di un autore in possesso di una visione e di uno stile così personali da non lasciare alcun dubbio sulla sua originalità e sul suo talento.
Il cinema baumbachiano degli esordi
D’altronde il rapporto tra Noah Baumbach e la settima arte, più che il frutto di un incontro, può definirsi il risultato di un vero e proprio imprinting familiare, essendo entrambi i suoi genitori (il padre Jonathan e la madre Georgia Brown) dei noti critici cinematografici. Cosicché sembra persino naturale che a soli 26 anni Noah giri il suo primo lungometraggio, Scalciando e strillando (1995) – da lui stesso scritto, al pari di tutta la sua successiva filmografia -, storia del giovane neolaureato Grover (Josh Hamilton), aspirante scrittore, che, persa l’amata Jane (Olivia d’Abo), trasferitasi per studiare a Praga, attraversa con i suoi amici un periodo di crisi legato ai timori per le inevitabili scelte da compiere in vista della vita adulta.
L’opera prima di Baumbach – arricchita dalla partecipazione dell’icona altmaniana Elliott Gould – riceve gli elogi della critica e mostra già chiaramente alcuni dei topoi propri delle sue opere successive: la presenza di scrittori o aspiranti tali in crisi creativa, i dubbi esistenziali dei protagonisti legati alla paura di fare ingresso nel cosiddetto mondo dei grandi. Il tutto all’interno di una struttura narrativa ricca di quei dialoghi serrati destinati a diventare essi stessi elemento caratterizzante del cinema baumbachiano.
La discreta accoglienza ricevuta da Scalciando e strillando spinge il giovane regista a realizzare la sua seconda pellicola, Mr. Jealousy (1997), brillante commedia sentimentale che gira intorno alla gelosia ossessiva dell’aspirante scrittore e professore precario Lester (Eric Stoltz), il quale teme che Dashiell (Chris Eigeman), ex della sua fidanzata Ramona (Annabella Sciorra), di cui peraltro invidia il successo letterario (altro topos del cinema di Baumbach), nutra ancora dei sentimenti nei confronti di quest’ultima.
A Mr. Jealousy seguirà quasi consecutivamente l’opera terza dell’autore newyorkese, Highball (1997), divertente racconto girato in soli sei giorni in cui una coppia di giovani sposi, nell’arco di un anno, dà tre feste nella propria abitazione di Brooklyn per cercare di migliorare la propria vita sociale.
Noah Baumbach e la svolta della sua carriera: Il calamaro e la balena
La svolta nella carriera di Noah Baumbach avviene sette anni più tardi, allorquando nel 2004 questi viene chiamato da Wes Anderson come sceneggiatore del suo Le avventure acquatiche di Steve Zissou (2004). Sarà lo stesso Anderson, infatti, l’anno seguente, a co-produrre Il calamaro e la balena (2005), opera quarta con cui il regista newyorkese si impone all’attenzione del pubblico e della critica internazionali.
Il calamaro e la balena è la storia di un’implosione familiare ambientata nella Brooklyn della metà degli anni’80. Bernard (Jeff Daniels) e Joan Berkman (Laura Linney) sono una coppia di scrittori sposata con due figli, Walt (Jesse Eisenberg) e Frank (Owen Kline). La crisi creativa di lui e il concomitante successo letterario di lei comportano frizioni e ripicche che rendono inevitabile la separazione. E così, mentre padre e madre si lanciano in nuove, improbabili avventure sessual-sentimentali, i figli, allo sbando emotivo, sono chiamati ad affrontare la nuova, instabile situazione.
Noah Baumbach mette in scena un racconto strettamente autobiografico che prende spunto da vicende da lui realmente vissute in occasione della separazione dei propri genitori. Il milieu è quello alleniano della borghesia intellettuale newyorkese. Il registro risulta tragicomico, giocato sui dialoghi serrati e sull’esatta alternanza tra situazioni divertenti e momenti drammatici. La camera a mano costantemente vicina ai protagonisti rivela la predilezione del regista per le azioni/reazioni di questi, anziché per la storia in sé.
È l’universo emotivo sconvolto – sublimato in una sessualità da scoprire o riscoprire – l’oggetto del suo interesse, in questo coming of age paradossale in cui i figli adolescenti sono chiamati a crescere mentre i genitori regrediscono. Perché in fondo si è al cospetto di un racconto di formazione e deformazione. E così, mentre veniamo chiamati a riflettere sull’instabilità dei rapporti, sull’egoismo di fondo che regola le relazioni umane e sullo snobismo narcisista di una certa figura di intellettuale – messa alla berlina dal maldestro tentavo di Walt di spacciarsi come tale –, sono le parole di Hey You dei Pink Floyd cantate dallo stesso Walt a risuonare come disperata richiesta d’attenzione o forse soltanto come grido di dolore: “Hey you, out there in the cold, getting lonely, getting old, can you feel me?”.
Il matrimonio di mia sorella – Film (2007)
Noah Baumbach, la conferma del suo talento: con Il matrimonio di mia sorella e Lo straordinario mondo di Greenberg
Il calamaro e la balena riscuote un notevole successo e finisce per essere candidato al Premio Oscar 2006 per la miglior sceneggiatura originale, scritta dallo stesso Baumbach, il quale, due anni dopo, torna a dirigere il suo quinto film: Il matrimonio di mia sorella (2007). È la storia della nevrotica Margot (Nicole Kidman), scrittrice di fama, moglie in crisi di Jim (John Turturro) e amante di Dick (Ciarán Hinds), che assieme al figlio preadolescente Claude (Zane Pais) lascia Manhattan per recarsi dalla sorella Pauline (Jennifer Jason Leigh), prossima alle nozze con lo strambo Malcolm (Jack Black). La mancata approvazione di quest’ultimo da parte di Margot, farà riemergere tra le due sorelle vecchi risentimenti che finiranno per coinvolgere tutti, più giovani compresi.
Spostandosi dall’ambiente metropolitano agli spazi aperti del Long Island, Noah Baumbach continua a rivolgere la sua attenzione alle dinamiche delle famiglie disfunzionali in un racconto che, nonostante la presenza del comico Jack Black, riveste dei toni decisamente più drammatici rispetto a quelli de Il calamaro e la balena. Ma al pari di quest’ultima pellicola, anche ne Il matrimonio di mia sorella le relazioni parentali, sotto la pressione della convivenza, tendono alla dissoluzione, attivando – come nel caso del rapporto Margot/Pauline – meccanismi che, in nome di un presunto senso di protezione, rivelano in realtà gelosie e istinti sopraffattori. E così, tra conflitti mai sopiti o in procinto di nascere (quello tra Claude e Margot?), accuse di speculazione (Pauline imputa a Margot d’essere diventata famosa narrando al mondo intero le vicende private di famiglia), frustrazioni e sensi d’insicurezza vari, il bilancio è decisamente fallimentare.
Con il suo sesto lungometraggio, Lo straordinario mondo di Greenberg (2010), Noah Baumbach mette in scena la storia di Roger Greenberg (un ottimo Ben Stiller), quarantenne falegname ed ex musicista appena ripresosi da un esaurimento nervoso, che si trasferisce da New York a Los Angeles nella villa del fratello Philip (Chris Messina), momentaneamente in Vietnam. Qui farà la conoscenza di Florence (Greta Gerwig), aspirante cantante e collaboratrice di Philip, con la quale imbastirà una complicata relazione sentimentale.
Messa da parte l’analisi delle dinamiche familiari, il regista americano realizza una commedia dal registro tragicomico – in concorso per l’Orso d’oro alla 60esima edizione del Festival internazionale del cinema di Berlino – che si concentra sulla crisi esistenziale di un adulto incapace di far parte del mondo degli adulti. Roger annaspa nella vita esattamente come annaspa nella piscina del fratello. Non guida, non vuol trovarsi un lavoro vero e passa le sue giornate a scrivere lettere di protesta da inviare ai giornali. Il suo pessimismo è radicale, il rifiuto del presente è assoluto. E il rifugio narcisistico in un passato che forse nemmeno ha vissuto resta l’unica via di fuga.
Ma Roger è anche qualcosa più di tutto questo: è un magnifico perdente; un arguto, agguerrito e tenero antieroe che, nella sua ricusazione della realtà/normalità sembra essere la versione moderna del calviniano Cosimo de Il barone rampante. Perché lui in fondo non è che un ansioso sognatore; un disadattato ferito dalle asperità della vita che vuol soltanto evitare di ferire gli altri e che invia lettere di protesta nell’illusione di poter cambiare il mondo. Il mondo non cambierà, ma l’amore di Florence potrà cambiare lui, aiutandolo a superare il suo senso d’inadeguatezza e a recuperare quella fiducia in sé così drammaticamente smarrita lungo la strada della vita.
Frances Ha
Dal mumblecore Frances Ha agli incroci generazionali di Giovani si diventa e Mistress America
Il tema della precarietà e del timore/incapacità di entrare a far parte del mondo degli adulti è anche al centro dell’opera successiva di Baumbach, Frances Ha (2012), splendido racconto ambientato nella Grande Mela che ha per protagonista la ventisettenne Frances (Greta Gerwig, qui anche co-autrice dello script assieme allo stesso Baumbach), aspirante ballerina, che, lasciato l’appartamento dove viveva assieme a Sophie (Mickey Sumner), sua amica del cuore trasferitasi dal fidanzato, inizia un lungo giro tra case e dormitori alla ricerca di una stabilità che non è soltanto abitativa.
La pellicola rappresenta un’autentica ventata d’ottimismo grazie alla figura della protagonista, sempre pronta a reagire positivamente all’instabilità economica e ad affrontare col sorriso le sfide e i timori di una delicata fase di transizione, in cui ai sogni e alle speranze occorre abbinare un sano realismo. E decisamente realista è questa storia proposta da Noah Baumbach, il quale mette in scena un mumblecore che strizza l’occhio al cinema di John Cassavetes e della Nouvelle Vague – Truffaut in primis -, sullo sfondo di un b/n che inevitabilmente rimanda al Woody Allen di Manhattan (1979).
Ci troviamo, insomma, dinanzi a quella che forse è l’opera più riuscita (assieme a Storia di un matrimonio) di Baumbach; quella in cui la poetica minimalista dell’autore riesce ad essere più credibile ed efficace.
Il film successivo del cineasta newyorkese affronta il tema del confronto generazionale. Parliamo di Giovani si diventa (2014), brillante dramedy dalle sottili venature thriller in cui i coniugi quarantenni Josh (Ben Stiller) e Cornelia (Naomi Watts) – documentarista in crisi creativa lui, produttrice lei -, dopo aver stretto amicizia con l’aspirante documentarista Jamie (Adam Driver) e la fidanzata Darby (Amanda Seyfried) – dinamica coppia di venticinquenni hipster – vengono da questi coinvolti in un tourbillon di iniziative che li porterà a vivere una seconda giovinezza. Sulle ali del ritrovato entusiasmo, Josh, affascinato dal carisma e dalle idee di Jamie, aiuterà il giovane amico a realizzare un suo personale documentario. Sarà questo il momento in cui l’ingenuo quarantenne prenderà atto dello spregiudicato modus operandi del ragazzo, abile manipolatore della (presunta) verità narrata.
Affrontando nuovamente il tema dell’incapacità di accettare il tempo che passa e interrogandosi sul nesso tra cinismo, mistificazione e successo, Baumbach, focalizzandosi sulle dinamiche che animano il rapporto Josh/Jamie, mette in mostra le profonde differenze etico-culturali che separano due generazioni a confronto. Infatti, se per Josh l’approccio al lavoro (e alla vita stessa) non può che essere improntato al rigore e all’onestà intellettuale, per Jamie il fine giustifica i mezzi; e pur di ottenere ciò che vuole, è disposto ad adulterazioni e giochi sporchi. È la dura lotta per il successo, in fondo. Quella per cui Jamie sembra avere le armi meglio affilate, nascoste sotto una patina decisamente estetizzante.
D’altronde – sembra amaramente riflettere l’autore statunitense – nell’odierna declinazione della debordiana società dello spettacolo, in cui “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione”, è davvero così importante distinguere tra verità e contraffazione? O non ha forse ragione Jamie a pensare che in fondo il vero “vero” non importa a nessuno; che tutto è giustificato dal successo, dalla fama e dal denaro?
Sono le domande che aleggiano su questo tragicomico racconto e che amaramente trovano risposta nella sconfitta della purezza di Josh e di un’intera generazione sandwich, presa in mezzo tra il vecchio che non cede il passo (il suocero di Josh, documentarista di fama internazionale) e il nuovo che scalpita per avanzare. Il tutto in un film decisamente alleniano nella prima parte, che perde quota in un finale che forse poteva essere meglio organizzato.
Un incontro – senza scontro – tra generazioni diverse è anche alla base dell’agrodolce Mistress America (2015), nona pellicola di Noah Baumbach, il quale, tornando sul tema del passaggio all’età adulta e della crisi a questo connessa, lascia incontrare Tracy (Lola Kirke), giovanissima aspirante scrittrice e solitaria matricola di un college newyorkese, e la “quasi” sorellastra Brooke (Greta Gerwig), pirotecnica, entusiasta trentenne impegnata in mille attività, che progetta di aprire un ristorante e finisce per coinvolgere la stessa Tracy nel suo vortice inarrestabile. Perché Brooke è un’entusiasta della vita che si innamora di tutto e si fa travolgere dalla passione. Ed è proprio questa la ragione per cui la trentenne protagonista non riesce a scegliere su cosa concentrarsi e su quale attività costruire il suo futuro.
Ammaliata da questo strambo, affascinante uragano fatto di passione e insuccessi, Tracy annota tutto per trarre spunto per il suo romanzo– così come fa Margot/Kidman con le vicende della sorella Pauline/Jason Leigh ne Il matrimonio di mia sorella – , mettendo in evidenza fragilità e debolezze di un personaggio originale e affascinante ma in fondo solo e spaventato.
Mistress America
Il cinema di Baumbach dopo il documentario De Palma: The Meyerowitz Stories
Dopo aver co-diretto assieme a Jake Paltrow De Palma (2015), documentario sul grande regista statunitense Brian De Palma, Noah Baumbach torna al cinema di finzione con The Meyerowitz Stories (2017), tragicomico racconto delle vicende dell’omonima, atipica famiglia composta dall’attempato Harold (Dustin Hoffman), egotico scultore poco riconosciuto e ancora alla ricerca dell’affermazione personale, dalla sua compagna Maureen (Emma Thompson), e dai suoi tre figli Danny (Adam Sandler), Matthew (Ben Stiller) e Jean (Elizabeth Marvel), nati da madri diverse.
L’improvviso ricovero in ospedale di Harold – narcisista fonte di sofferenze per i familiari – farà riaffiorare tra i fratelli episodi e livori malcelati, ma darà loro anche la possibilità di imbastire un rapporto più sereno intraprendendo un percorso di emancipazione dall’ingombrante figura paterna. Percorso che qui non può che trovare metafora più efficace nella vendita della casa di famiglia.
Sebbene il rimando più immediato sia a I Tenenbaum (2001) dell’amico Wes Anderson, Noah Baumbach, tornando nell’ambiente borghese intellettuale della Grande Mela, realizza quella che probabilmente è la pellicola più vicina al mondo del suo maestro Woody Allen. Una splendida New York fa da cornice a un racconto che affronta nuovamente il tema della complessità dei rapporti familiari e delle dinamiche contorte che ne sono alla base.
Impreziosisce il tutto l’ottima prova dell’intero cast (Adam Sandler in primis), valore aggiunto di una commedia imperniata – nel puro stile baumbachiano – su dialoghi intensi e brillanti.
The Meyerowitz Stories
Storia di un matrimonio
A distanza di due anni da The Meyerowitz Stories, il regista statunitense fa uscire nelle sale cinematografiche Storia di un matrimonio (2019), racconto di una crisi matrimoniale che vede protagonisti il regista teatrale off-Broadway, Charles (un eccezionale Adam Driver), e la moglie Nicole (Scarlett Johansson), attrice dal passato successo cinematografico, ora nella compagnia del marito, i quali, dopo essersi messi d’accordo nel voler comporre bonariamente la questioni legate all’imminente separazione e all’affidamento del loro piccolo figlio Henry (Azhy Robertson), si fanno sorprendentemente trascinare dai rispettivi avvocati in un vortice di minacce e ripicche tanto impensato, quanto inevitabile.
Dopo 14 anni da Il calamaro e la balena, Baumbach torna al racconto di una rottura matrimoniale imbastendo la più riuscita (assieme a Frances Ha) delle sue commedie malinconiche. Quello che l’autore immagina per i due protagonisti è una sorta di continuum. Un teatro fuori dal teatro. O per meglio dire un teatro perpetuato nella contesa giudiziaria.
Sì, perché in fondo anche qui occorre seguire un copione scritto da altri, c’è da raccontare una storia tuttalpiù verosimigliante, bisogna convincere qualcuno – pubblico o giudice che sia – della propria versione dei fatti. Il grave rischio, però, è che non soltanto le intenzioni, ma anche i sentimenti restino schiacciati sotto il peso di dinamiche in costante, ingestibile deterioramento.
A dare speranza di una ritrovata serenità restano i piccoli gesti e l’affetto degli sguardi. E un foglio sdrucito nelle mani di Henry che potrebbe restituire il giusto valore alle cose.
Pur evocando gli illustri antesignani del genere come Scene da un matrimonio (1973) di Ingmar Bergman e Kramer contro Kramer (1979) di Robert Benton, Storia di un matrimonio è un film che non vuole assomigliare a nessuno, se non a se stesso e più in generale al cinema baumbachiano. Ed è in tal senso che ci troviamo dinanzi a quella che può definirsi la riuscita prova di maturità del regista newyorkese, il quale, come sempre abilissimo nel bilanciare sorrisi e affanni, è anche autore di uno script a dir poco eccellente che trova nel cast di altissimo livello il giusto gruppo d’interpreti.
Su tutti spicca Laura Dern che, grazie alla sua ottima interpretazione dell’avvocata Nora Fanshaw, nel 2020 ottiene un vero e proprio trionfo personale riuscendo a vincere, tra gli altri, il Premio Oscar, il Golden Globe e il BAFTA, tutti per la miglior attrice non protagonista.
Dopo aver brevemente passato in rassegna le pellicole di Noah Baumbach, non ci resta che ricordare l’ultima fatica del regista, White Noise, ancora con Adam Driver e arrivato in streaming su Netflix.
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