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‘Gigi la legge’ è un capolavoro di umanità e poesia cinematografica. Conversazione con Alessandro Comodin

Un capolavoro di umanità e poesia cinematografica.

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Vincitore del  premio speciale della giuria all’ultima edizione del Festival di  Locarno, Gigi la Legge di Alessandro Comodin è un film unico nel suo genere, capolavoro di umanità e poesia cinematografica. La conversazione che segue è un viaggio alla scoperta di un modo di fare cinema che abbiamo dimenticato. Produce OKTA FILM.

Alessandro Comodin, regista di Gigi la legge

La prima scena di Gigi la legge è emblematica delle cose che stanno dentro il film. A un primo livello il segmento in questione racconta la conflittualità del protagonista. Sul piano formale invece il fatto di inquadrare il personaggio di spalle e di profilo, sottraendolo di fatto alla vista del pubblico, è la spia di un altro tipo di investigazione, diversa da quella di Gigi intenzionato a fare luce sul suicidio di una giovane donna. Il film infatti è innanzitutto un percorso intorno alla complessità di un personaggio destinato a rivelarsi diverso da quello che sembra. Presentarlo celandone in parte la vista stimola la curiosità dello spettatore chiamato in qualche modo a scoprire la realtà della sua storia. 

Sì, è vero. Ogni buon film – non so se il mio lo è – contiene la traccia del modo con il quale si fa, diventando anche documentario di questo fare. Come dici tu la prima inquadratura svela il personaggio e svela il mio sguardo, la mia posizione. Un poco alla volta capiremo che tutto il film sarà un lungo percorso per descrivere tutte le piccole e microscopiche sfaccettature di una persona di provincia: a prima vista banale in realtà destinato a diventare una figura quasi leggendaria.

D’altronde il cinema è come un microscopio che fa vedere in grande dettagli invisibili a occhio nudo. Per cui non occorre fare tanto di più perché lo spettatore è intelligente e sa riconoscere le cose forti rispetto a quelle che sono dei passatempo. Attraverso la posizione della camera, il ritmo del montaggio e la tipologia del suono possiamo far diventare emozionante un primo piano. Mostrarlo subito è la cosa più facile da fare per un regista ma se tu lo sveli dopo un po’ questo diventerà molto più eccitante, quindi tutto il film, se vuoi, è un lungo percorso per raccontare le minuscole sfaccettature di questo personaggio contraddittorio, divertente, istrionico e malinconico.

La solitudine di Gigi

Nella prima sequenza è lo sguardo a raccontare la solitudine di Gigi. Sia lui che noi non vediamo il suo interlocutore coperto dal fogliame del giardino che separa le abitazione dei due uomini. Così succede nella scena finale dove è ancora una volta la posizione della mdp a raccontarci lo stato d’animo del protagonista. In quella infatti per la prima volta l’obiettivo è collocato sul sedile del passeggero della macchina di servizio. Gigi per una volta non è alla guida della stessa ed è suo il punto di vista sulla giovane collega. La dimensione qui è opposta perché le immagini trasmettono una sensazione di empatia e compartecipazione con il mondo che all’inizio il personaggio non aveva. La ritrovata convenzionalità delle inquadrature, ma anche la luce opposta alla penombra del contesto iniziale, corrispondono alla fine del percorso: quello esistenziale del protagonista e il nostro, finalmente partecipe di aspetti del personaggio sconosciuti all’inizio del viaggio. 

È vero. Tutto questo dipende dal modo di filmare. Nel film ci sono dei lunghi piani sequenza, credo settanta inquadrature che per un lungometraggio sono molto poche, in cui ci concentriamo su Gigi rimanendo a guardarlo. In realtà non ho fatto dei veri primi piani perché le inquadrature arrivano fino alla pancia. Questo modo di filmare crea un fuori campo talmente grande da diventare un fuori film, quindi lo spazio che Gigi condivide con lo spettatore è un luogo dell’immaginario, con il suono che può renderlo vero e allo stesso tempo fantasmagorico e misterioso.

Il cammino di Gigi, nel film, è la conquista di un punto di vista diverso. Spesso per cambiare un mondo basta un micro-spostamento. Quello che è successo qui è che, in effetti, Gigi si è finalmente seduto sul sedile del passeggero e non guida più, si lascia portare.

Per lui, persona piuttosto solitaria che si inventa mondi e universi, lasciare il volante, anche da un punto di vista simbolico, è un grandissimo cambiamento, una strepitosa evoluzione, letteralmente una rivoluzione. Ancora una volta, è tutto suggerito, tutto passa senza parole, lo si sente soltanto grazie al dispositivo basico che ho messo in piedi fin dall’inizio del film.

Il Gigi la legge di Alessandro Comodin tra realtà e astrazione

La scena iniziale, ma anche le soggettive sulla strada vista dall’interno della macchina, e ancora il modo in cui ti soffermi sul protagonista alla guida dell’autovettura, circoscrivendolo all’interno del suo piccolo mondo. Gigi la legge è un lavoro ipnotico e sensoriale alla maniera dei film di David Lynch. La storia rimane sempre in bilico tra realtà e astrazione in un processo di riformulazione del sensibile a cui arrivi restando il più possibile sul protagonista riesce a trasportare la storia su un tempo esistenziale. Il tuo modo di filmare si rifà a un’ingenuità tipica del cinema delle origini in cui alla semplicità delle immagini corrispondeva un alto livello di trasfigurazione. In questo senso anche Apichatpong Weerasethakul è un regista che ti corrisponde. 

Sì, in effetti hai citato due cineasti molto vicini al mio punto di vista sul cinema, soprattutto per la maniera di arrivare ai sensi dello spettatore. Si tratta di due autori diversi ma simili nella maniera di suscitare sensazioni. L’impressione è che il mio film li comprenda entrambi nella fede verso le piccole realtà, perché la Los Angeles di David Lynch può diventare un microcosmo come Twin Peaks. Anche Apichatpong Weerasethakul si concentra su realtà che sembrano banali e prosaiche, un po’ come accade con l’orecchio di Velluto Blu: quando la camera di Lynch vi entra dentro fa la stessa cosa che faccio io nel mio film con il passaggio a livello. Ciò detto, sono molto più dalla parte di Apichatpong Weerasethakul perché il suo è un cinema senza artifici, laddove ci sono li presenta come tali: così accade per le scimmie con gli occhi rossi o l’apparizione dei fantasmi in Lo Zio Boonmee che si ricorda le vite precedenti.

I riferimenti

In Gigi la legge fai più o meno la stessa cosa.

Con molta meno musica (ride, ndr). Senza quella di Angelo Badalamenti i lungometraggi di Lynch sarebbero meno interessanti. Comunque sono d’accordo, ci sono tante vicinanze. Parlavo con una signora che mi chiedeva di quanta commedia all’italiana c’è in Gigi la legge. Affermazione di cui sono rimasto sorpreso perché la commedia non fa parte delle prime cose a cui penso. Ho cominciato a guardare al cinema con un certo ritardo. Venendo dalla campagna ho iniziato l’università cercando di far mie tutte quelle sovrastrutture intellettuali borghesi: Antonioni e anche Pasolini li ho scoperti tardi come pure Bresson e Godard, però se ci penso nel gesto insito nel mio modo di fare cinema cerco di ritrovare lo sguardo del bambino che si stupisce e immagina le cose semplicemente guardandole. È un processo che mi piace perché vi ritrovo il fanciullo cresciuto guardando Bud Spencer e Fantozzi piuttosto che Antonioni.

A proposito di Apichatpong Weerasethakul e del modo di rendere evidente l’artificio, capita così anche nel tuo film. Mi riferisco in particolare alle molte sequenze all’interno della macchina. Si tratta di scene classiche che diventano altro quando con improvvisi controcampi fai apparire di colpo passeggeri di cui un momento prima non avevamo sentore. L’entrata in gioco del fuoricampo presente, ma fin lì escluso è come se certificasse la consistenza metafisica di ciò che c’era prima, ovvero al fatto di trovarci per lo più di fronte al flusso di coscienza di Gigi e non a una documentazione realistica delle sue giornate. 

Parliamo dei grandi artifici che sono alla base del cinema e cioè del montaggio e di come riuscire semplicemente con un banale campo e controcampo a dare una percezione del tempo totalmente dislocata e perciò sorprendente. Come ti dicevo prima il cinema ha questo di bello: riesci a fare tanto con il poco. Non c’è bisogno di avere chissà quanti mezzi a disposizione per trasmettere emozione e meraviglia. In fondo si tratta di un gioco da bambini.

Il mio modo di lavorare è eminentemente documentario nel senso che considero ogni inquadratura unica facendo pochissimi ciak. Per le scene importanti ne faccio uno solo. Pur essendo pericolosissimo in termini produttivi, ciò mi obbliga a lavorare con quello che ho e quindi ad inventare forme a partire dalle immagini proprie. Il “flusso di coscienza” di Gigi viene da questi lunghi piani sequenza dal grande fuori campo, ma viene anche dal fatto che mi sono imposto di lavorare senza una continuità dialogata. Ogni “contro campo” non poteva dunque che prolungare il “campo”, mai darne solo un punto di vista diverso (per non annoiare). Ciò crea la sensazione di due inquadrature che si montano bene assieme ma dove si sente che sono state girate in momenti diversi. La compresenza e la contraddizione tra il “qui e ora” del montaggio invisibile e la netta sensazione della manipolazione che si mostra come tale è ricca di senso e testimonia della potenza del cinema.

Alessandro Comodin: il rapporto tra Gigi la legge e lo spettatore

Succede così anche in una delle sequenze conclusive in cui il film ci spiazza mostrandoci per la prima volta un’altra persona e non Gigi alla guida della macchina. Il primo piano sulla giovane collega del protagonista si collega a quella iniziale in cui l’uomo appariva da solo sullo schermo. In questo caso il senso di vicinanza trasmesso dal piano americano sulla ragazza chiude il cerchio con il percorso esistenziale del personaggio. All’inizio del film solo con se stesso – coperto dal fogliame il suo interlocutore è solo una voce -, alla fine pronto a condividere lo spazio e dunque l’esistenza con la persona che riempie lo schermo cinematografico. Per tipologia ma anche per il momento in cui la sequenza identifica una presenza che non lascia indifferenti Gigi come pure lo spettatore. 

Perché si tratta di una sorpresa. In questo tipo di cinema un cambiamento di inquadratura diventa pura emozione. In un mondo che va così veloce, recuperare il senso di un cambiamento dell’inquadratura credo sia molto piacevole anche per il pubblico. L’ho constatato durante le proiezioni  in cui gli spettatori erano divertiti e molto felici di quello che stavano vedendo. 

L’uso degli stilemi del genere

Un’altra caratteristica del tuo cinema è quella di utilizzare gli stilemi del genere decostruendone i meccanismi. Qui tutto è più evidente per le caratteristiche interne alla storia che racconta la strana indagine del protagonista, un vigile che vuole fare luce sul suicidio di una ragazza. Esemplare è l’inizio del film in cui come nei grandi blockbuster Gigi la legge ci porta in media res. A differenza di quelli il tuo film depotenzia i tempi dell’azione, annulla la schizofrenia dei frame dimostrandosi altrettanto efficace senza effetti speciali e in economia di spese.

A me piace lavorare con vincoli molto chiari e forti. Non voglio dire che se avessi più soldi non sarei felice però in qualche modo io il film lo devo fare in ogni caso. A me interessa averne in quantità normale perché per fare un film ma non c’è bisogno di una montagna di denaro. Poi dipende dal progetto, però il lato produttivo è molto importante per me, per la regia stessa e anche per il rapporto con le persone. Uno non ci pensa ma la realizzazione di un lungometraggio crea un sacco di vincoli: economici, morali, umani come pure estetici, legati al gusto, al ritmo e così via. Per me dunque diventa una questione di rigore, di vincoli da rispettare. Credo che il cinema debba essere fatto in questo modo; in ogni caso io a scuola l’ho imparato così. Il fatto di darsene è l’unica cosa a cui tengo: da qui la necessità di stabilire un principio di verità e credibilità.

In quanto spettatore mi piace avere sempre il dubbio che quello che sto guardando è vero. In ogni caso ci devo credere. Essendo scettico e esigentissimo di natura, a priori non credo a nulla. Le strade sono due, o è vero vero oppure è raccontato bene.

Quando vai al cinema devi credere a ciò che vedi, devi credere a quello che sta succedendo. Se guardo un film di genere e comincio a sentire una musica, del tipo ottenuta con questi tappeti sonori e tutti quegli ingredienti basici dei film di genere, mi dico “ok, nella vita non li sento quei suoni” e quindi non ci credo. Quando vedo un mostro tipo Godzilla invadere la strada, mi soffermo a guardare come è stato fatto, dove sono le pieghe del modello, quali sono i trucchi. Tuttavia, paradossalmente, sono i film realistici che mi danno più noia, e in quel caso che mi chiedo perché spendere tanti soldi se in realtà non ne hanno bisogno.

Personaggi e ambiente

L’integrazione tra personaggi e ambiente è un aspetto importante della tua poetica. Una caratteristica presente in ogni inquadratura a cominciare dalla prima sequenza in cui il protagonista, complice l’oscurità del contesto, sembra emergere dall’ambiente naturale come se vi fosse sempre appartenuto. 

Può sembrare una banalità ma ovviamente i paesaggi per me sono fondamentali alla pari delle persone, che scelgo con criteri molto molto precisi e misteriosissimi (ride, ndr) ma necessari per farli essere così bravi in quello che devono fare. Gli stessi implacabili parametri valgono per la scelta dei luoghi. Gigi la legge avrei potuto farlo in studio però sarebbe andato perso il legame con quel luogo.

Il passaggio a livello è il vero passaggio a livello dove tantissime persone si sono suicidate e dove un giorno, veramente, Gigi ha trovato i resti di una sua compaesana. Come avrei potuto andare altrove?

La scoperta del ragazzo entrato furtivamente nel giardino di Gigi, per esempio, si tratta di una cosa imprevista e successa per davvero in una serata di tempesta. Eravamo a casa di mia nonna, immersi in una specie di trance cinematografica data dalla lunghezza dei piani sequenza, quando di colpo è apparso lui. È apparso questo ragazzo strano del paese, di cui Gigi per davvero non si fida, nel giardino che Gigi cura così tanto e dove nessuno entra mai.

Il mio modo di fare cinema consiste nell’organizzare un mondo parallelo, simile a quello vero e altrettanto vero. Avendolo creato noi possiamo lasciare il personaggio da solo e filmarlo come se fosse reale: un ciak alla volta perché ogni inquadratura è unica e irripetibile. In un contesto simile tutto diventa molto urgente e fondamentale per cui quando a un certo punto Gigi si tocca i capelli come per metterseli a posto diventa strepitoso!

La presenza della macchina da presa

Ad un certo punto il film ragiona sull’evidenza dell’artificio ma anche sul manifestare la presenza della macchina da presa. Considerando che le immagini di Gigi la legge possono essere riferite a diversi livelli di realtà e dunque anche a quella interiore, volevo chiederti in particolare di una delle più importanti, quella in cui il protagonista e il suo collega arrivano sulla scena del delitto fermandosi di fronte al passaggio a livello. A un certo punto li osserviamo uscire dalla macchina attraverso il campo lungo che tu realizzi rimanendo all’interno dell’automobile. Vedendolo ho pensato a due possibilità: la prima è che quel campo lungo ti servisse per oggettivare l’azione rispetto al flusso di coscienza che lo aveva preceduto. Ho anche pensato che volessi sottolineare il fatto che quell’indagine non è la cosa più importante e che tu lo volessi affermare decidendo di riprenderla da lontano, lasciando che i due vigili procedessero quasi per conto loro.  

Sì, è vero! Finalmente qualcuno mi fa la domanda su questa immagine ripresa dal parabrezza, quella che noi chiamiamo immagine matrice. L’appellativo deriva dal fatto di distinguere tra documentario e finzione e su come decidere di filmare il ritrovamento dei resti da parte di Gigi. Nella sceneggiatura c’era scritto sono lì, faccio un campo controcampo, poi con un carrello laterale scopro da lontano il cadavere. A un certo punto ho cominciato a farmi delle domande su come mostrare i resti del cadavere e altre cose orribili. In quel momento mi sono detto che non era possibile farlo in maniera diretta ma che dovevo mediare alla maniera delle immagini prodotte negli Stati Uniti dalle telecamere a circuito chiuso proprie dei sistemi di video sorveglianza. Da qui il termine matrice, ovvero l’inizio oggettivo che spinge lo spettatore a chiedersi se il tutto sta succedendo per davvero. In più con il fuori campo era una soluzione naturale per non mostrare il cadavere. Si tratta di un’inquadratura destinata a tornare quattro volte nel film: è una sorta di calamita delle altre storie. Partiamo da qualcosa di “oggettivo” che ci permette di entrare nella realtà delle persone, dei luoghi e delle situazioni destinate a essere sviluppate durante tutto il film. Sono i quattro puntelli del film, il primo per dare la tonalità, il suono iniziale, che vibrerà fino alla fine, il secondo è dopo il titolo, assieme ad Ulisse, un ragazzo qualsiasi che non sta bene ma che finisce per sorridere vedendo Gigi sgommare col suo motorino modificato. Poi si torna alla vibrazione dell’inizio, quando si vede Tommaso in bicicletta, un modo per lanciare l’indagine, e passare dalla realtà “oggettiva” alla realtà “soggettiva”. Infine il centro di salute mentale, alla fine del film, dove sentiamo fuori campo una voce nuova, quella di una ragazza sconosciuta, Rebecca, un nuovo personaggio che esce dall’inquadratura, come per magia.

Il personaggio di Gigi

Quest’ultima sequenza ci fa capire l’esistenza di due indagini, una delle quali è quella intorno al protagonista di cui arriviamo a scoprire una personalità diversa da quella immaginata. È sempre quella scena a dirci il perché della presenza della canzone di Julio Iglesias (Sono un pirata, sono un signore, ndr), le cui parole sembrano anticipare e riassumere la vera personalità di Gigi. 

Quello di Gigi è un personaggio complesso con cui ho voluto un po’ rendere omaggio a questi personaggi di paese mezzi zoppi, con la benda nell’occhio e di cui si raccontano le leggende al bar. Gigi è uno di questi perché come vedi nel film tutti dicono ha fatto delle sgommate con il motorino, mi ha risparmiato la multa. Lui è già un personaggio pubblico, la personalità del paese, anche un po’ pittoresco, se vuoi. Ha questa facciata scontrosa che è un po’ come quella con la quale cominciamo. Dietro c’è però un vortice potentissimo che può essere molto contraddittorio: non per forza sempre simpatico e allegro, alcune volte triste, comunque vertiginoso e per certi versi oscuro. Non posso dire molto di lui però Gigi ha vissuto per davvero tutto quello che è successo nel film. Credo che qualche cosa si senta e penso di essere riuscito a rendere la vertigine di questo mistero.

L’autenticità del tuo ritratto gli rende giustizia in termini di fascino e di mistero. 

Non avrei mai potuto farlo con un’altra persona: ci sono riuscito perché lui è mio zio, il fratello minore di mia madre. Lui era lo zio simpatico, quello che ti porta in giro a sgommare (ride, ndr). Come hai visto nel film non c’erano regole salvo quella che non avrei potuto farlo senza di lui perché Gigi è stato di un’incoscienza totale (ride, ndr), coraggiosissimo e molto generoso perché mi ha regalato tutto il suo corpo, tutta la sua storia. In qualche modo si è messo in pericolo e io sono queste cose che voglio andare a vedere al cinema.

Il montaggio

A proposito di montaggio, tu lo usi per rendere il senso a un’indagine che a un certo punto diventa autoreferenziale, pubblica e allo stesso tempo privata. Così è la canzone di Iglesias, presente senza soluzione di continuità sia nella sequenza in cui Gigi sta lavorando sia nell’altra, quando di colpo lo ritroviamo nel suo giardino a meditare. Tutto questo a testimonianza di un’investigazione in cui non c’è alcuna differenza tra pubblico e privato.

Non so realmente cosa rispondere (ride, ndr) perché è tanto intelligente quello che hai detto. 

L’indagine diventa quasi subito privata, una specie di ossessione personale. L’ubiquità della canzone mette in evidenza un tipo di montaggio volto a creare osmosi tra pubblico e privato. 

Questo è un modo di fare cinema in cui la sceneggiatura è stata presa e messa nel cestino prima di iniziare le riprese per cui tutto quello che esce dalla voce di Gigi è frutto della sua volontà. In questo modo ti ritrovi al montaggio con  enormi possibilità di scrittura e con l’opportunità di far diventare il cinema un vero artigianato, quello che tocchi con le mani permettendoti di spostare le immagini.  Non si tratta di andare alla ricerca di storie originali che dai tempi de L’Odissea sono sempre le stesse. Tutto diventa una questione di forma, di materia, di scultura di tempo, di spazio e di luce. Poi ci sono cose che mi scappano, quindi in quel momento lì, in particolare, non c’è nessuna intenzione narrativa se non quella di creare una sensazione. Avevamo bisogno di quella musica e il mio montatore, Joao Nicolau che è portoghese e regista pure lui, ci teneva a metterla. Io non volevo perché non mi piaceva tanto, la trovavo troppo vintage e avevo paura di scadere nelle tipiche scorciatoie del cinema moderno; invece era necessaria e ha avuto ragione lui. La canzone di Iglesias fa respirare il film portandoci in modo elegante al giardino. Lo stacco nel nostro giardino era qualcosa di cui sentivamo il bisogno. Sono d’accordo con gli effetti che dici tu ma per noi è stato una conseguenza naturale di quel lavoro artigianale del cinema che piace a me.

La sequenza finale di Gigi la legge di Alessandro Comodin

La stesso accade nella sequenza finale con Amore disperato, la canzone di Nada chiamata a commentare l’entrata in scena di Paola, la collega di Gigi. Le parole della cantante e in particolare la strofa che fa Sembra un angelo caduto dal cielo riassume il sentimento di Gigi nel confronti della donna.

Sì sì, anche in questo caso si tratta di “esperimenti estetici” che mi piacciono. Come ti dicevo all’inizio se artificio c’è deve essere dichiarato. Qui chi è che mette quella musica? Sono stato io che seduto dietro a loro ho messo in un registratore quattro canzoni diverse per vedere cosa veniva fuori dai loro visi. È un momento che ho voluto tenere perché nell’attimo in cui arriva la musica lo spettatore si domanda se è diegetica o extra diegetica (ride, ndr), se l’ha messa Gigi o la sua collega, oppure qualcun altro. È come se gli spettatori fossero in macchina con Gigi e a un certo punto avessero voglia di sentire qualche canzone. Semplicemente è bastato schiacciare un tasto per far partire le sue note. Il film è anche questo, un piacere condiviso, senza per forza bisogno di giustificazioni razionali.

Per quanto riguardo le canzoni del film hanno un valore quasi di commento della storia, è per questo che le ho sottotitolate nelle versioni straniere. Le parole hanno un senso in relazione alla storia, danno degli indizi sul personaggio o sul momento che il personaggio sta vivendo. La musica qui, non è accompagnamento e basta, è materia grezza, esattamente come un’inquadratura, con in più tutte le sfumature “pop” e i meta-testi legati alla codificazione socio-culturale della canzone in sé. I diritti di una canzone del genere costano cari, ma è un vero valore aggiunto.

Peraltro il tuo film è molto rigoroso ma questo non  toglie la possibilità di respirane l’assoluta libertà. In questa profondità senza inganno che in qualche maniera coincide con il cinema delle origini la visione è liberatoria anche per lo spettatore. La vera catarsi è infatti sentirsi non oppresso dalle immagini, ma in armonia con essa in virtù di questa ritrovata umanità del cinema.

Almeno per me è così. Qualsiasi cosa faccio è una questione politica dunque per me la condivisione del cinema è qualcosa di meraviglioso e straordinario. Bisogna trattare cittadini come persone intelligenti. Io credo che lo siano. 

Se registi impongono agli spettatori una visione unilaterale e presuntuosa – che è la cosa per me più detestabile -, vuol dire che non trattano lo spettatore da cittadino, non credendo nelle sue capacità intellettuali. Alla fine mi sento di fare un po’ di esercizio pubblico (ride, ndr). Ricevo soldi pubblici per cui cerco di spendere il meno possibile al fine di condividere qualcosa di bello e fatto bene. Mi piace rendere grandi persone di solito invisibili e che magari parlano l’italiano mischiato al dialetto friulano. Nel film è tutto impuro ed è proprio questa sua impurità a rendere la storia universale.

L’equilibrio non è semplice tra un film ben fatto, prezioso, intelligente e originale nella fattura e allo stesso tempo accessibile, non repellente per il più grande pubblico. Modestamente, credo che, in questo caso, con tutte le proporzioni del caso, l’equilibrio c’è ed è in gran parte grazie a Gigi.

Umanità e leggerezza

Come spettatore è una purezza che mi restituisce un’umanità spesso negata dalle immagini contemporanee. 

Sì, abbastanza. Certe volte è meglio leggere un libro o ascoltare la musica perché li c’è molto più immaginario che nel cinema contemporaneo in generale.

Nel film ci sono momenti di leggerezza in cui ti diverti a deostruire la commedia o certe serie tv con preti e uomini in divisa impegnati a indagare sullo sfondo della provincia italiana. Come in questi prodotti anche nel tuo film a portare avanti l’investigazione non è un poliziotto, ma qualcosa che gli assomiglia un po’ da lontano. Così facendo inserisci all’interno della narrazione luoghi e stereotipi tipici del genere. Uno dei più spassosi e più originali nella sua romantica poeticità sono i discorsi alla radio tra Gigi e la collega della centrale. Anche qui a dominare è un’assenza cosi come era successo nella prima sequenza in cui sentiamo solo la voce della persona che parla con il protagonista. 

Faccio il cinema per conoscere cose nuove. Nel processo di apprendimento a cui mira il mio artigianato c’è questo aspetto ludico, una dimensione di piacere e divertimento molto più cosciente e matura. Da “dogmatico” quale ero usare questi piccoli dettami che come si vede sono pure sono fatti un po’ male e che non sono totalmente professionali, altro non è che il divertimento del cinema delle origini, quello in cui si metteva insieme tutto.

In Gigi la legge anche se dobbiamo dire qualcosa di triste lo facciamo su una base di divertimento. 

Inizialmente Gigi sembra non voler tagliare gli alberi per ripicca, essendosi indisposto per le lamentele del vicino. Salvo scoprire sul finire del film che il vero motivo è quello di non voler fare male alle piante. In questo senso Gigi la legge è anche un po’ una favola. 

Sì, Gigi è un personaggio estremamente romantico, un atteggiamento questo che, nella vita vera, gli ha causato molti problemi nel suo lavoro perché un poliziotto romantico non ha vita facile. Lui lo era per davvero poi ha dovuto smettere perché non era possibile che un poliziotto fosse buono o sorridente o anche un po’ giocoso. Il suo è un romanticismo spericolato, da ragazzino di campagna a cui piacciono i trattori. Gigi vive nelle favole ed è per questo che è un gran privilegio conoscerlo, perché, non sapendo mai se lo fa per scherzare o per davvero, come nel film, la sua poesia e il suo vivere in un mondo incantato non è mai edulcorato o sdolcinato, ha sempre qualcosa di caustico, umoristico e sovversivo.

Per di più, Gigi ha un suo senso alto della giustizia: c’è la giustizia degli alberi e come dice lui quella di coloro che parlano in italiano. Anche in questo caso, non si tratta di un “giustiziere americano”, a volte ci crede a volte no, a volte s’infiamma, a volte ride e lascia stare. Nel rapporto tra se stesso e l’altro non è facile stabilire i limiti tra dentro e fuori. Nel giardino che deborda in quello del vicino – che poi è suo cugino – c’è un po’ una metafora di Gigi che si espande e provoca. Gigi è un cavaliere degno dell’Orlando furioso

Alessandro Comodin oltre Gigi la legge

Mi piacerebbe sapere qualche film di questa stagione o della passata che ti è rimasto impresso.

Lavorando al mio film ho avuto poca voglia di vedere film recenti. Tra quelli visti negli ultimi due anni, a memoria ti dico:  The night of the Hunter di Charles Laughton (replay Arte- televisione), Pompoko di  Isao Takahata (DVD)C’era una volta il west di Sergio Leone (cineteca francese), L’acrobate di Jean-Daniel Pollet (DVD)Pauline à la plage di Eric Rohmer (MUBI – streaming),L’estate di Kikujiro di Kitano Takeshi (streaming con i bambini).   

La produzione

In che modo OKTA FILM ha contribuito alla produzione del film?

Questo film è una co-produzione tra l’Italia con Okta Film, la Francia, dove vivo, e il Belgio, dove ho studiato e cominciato a fare film. Il film costa qualcosa come 600.000 euro che per un lungometraggio non sono molti. Tuttavia, mi ritengo sempre un gran privilegiato per poter vivere del mestiere che amo e di poterlo fare nel modo che ritengo più vicino a me e ai miei soggetti. Il percorso è lungo, però, più o meno cinque anni di lavoro, e allora capisci che si tratta di un’economia totalmente volta ad auto-sostenersi, a sopravvivere, piuttosto che di una tendente a fare, anche pochi, profitti. Per quanto mi riguarda, in quanto regista e autore, posso fare questo mestiere solo perché vivo in Francia dove beneficio dello statuto dell’”intermittente dello spettacolo”, cioè uno statuto speciale della disoccupazione. È un sussidio, sono un disoccupato, artista ma disoccupato. In Italia, i miei colleghi non hanno questo privilegio, in ogni caso non così, ed è un dato interessante da considerare per un’analisi del cinema italiano contemporaneo. Quanto guadagnano gli autori in Italia? Come fanno a vivere? (ride, ndr))

Per Okta film, che si ostina a lavorare in Italia, la strada, oserei dire che è ancor più fragile della mia. In ogni caso tanto fragile quanto la condizione degli artisti italiani, quelli che percorrono cammini alternativi, fuori dalle scorciatoie economiche.

È ovvio che per una convinzione personale e artistica ancor prima che politica, i miei film e quelli della Okta in generale non hanno bisogno di molti soldi per essere realizzati, ma credimi anche quei pochi sono spesso irraggiungibili, nonostante la quantità di riconoscimenti che tutti i film Okta hanno sempre ottenuto. Ciò rende fragile l’esistenza della produzione stessa, la loro capacità di proiettarsi in progetti nuovi e di farlo in modo preciso, giusto, altrettanto esigente quanto i loro progetti lo sono artisticamente.

L’esigenza dei miei film ha trovato in Okta l’intransigenza produttiva necessaria per poter continuare a farli. È ovvio che ciò è possibile solo grazie al lavoro e alla passione di Paolo Benzi e di Francesca Bennett che l’hanno costituita. Assieme funzioniamo bene, Francesca e Paolo trovano quello che possono e io faccio con quello che mi mettono a disposizione. Non li ringrazierò mai abbastanza perché sono convinto che in Italia di produzioni così ce ne siano ben poche.

Qui il calendario delle prossime presentazioni che il regista Alessandro Comodin e il protagonista del suo film Pier Luigi “Gigi” Mecchia faranno in giro per l’Italia!

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Gigi la legge premiato a Locarno 75

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