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‘Elezioni politiche 2022’, i film da guardare
Si ritorna al voto, per eleggere il prossimo governo. Nell'attesa, una ironica disamina sul legame cinema e politica e una lista di film da vedere.
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Roberto Baldassarre25 settembre… elezioni politiche 2022. Gli elettori sono chiamati a votare per eleggere il nuovo governo della XIX legislatura.
Uno scenario molto cupo, sia per il pericoloso populismo che rappresentano i tre leader proposti, come si evince dai comizi e dalla politica già espressa in passato, e sia per l’ennesimo schiaffo alla storia resistenziale italiana.
Pensando che alcuni punti del loro programma sono la riforma della costituzione, della giustizia e il l’avvio del presidenzialismo, torna alla memoria una frase dell’Epigrafe vergata da Piero Calamandrei (1889-1956), dopo il tentativo di far approvare, dalla DC, la cosiddetta Legge truffa:
“[…] Sono tornati da remote caligini i fantasmi della vergogna, troppo presto li avevamo dimenticati […]”
La politica della repubblica italiana, in 75 anni di storia, ha subito differenti attentati, fatto scivoloni e commesso errori, e quello che dispiace è la corta memoria del popolo. Perfetto e coinciso quanto scrisse lo scrittore e attivista cileno Luis Sepúlveda (1949-2020): “Un popolo senza memoria è un popolo senza futuro”. E anche Nanni Moretti mise in evidenza la brevità della memoria degli italiani:
“La memoria purtroppo non è una peculiarità del nostro Paese. Non a caso il protagonista di Palombella rossa aveva un’amnesia, dimenticandosi del proprio passato”
Comizi elettorali… ameni inganni
Giacomo Leopardi in Le ricordanze mestamente sospirava: “O speranze, speranze; ameni inganni”. Molti elettori ripongono le proprie speranze, sotto forma di croce sulla scheda elettorale, al candidato di turno, che promette benessere e una svolta politica. Cambiamento è una di quelle parole che ricorrono spesso nei discorsi dei vari candidati. Così il giornalista e storico Corrado Stajano (1930) si espresse a proposito, in un’intervista rilasciata a Antonio Gnoli per La Repubblica il 26 maggio 2018, a ridosso della vittoria del M5S:
«Ci sono parole che pesano più di altre, che vogliono essere taumaturgiche, ma in realtà sono soltanto vuote. “Cambiamento” è una di esse. Oggi piace al pubblico, che è diventato popolo sovrano grazie a un clic. »
Ad ogni tornata elettorale si pronunciano le solite promesse, mai mantenute (tranne rari casi, ma in formato imperfetto tipo il RDC); oppure la messa in lizza di candidati impresentabili, o perché inquisiti o perché noti voltagabbana o finanche stravaganti figure che poco ci azzeccano con il concetto di politica di razza.
Senza dimenticare quei (ri)candidati che fanno politica – spesso male – da almeno quindici anni. Non più politici, ma impolverati burocrati, scelti dai grandi partiti solamente per la massa di voti che possono portare (il clientelismo).
Tutto ciò stride con il termine cambiamento, in particolare se pronunciato da una leader di un partito che si promuove come nuovo ma ha nelle sue file molti anziani della politica (a volte anche inquisiti), e lei stessa ha alle spalle oltre vent’anni di mestiere politico (ricoprendo anche il ruolo di ministro).
Ugualmente, queste supposte “nuove” elezioni hanno riproposto le usuali usanze: dibattiti televisivi tediosi in cui il candidato parla di tutto tranne che della realtà; fiumi d’inchiostro inutili versati dai giornalisti; scaramucce a distanza tra avversari (che poi si siedono tranquillamente al Meeting CL di Rimini e si salutano amabilmente); e gli onnipresenti manifesti che tappezzano le città, con i faccioni dei tanti candidati.
Ormai non conta quasi più il simbolo del partito, ma la faccia del candidato sorridente e la frase ad effetto per attirare l’elettore. La più nota, ovvero La pace nel mondo, ci viene almeno risparmiata. Anche perché striderebbe con l’invio delle armi all’Ucraina e l’incremento delle spese per gli armamenti.
A onor del vero, osservando questi faccioni, spesso ripuliti con Photoshop (un candidato su tutti lo usa dal lontano 1994, quando ancora non esisteva), torna alla mente la celebre battuta di Antonio Scannagatti (Totò) in Totò a colori (1952) di Steno:
“Onorevole lei? Con quella faccia? Ma mi faccia il piacere!”
Di Onorevoli Trombetta (Mario Castellani), ahinoi, purtroppo non ce ne sono più. Ok, erano democristiani, ma almeno di quelli rispettabili. Invece adesso abbondiamo di Onorevoli Tromboni, anche detti “cazzari”. E ripensando all’esternazione di Totò, per inciso adatta ad ogni tornata elettorale, torna alla mente un’altra esternazione, molto simile nel sentimento (e forse è anche migliore), che pronunciò Roberto Giachetti – altro trasformista, ora in Italia viva – al proprio ex compagno di governo Roberto Speranza durante l’Assemblea del PD del 18 dicembre 2016 (riguardo l’accettazione del Mattarellum):
“Speranza, hai la faccia come il culo!”
Totò, dopotutto, voleva dire quello, o comunque qualcosa di simile. Ma quanto disse Giachetti, è conferma di come le battute dei politici ormai superano in coloritura quelle dette dagli attori. Una volgarizzazione del linguaggio che evidenzia la violenza raggiunta dalla dialettica, sia a destra che a sinistra. Fra poco il linguaggio sarà dello stesso livello – parodico – di quello di Michele Apicella in Sogni d’oro (1981):
“A stronzo e famme na pippa anvedi sto’ burino ancora parli ma se ‘ntareggi in piedi sei arto un cazzo e du barattoli co’ no’ sputo t’affoghi ma vaffanculo va anvedi che sei a brutto stronzo!”
Un vero e proprio stato (da intendere come condizione e nazione) comatoso, come già messo in luce da Bill Emmott nel documentario Girlfriend in a Coma (2012) di Annalisa Piras. È proprio il giornalista britannico Emmott, che prendendo spunto dall’omonima canzone del gruppo inglese The Smiths, definì l’Italia come una “Girlfriend in a Coma”.
Quindi, dovendo accettare questa demoralizzante situazione, forse è più attinente prendere una citazione dal greve cartoon South Park. Nell’episodio Peretta gigante e panino alla merda (Douche and Turd, 8×08 – 2004), Puff Daddy dice al piccolo Stan, schifato della scelta dei candidati:
“Ma Stan, non te l’hanno detto? La scelta è sempre tra una peretta gigante e una panino alla merda. Fin dall’inizio del mondo la vita si è giocata tra una peretta gigante e una panino alla merda. Solo loro hanno la faccia tosta necessaria per fare politica”
Chiacchiere da bar: l’esempio cinematografico per eccellenza
Le elezioni, oltre a riportare a livelli fastidiosissimi il teatrino politico, riportano in vita anche le famigerate chiacchiere da bar. Calcio e politica sono sempre stati argomenti cardine dei bar, e con l’avvento di internet questa tipologia di disquisizione si è propagata nel cyberspazio. Umberto Eco (1932-2016) affermava: “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, mentre il giornalista Enrico Mentana coniò il termine “webete”, crasi tra web ed ebete.
Il problema è che anche molti esponenti della classe politica hanno cominciato a esprimersi sovente con affermazioni da bar. Cinguettano frequentemente il loro pensiero, apponendo un fico hashtag per creare il termine d’effetto. Spesso questi pensieri di 280 caratteri sono apprezzati, ma spesso blastati (per usare un termine young), e quindi viene rimosso è la colpa ricade sul programmatore. #staiserenoelettorenonsentirainiente
Nel cinema sono apparsi molti dialoghi che esemplificano al meglio queste chiacchiere. L’esempio più brillante, però, è in Ecce bombo (1978) di Nanni Moretti, in cui un cliente del bar parla con il barista affermando lapidariamente:
Cliente del bar: Gli offri un dito e si pigliano tutto il braccio, questa è la vera verità! Noi italiani stavamo bene a pascolare le pecore. Poi abbiamo voluto fare un paese industriale… “paese industriale”. Noi italiani siamo fatti così; “rossi”, “neri”, alla fine tutti uguali!, che siano politicamente rossi o neri.
Michele Apicella non si trattiene:
“Ma chi è che sta parlando!? Chi è!? Rossi e neri sono tutti uguali? Ma che siamo in un film di Alberto Sordi!?
Ma che siamo in un film di Alberto Sordi!? Ma che siamo in un film di Alberto Sordi!? Sì, bravo, bravo… Te lo meriti Alberto Sordi! Ciao! Te lo meriti Alberto Sordi!!”
Alberto Sordi, attraverso i suoi personaggi (ma in un certo qual modo anche la sua persona medesima), è quello che ha dato l’immagine del qualunquista e/o del trasformista italiano: menefreghista, opportunista, servo e voltagabbana.
Sebbene si possono ravvisare delle differenze, quanto scrisse anni dopo Beppe Grillo sul suo blog (“Il M5S non è di destra né di sinistra”, 11 gennaio 2013), per presentare la sua creatura alle prossime elezioni, in un certo qual modo non è dissimile da quanto disse il cliente del bar:
“Il tempo delle ideologie è finito. Il MoVimento 5 Stelle non è fascista, non è di destra, né di sinistra. Ê sopra e oltre ogni tentativo di ghettizzare, di contrapporre, di mistificare ogni sua parola catalogandola a proprio uso e consumo”
Fare una distinzione tra destra e sinistra non è discriminare, ma mettere in evidenza le differenze ideologiche tra le due parti; soprattutto quando la Costituzione è stata fondata su determinati principi che si rifanno alla libertà e all’uguaglianza, aspetti che non sono proprio nel Dna delle destre.
Le ideologie certamente hanno creato problemi, ma non sono sempre state dannose, se si adeguano all’evoluzione di una società. In ogni modo, la “flessibilità” ideologica del partito di Grillo ha permesso, senza grinze, di governare prima con la Lega, poi con il PD e infine con il governo tecnico Mario Draghi.
Attori nella scena politica: pane, amore e… politica
Lo stretto rapporto tra cinema e politica si può valutare anche attraverso quegli attori che si sono candidati in politica. Gli esempi eccellenti sono quelli di Ronald Reagan (1911-2004), mediocre attore di svariati western e divenuto, per ben due mandati, Presidente degli Stati Uniti (1981-1989) e l’erculeo Arnold Schwarzenegger (1947), eletto per due volte Governatore della California (2003-2011).
Ambedue repubblicani, hanno attuato una politica differente: Ronald proponendo uno scudo spaziale simile a quello visto in Guerre stellari (per difendere gli USA dall’URSS), Arnold facendo anche una politica legata al sociale.
Per la cronaca, Reagan veniva sbeffeggiato nel videoclip della canzone Land of Confusion (1987) dei Genesis. Diretto da Jim Yukich e John Lloyd, il videoclip sfruttava i pupazzi in gommapiuma del serial satirico britannico Spitting Image (1984-1996), e oltre alla parodia fisica del trio musicale, c’era Reagan, la moglie Nancy e uno scimpanzé. Quella scimmia è la citazione del film Bonzo la scimmia sapiente (Bedtime for Bonzo, 1947) di Frederick de Cordova, in cui Reagan interpretava un professore che allevava Bonzo come un bambino.
In ambito italiano, notizia recente è la discesa in campo di Gina Lollobrigida (1927) che si candida nelle file di Italia sovrana e popolare nei collegi di Latina e Frosinone. L’ex “bersagliera” è al momento soltanto l’ultima conferma di come i partiti peschino anche nel cinema, per raccogliere voti attraverso la notorietà cinefila. La storia insegna, però, che il loro carisma non ha sempre funzionato e spesso non sono stati eletti.
Il caso più eclatante è quello di Cicciolina, alias Ilona Staller (1952), che si candidò con il Partito Radicale nel 1987 e fu eletta alla Camera dei Deputati: ben 20.000 preferenze, giungendo dietro a Marco Pannella (Francesco Rutelli, a quel tempo ancora radicale, giunse terzo). Nel gergo politico si dice che chi non viene eletto o riconfermato è stato “trombato”, ma in questo caso, sebbene esperta del settore porno, Cicciolina non fu trombata. Durante quella legislatura, ha continuato a fare anche l’attrice, e va menzionato l’istant movie All’onorevole piacciono gli stalloni (1990) di Jim Reynolds, che nel titolo si rifà a All’onorevole piacciono le donne (1972) di Lucio Fulci e con Lando Buzzanca.
Nel 1991 si ricandidò assieme a Moana Pozzi (1961-1994) con il Partito dell’Amore, fondato da Riccardo Schicchi (1953-2012) e Mauro Biuzzi, ma l’exploit non si è ripetuto. In quella tornata elettorale del 1987, molto importante anche la vittoria del conduttore radio-televisivo Gerry Scotti (1956) per il PSI: ottenne 9.286 voti nel collegio di Milano. Mentre chi non ce la fece, fu Cochi Ponzoni (1941), che era nella lista del Partito Radicale.
In quel fatidico A.D. 1987, da mettere in rilievo anche la presenza di Paolo Villaggio (1932-2017), che si candidò per Democrazia Proletaria, realizzando anche uno spot televisivo pseudo-fantozziano. Villaggio non venne eletto. Alle elezioni successive del 1992, si presentarono l’impegnato Gian Maria Volontè (1933-1994) per il PDS, ma non fu eletto, e il cipollino Massimo Boldi (1945) per il PSI, ma anche lui non vinse.
Enrico Montesano (1945), ultimamente salito agli onori per le sue posizioni no-vax e per le sue simpatie di Destra (appoggiò Gianni Alemanno alle elezioni comunali del 2009), in passato era considerato nelle feste dell’Unità un compagno (caro). Alle elezioni comunali del 1993 fu eletto consigliere con il PDS, e alle seguenti elezioni europee divenne eurodeputato.
Si dimise due anni dopo perché non d’accordo con la burocrazia europea. Altro attore di spicco che si candidò, ma la cui bravura non fu sufficiente per vincere, fu Bud Spencer (1929-2016) che si presentò alle elezioni regionali del Lazio per Forza Italia, appoggiando Francesco Storace.
Ma c’è anche chi ha fatto un percorso inverso: dalla politica al cinema… o in Tv. Irene Pivetti (1963), precedentemente Onorevole della Lega Nord e Presidente della Camera (1994-1996), ha avuto una proficua carriera come presentatrice, per poi ritentare la carta della politica.
Nunzia Di Girolamo (1975) ex deputata e Ministro in quota PdL, dal 2021 è divenuta una presentatrice televisiva. Completamente differente, e più apprezzato da molti cultori, il percorso di Filomena Mastromarino (1983), che fu eletta nel 2013 all’Assemblea nazionale del PD in Puglia.
Passata all’hard, con il soprannome Malena “La pugliese”, e girando molte scene con Rocco Siffredi, è poi divenuta nota a livello nazionale quando partecipò al programma L’isola dei famosi 2017. Un cambio di posizione che le ha dato maggior soddisfazioni, e ha esaudito molti desideri degli elettori.
Molto differente la carriera di Alessandra Mussolini (1962), nipote di Sophia Loren. Iniziò la carriera professionale come attrice, apparendo bambina nel “sindacalista” Bianco, rosso e… (1972) di Alberto Lattuada e con la Loren e Adriano Celentano; e fece una comparsata anche nell’anti-fascista Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola e con Marcello Mastroianni e nuovamente la zia.
A seguire una carriera non esaltante (tentò anche come cantante), interpretando sempre piccoli ruoli e l’unica pellicola in cui fu protagonista è il dimenticato Non scommettere con il cielo (1987) di Mariano Laurenti, in cui interpreta una giovane suora.
A un’incerta professione attoriale, ha preferito quella più sicura della politica, inserendosi nell’agone politico nel 1992. Trent’anni in cui ha cambiato molte casacche politiche, però rimanendo almeno coerente alla parte politica di appartenenza. Ha militato prima nel MSI (1992-1995), poi con AN (1995-2003), a seguire AS (2003-2009), dopo PdL (2009-2013), infine FI (2013-2018/2019-2020), con in mezzo la parentesi da Indipendente (2018-2019).
Infine, uno dei protagonisti incontrastati degli ultimi anni politici italiani. Carlo Calenda (1973), leader di Azione, è figlio d’arte cinematografico: suo nonno era il regista Luigi Comencini (1956-2007), sua madre è la regista Cristina Comencini (1956), sua sorella la sceneggiatrice Giulia Comencini, le sue zie sono le registe Paola (1951) e Francesca Comencini (1961).
Carlo Calenda non ha mai intrapreso la carriera d’attore, ma quando era ancora bambino il nonno lo coinvolse nel televisivo Cuore (1984), trasposizione dell’omonimo libro di Edmondo De Amicis. Il futuro leader di Azione interpreta il ruolo dell’alunno Enrico, e spesso il fotogramma di lui in grembiulino con la faccia già saccente, viene ripescato, perché in quella giovanissima espressione c’è già la arroganza del politico.
Anche il regista si piazza sul set politico
Piazza Navona, esterno notte. Era il 2 febbraio del 2002, e si stava svolgendo una manifestazione de L’Ulivo. Presenti i leader Francesco Rutelli, Piero Fassino e Massimo D’Alema. Nanni Moretti sale sul palco e prende la parola, infervorato: “Con questi dirigenti non vinceremo mai!”.
Gelo degli esponenti di partito, esultanza da parte degli elettori. Una scena vera che sembra però estrapolata da un film di Moretti. A cui fa seguito anche la dichiarazione: “Destra e sinistra non sono uguali”, per ricollegarsi a quanto affermava Beppe Grillo.
Nanni Moretti non si è mai candidato, ma per lunghi anni ha sempre fatto politica, esprimendo i suoi dissensi attraverso i film oppure durante le conferenze stampa. Quanto disse a quel comizio fu un caso, dettato dalla rabbia di elettore deluso.
Unico concreto avvicinamento a un’iniziativa politica fu quando aderì ad alcuni “Girotondi”, movimento spontaneo di cittadini formatisi nel 2002. I “Girotondi” sono movimenti di matrice di sinistra, ma vi hanno partecipato anche cittadini di differente ideologia politica, perché contrari alla politica di Silvio Berlusconi.
Il comico Beppe Grillo, attore anche cinematografico (da recuperare Cercasi Gesù di Luigi Comencini, del 1983), assieme a Gianroberto Casaleggio ha fondato il M5S nel 2009, con le intenzioni di portare un cambiamento (proprio quello paventato da Stajano) nella politica italiana. Sin dalla sua nascita il movimento è stato definito qualunquista, anche per le esternazioni di Grillo stesso, e questo riporta alla memoria la nascita di un altro partito, sebbene si siano delle differenze.
Guglielmo Giannini (1891-1960), giornalista, scrittore e regista cinematografico, fondò nel 1946 il Fronte dell’Uomo Qualunque (UQ), portando avanti le idee che già campeggiavano sul giornale L’uomo qualunque, fondato da lui e Francesco Macrì nel 1944. UQ era un partito che propagandava idee di anti-politica, conservatrici, populiste e anticomuniste. E da qui che nacque il termine qualunquismo. Per definire il suo giornale, Giannini scrisse:
“Questo è il giornale dell’uomo qualunque, stufo di tutti, il cui solo, ardente desiderio, è che nessuno gli rompa le scatole.”
Definizione adatta anche agli intenti politici dell’omonimo partito, che infatti ottenne nella prima tornata elettorale lusinghieri risultati, per poi scomparire già nella seconda legislatura. Mentre l’anti-politico Giannini si accasò con la DC prima e poi con il Partito Monarchico. Da recuperare Grattacieli (1943), un bizzarro film che si rifà al cinema americano.
Differente, invece, la partecipazione di Marco Bellocchio (1939) alle elezioni politiche del 2006. Il regista piacentino, uno tra i più attenti alla politica e alla società italiana, si candidò per la Rosa nel pugno, una formazione politica di centro-sinistra composta da Partito Radicale, Socialisti Democratici Italiani, Associazione Luca Coscioni e Federazione dei giovani Socialisti. Purtroppo Bellocchio non fu eletto.
Spot elettorali
Una delle modalità per propagandare il partito, il candidato e le idee, è quella di realizzare uno spot promozionale. Il più noto, che ha rivoluzionato il linguaggio politico-televisivo-propagandistico, è stato quello di Silvio Berlusconi, con il discorso a rete unificate del 26 gennaio 1994.
Uno spot realizzato con una luce molto soft, per ringiovanire Berlusconi, e una scenografia che all’unisono mostrava la sua autorevolezza, la sua serietà, il suo amorevole piglio argomentativo, e l’amore per la famiglia (le foto di mogli e figli in bella vista).
Un linguaggio semplice, ma efficace, che si differenziava dai coevi spot sempre più tendenti a uno stile pacchiano che cercava di avvincere e affascinare gli spettatori/elettori. Spot pseudo videoclip in cui i candidati spesso risultavano soprattutto ridicoli. Oppure spot di pochi secondi che costavano cifre esorbitanti, come ad esempio quelli del PSI. Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti mostra molto bene questo vezzo.
Tra i reperti propagandistici, molto simpatico quello del PSDI con protagonista l’attore Gigi Reder (1928-1998), per le elezioni politiche del 1987. L’attore partenopeo è dentro la cabina elettorale, e leggendo la scheda sbeffeggia tutti gli altri partiti, consigliando che l’unico voto utile è per il PSDI.
Invece, uno spot molto interessante è quello Io voto, tu voti (1981) di Giorgio Ferrara. Un vero e proprio cortometraggio interpretato da Franco Citti e Ninetto Davoli in favore del PCI per Luigi Petroselli alle elezioni comunali di Roma. Uno spot in cui i due attori commentano le cose buone fatte dal sindaco a Roma, e un pellegrinaggio per l’urbe che ricorda molto il coevo Il minestrone (1981) di Sergio Citti, in cui i due attori sono protagonisti.
Una maneggevole lista di film per prepararsi alle elezioni del 2022… ma anche a quelle future
L’elenco filmico che segue non è assolutamente esaustivo, ma serve semplicemente a fare una carrellata su alcuni aspetti che infiorettano (o imporchettano) le elezioni politiche italiane: propaganda, comizi, scaramucce tra avversari, tipologie di elettori, seggi elettorali, trasformismi eccetera eccetera.
Nella stringente scelta sono stati presi in considerazione soprattutto commedie, perché spesso hanno saputo descrivere al meglio le summenzionate situazioni, soprattutto confrontandole con quanto sta accadendo in questi ultimi trent’anni. Questo non vuol dire, però, che il cinema civile e d’impegno, uno dei punti forti della nostra onorata cinematografia, sia meno utile per comprendere la politica, anzi, sono opere che vanno viste.
Esempio fra tutti, Todo modo (1976) di Elio Petri, tratto dall’omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, e interpretato da Gian Maria Volontè. Quasi seguendo quanto intimava Pier Paolo Pasolini nel suo editoriale su Il mondo (“Bisognerebbe processare i gerarchi Dc”, 28 agosto 1975), il film con toni cupamente grotteschi e asfittici evidenziava il malaffare e l’ingordigia – e l’ipocrisia – del partito.
Al contempo, non è stato inserito nemmeno Fascisti su Marte (2006) di Corrado Guzzanti e Igor Skofic. Si adagerebbe bene a quanto potrà accadere, ma la propaganda cazzara di Guzzanti e company rispecchia maggiormente quella della Lega. Per Giorgia Meloni si sarebbe potuto utilizzare L’onorevole Angelina (1947) di Luigi Zampa e con Anna Magnani, poiché la protagonista fa le sue battaglie popolane “baccagliando” e facendo “casamicciola” (gettare la palla in tribuna, per usare un esempio calcistico), come fa usualmente la Meloni, ma il film è di matrice anti-fascista e resistenziale, e non è giusto usarlo in maniera non consona.
Don Camillo (1952)
I legislatura italiana (8 maggio 1948 – 24 giugno 1953), governo De Gasperi VII (1951-1953).
La guerra è terminata nel maggio del 1945, la Repubblica è nata nel giugno del 1946, e le prime elezioni politiche si sono tenute nel maggio del 1948. Il Neorealismo cinematografico, che nell’arco di un decennio diede prestigio internazionale alla nazione, in quel 1952 stava esalando gli ultimi respiri.
Gli scontri politici erano tra i due partiti maggiori, ossia la DC e il PCI, e tra i due contendenti il più agguerrito di proselitismo era il partito democristiano, a suon di tuonanti manifesti: “Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no”, oppure utilizzando il volto di Giuseppe Garibaldi, che se rivoltato assumeva le fattezze di Stalin.
Non c’era ancora la televisione, ma la radio era un ottimo medium per divulgare coercitivi discorsi politici (le lunghe pappardelle di Mussolini). Padre Riccardo Lombardi, era stato definito il “Microfono di Dio”, e si suppone che fu anche grazie alle sue “omelie propagandistiche” che la DC acquisì molti voti.
La pellicola che rappresenta al meglio questi duelli elettorali è Don Camillo di Julien Duvivier e con Fernadel e Gino Cervi, che fu campione d’incassi della stagione (circa un miliardo e mezzo di lire). È una commedia di costume ben confezionata e ben recitata, ma il fulcro sta tutto nei personaggi sbozzati precedentemente da Giovannino Guareschi nei suoi racconti, a cui gli attori hanno saputo donare il perfetto carisma.
Don Camillo è in pratica un buddy movie: il prete Don Camillo (Fernandel) è legato ai vecchi valori di Sacra romana chiesa, ma che alla bisogna non lesina scazzottate; il Sindaco comunista Peppone (Gino Cervi), che propaganda sempre il comunismo, è però sotto sotto un rispettoso credente cattolico.
I due sono perennemente in conflitto ideologico, tanto che le loro baruffe saranno trasposte al cinema in altri 5 film, più il tentativo fallimentare di rilancio con Don Camillo e giovani d’oggi (1972) di Mario Camerini e con Gastone Moschin e Lionel Stander e il disastroso remake Don Camillo (1983) di e con Terence Hill. Nemici ferini, ma amiconi.
Le vicende di Don Camillo sono ambientate a Brescello, piccolo borgo della Bassa Emilia, nel 1946, quindi a ridosso della fine della seconda guerra mondiale e quando mancava poco alle prime elezioni politiche. Brescello è sineddoche di tutti i borghi italiani in cui si può creare il conflitto tra DC e PCI, e mostrare con ironia detti scontri.
Ma se si osserva bene, le stilettate sarcastiche maggiori sono rivolte a Peppone. Il suo personaggio, che rappresenta il comunismo staliniano, viene sistematicamente deriso, mostrandocelo attaccato ai soldi, grammaticalmente ignorante, nascostamente rispettoso dei valori cattolici, ecc..
Pertanto in questa satira di costume non c’è un equilibrio di giudizio, ma soltanto la messa in opera dell’ideologia reazionaria di Guareschi, che non a caso anni dopo, nel suo episodio de La rabbia (1963), film di montaggio co-realizzato con Pier Paolo Pasolini (che poi chiese di togliere la firma), fece sfoggio del suo anti-comunismo. Post scriptum: inizialmente Peppone stava per essere interpretato dallo stesso Guareschi.
Don Camillo, simpatico film, diviene anche un documento per comprendere come si sia instillata una visione sardonica del comunismo, che a tutt’oggi viene usata nei comizi. Comunismo è divenuto per molti un vocabolo negativo. Ne è riprova quanto ultimamente ha detto Carlo Calenda nei confronti del PD: “Hanno fatto il patto con i comunisti”; oppure le reiterate dichiarazioni, tra un “mi consenta” e un altro, di Silvio Berlusconi dal 1994 ad oggi, come ad esempio attesta una delle ultime dichiarazioni (maggio 2022):
“Nei regimi liberali la persona è sacra e i diritti della persona sono garantiti dallo Stato. Nel comunismo è lo Stato che ti concede questi diritti e quindi chi è al potere, ove ritenesse di trarne conseguenza, può limitarli e può anche calpestarli […]”
Il vigile (1960)
III legislatura (12 giugno 1958 – 15 maggio 1963), governo Fanfani III (1960-1962).
Il vigile di Luigi Zampa resta uno dei film più noti di Alberto Sordi, e il personaggio di Otello Celletti è tra i più definiti – e divertenti – della vasta galleria di italiani cesellati dall’Albertone nazionale. Il soggetto di Rodolfo Sonego (il cervello di Alberto Sordi, come lo ha definito Tatti Sanguineti nell’omonimo libro) traeva spunto dal vigile Ignazio Melone, che solertemente multò il questore Carmelo Marzano per un sorpasso azzardato. Il questore, risentito da quell’affronto (il famoso “Lei non sa chi sono io”), avviò un’indagine sul vigile, e si scoprì che Melone aveva una famiglia non proprio di degno livello morale.
Nel film il vigile Celletti ha l’ardire di multare il Sindaco (Vittorio De Sica), e avviare così una girandola di guai, tanto per la sua famiglia, quanto per il sindaco (stava recandosi dall’amante). Lo scandalo viene usato per fini politici dai Monarchici, che decidono di candidare nelle loro file Otello Celletti, ritenuto un alfiere della moralità nazionale.
Questa parte del racconto, ovvero la scelta di un partito di candidare una persona proveniente dalla società civile, fa tornare alla mente tutti quei candidati assurdi – che si affiancano ai pregiudicati – che a ogni tornata elettorale vengono presentati come eroi e pertanto fondamentali per un Rinascimento politico.
Chiaramente ci sono anche scelte sociali eccellenti, come ad esempio l’attivista Ilaria Cucchi e il sindacalista Aboubakar Soumahoro per Sinistra italiana, oppure l’ex magistrato Roberto Scarpinato per M5S, ma alla fine prevalgono maggiormente figure poco consone al mondo politico.
Nelle prossime elezione vedremo l’ex Generale dei Carabinieri Antonio Pappalardo (no green pass) che lancerà il partito Gilet arancioni, oppure l’ex Vicequestore di Roma Nunzia Alessandra Schirillò (no vax) messa in lista da Italexit di Gianlugi Paragone.
Gli onorevoli (1963)
IV Legislatura (16 maggio 1963 – 4 giugno 1968), governo Leone I (1963).
Gli onorevoli di Sergio Corbucci è una delle pellicola più citate nel periodo elettorale… e non solo. Non è un film di pura commedia all’italiana, poiché tutta la storia ruota principalmente intorno ai frizzi e lazzi di Totò, ma qualche pennellata descrittiva della realtà politica nostrana dell’epoca è ben assestata.
La storia verte su cinque candidati di partiti durante le imminenti elezioni. Antonio La Trippa (Totò) rappresentante del Partito Nazionale Restaurazione; Bianca Sereni (Franca Valeri) della DC; Giuseppe Mollica (Peppino De Filippo) del MSI; Rossani-Breschi (Gino Cervi) del PLI; Saverio Fallopponi (Aroldo Tieri) del PCI.
Cinque personaggi che mettono in scherno i maggiori partiti dell’epoca, ad esclusione del PNR, partito inventato ma che si rifà al Partito Nazionale Monarchico, esistito tra il 1946 e il 1959. Finto il nome del partito, ma Antonio De Curtis era realmente di credo monarchico.
Anche in questo caso, il comunista (uno scrittore intellettuale) viene deriso maggiormente rispetto agli altri candidati: contro gli Stati Uniti, ma non disdegna i dollari. A Totò spettano le battute più famose, dal noto:
«Vot’Antonio, Vot’Antonio, Vot’Antonio, Vot’Antonio!»
fino alla sparata:
«Italiani! Elettori! Inquilini! Coinquilini! Casigliani! Quando sarete chiamati alle urne, per compiere il vostro dovere, ricordatevi un nome solo: Antonio La Trippa. Italiano! Vota Antonio La Trippa! Italiano! Vota La Trippa!».
A cui una voce dal cortile ribatte: «… si, ar sugo»
Il cognome di La Trippa verrà parafrasato da Marco Travaglio nel suo editoriale “Le brigate Conte” del 17 luglio 2022, a ridosso dell’incombente fine del Governo Draghi (21 luglio). Travaglio lo ha utilizzato per apostrofare Davide Crippa, capogruppo alla Camera del M5S che, rispetto al partito d’appartenenza, era a favore dell’appoggio a Draghi.
Colpo di stato (1969)
V legislatura (5 giugno 1968- 26 maggio 1972), governo Rumor I (1969).
Il film di Luciano Salce fu distribuito nel marzo del 1969. Ha alle spalle il ’68 (che prosegue per culminare nell’autunno caldo del ‘69), e anticipa di qualche mese la Strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), tragedia che è considerata il punto d’inizio della Strategia della tensione. Ma già il Piano solo (1964) del Generale Giovanni Di Lorenzo testimonia che è in atto un tentativo di sovvertire la democrazia tramite un colpo di stato.
Colpo di stato militare che si cercherà anche con il Golpe Borghese (7-8 dicembre 1970), e che verrà poi parodiato in Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli e con Ugo Tognazzi. Per anni la pellicola di Salce è stata rimossa e quasi dimenticata, anche a causa del sono fiasco al botteghino (all’incirca 100 milioni di lire). È stata riportata alla luce nel 2004, nell’ambito della rassegna veneziana Storia segreta del cinema italiano – Italian Kings of the B’s.
Un insuccesso dettato anche dalla sana bizzarria (iconoclastia?) della pellicola, rispetto alla produzione cinematografica italiana del periodo. Un mockumentary fanta-politico, confezionato in un bianco e nero opprimente, in cui si ipotizza la vittoria elettorale dei comunisti e l’utilizzo di macchinari iper tecnologici per lo spoglio delle schede.
Sebbene Colpo di stato di Luciano Salce non sia una pellicola del tutto riuscita, bisogna dargli il merito di essere un’opera coraggiosa sia a livello strutturale e sia per aver saputo cogliere attentamente alcune sfumature del periodo, che poi quasi si avvereranno. Prime fra tutti il clima della Strategia della tensione, ma anche le ingerenze politico-militari degli americani, che hanno paura e cercano di bloccare la vittoria comunista.
Però, come mostra la stoccata finale, tutto si risolverà in maniera inaspettata, e tutti vivranno felici e contenti. Da mettere in rilievo anche la parodia sbeffeggiante di Glauber Rocha, il regista più attivista del periodo, qui rappresentato come un fotografo attento alle belle ragazze ma anche pronto a far scatenare la discussione.
Colpo di stato, oggi, fa pensare a tutte quelle affermazioni complottiste, rilanciate dai media, che puntano il dito sulle interferenze russe sui risultati elettorali, che spingerebbero per un governo italiano sovranista. Complottismo rinfocolato ultimamente dalle dichiarazioni Dmitrij Mednev: “In Ue ci sono governi ‘idioti’ da punire alle elezioni”
Sbatti il mostro in prima pagina (1972)
VI legislatura (25 maggio 1972 – 4 luglio 1976), governo Andreotti II (1972-1973).
Il 1972 è uno degli anni socio politici più caldi. La Strategia della tensione divenne sempre più palpabile. A febbraio si aprì il processo per la Strage di Piazza Fontana, e gli imputati erano gli anarchici Pietro Valpreda e Mario Merlino. Il 31 maggio ci fu l’attentato di Peteano, in cui rimasero uccisi tre carabinieri.
Sul versante cinematografico, il cinema nostrano si fece ancora apprezzare all’estero: Il giardino dei Finzi-Contini di Vittorio De Sica vinse l’Oscar come miglior film straniero; La classe operaia va in paradiso di Elio Petri e Il caso Mattei di Francesco Rosi vinsero ex-equo la Palma d’Oro.
Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio è un film minore nella filmografia dell’autore piacentino. Un film acquisito, poiché inizialmente doveva essere diretto dallo sceneggiatore Sergio Donati.
Eppure la pellicola, a cui Bellocchio ha messo i suoi umori, fotografa bene l’aria politica e sociale dell’Italia di quegli anni. Contestazioni giovanili, comizi elettorali incarogniti per le strade, e soprattutto il ruolo della stampa sull’opinione pubblica, specialmente nei periodi elettorali.
Giancarlo Bizanti (Gian Maria Volontè) è il redattore capo di un quotidiano borghese e reazionario che si chiama, per ironia della sorte, Il Giornale (nome che Indro Montanelli (1909-2001) userà per fondare il suo quotidiano nel 1974). La notizia della morte di una giovane studentessa viene strumentalizzata per incastrare un giovane militante della sinistra extraparlamentare.
Azioni giornalistiche che capitavano spesso, e il titolo del film recupera quanto accadde all’innocente Pietro Valpreda (1932-2002), che improvvisamente si è ritrovato nome, cognome (a caratteri cubitali) e foto in prima pagina sul Corriere della Sera, il giornale borghese di massima tiratura.
I medium, spesso organi di partito, sono utili strumenti per manganellare l’avversario, oppure nascondere o rendere poco importante una notizia. La propaganda si fa anche avviando la macchina del fango, creando falsi scoop che possono ledere il candidato avverso. Oppure pompare notizie che non hanno nessun riscontro, come ad esempio il già citato complottismo sull’influenze russe.
A lato di tutto ciò, Sbatti il mostro in prima pagina va citato anche perché alcune riprese iniziali su un comizio della Maggioranza silenziosa (gruppo politico anticomunista di cui facevano parte elementi democristiani, missini, monarchici e liberali) tenutosi a Milano, mostrano un ragazzo che con foga aizza la folla. Quel giovane è Ignazio La Russa, che oggi ritroviamo, con la stessa faccia luciferina, in giacca e cravatta in parlamento oppure nei salotti televisivi a dire le medesime cose (ma con toni più pacati).
Signore e signori, buonanotte (1976)
VII legislatura (5 luglio 1976 – 19 giugno 1979), governo Andreotti III (1976-1978).
Signore e signori, buonanotte è un film episodico che cerca di ricreare il palinsesto televisivo dell’immaginata terza rete. Effettivamente Rai 3 nascerà, dopo la riforma della RAI del 1975, nel dicembre del 1979. Pellicola prodotta indipendentemente dalla Cooperativa 15 maggio, la regia è di Age, Benvenuti, Comencini, De Bernardi, Loy, Maccari, Magni, Monicelli, Pirro, Scarpelli, Scola.
Film disuguale, con alcuni vertici di comicità pungente (Il santo soglio di Luigi Magni, finto sceneggiato ambientato nel ‘500 sull’elezione del nuovo Papa), fa comunque delle giuste analisi puntute sulla società italiana. Tangentopoli era ancora lontana, sebbene già era spuntato qualche scandalo gravoso per l’Italia, come quello della Lockheed, l’azienda americana ammise che pagò mazzette ad alcuni stati, tra cui il nostro, per vendere i propri aerei militari.
In uno degli sketch, il giornalista Paolo T. Fiume (Marcello Mastroianni), ricalcato su Paolo Frajese, va a Montecitorio per intervistare un ministro accusato di appropriazione indebita, che risponde alle domande del giornalista con nonchalance e presunzione, mostrando il vero volto del potere.
Un’incredibile anticipazione di quanto accadrà in futuro, quando gli “onorevoli deputati” non si vergognano più dei loro problemi con la giustizia, rimanendo fermi sul loro scranno, e accusando la giustizia di azione politica. Ecco il dialogo tra il giornalista e il ministro:
Paolo T. Fiume: Lei vorrebbe dire che le sue dimissioni sarebbero un implicito riconoscimento delle accuse?
Ministro: Ma no, no, io non mi dimetto per combattere la mia battaglia da una posizione di privilegio! Dal mio posto posso agevolmente controllare l’inchiesta, inquinare le prove, corrompere i testimoni, posso insomma fuorviare il corso della giustizia.
Paolo T. Fiume: Onorevole ma non è irregolare? Dico, contro la legge?
Ministro: Ah, no giovanotto. Io le leggi le rispetto e soprattutto la legge del più forte! E siccome in questo momento io sono il più forte, intendo approfittarne, è mio dovere precipuo.
Paolo T. Fiume: Ma dovere verso chi, scusi?
Ministro: Ma verso l’elettorato che mi ha dato il voto per ottenere da me posti, licenze, permessi, appalti, perché li spalleggi in evasioni fiscali, in amministrazioni di fondi neri, crolli di dighe mal costruite, scandali, ricatti, contrabbando di valuta!
Due pezzi di pane (1979)
VIII legislatura (20 giugno 1979 – 11 luglio 1983), governo Andreotti V (1979).
Due pezzi di pane di Sergio Citti non è un film politico, ma è il film più personale dell’autore borgataro, incentrato sulla nostalgia di una società ormai cambiata in peggio (menefreghismo e violenza), e sull’amicizia di due stornellatori, rimasta immutata anche dopo tanti anni. Sergio Citti si è sempre definito un anarchico (della morte), con qualche lontana tendenza comunista, e non ha mai creduto nella politica dei politici.
Nel film c’è però una scena che sbeffeggia in maniera “anarchica” le elezioni e i partiti. Pippo Mifà (Vittorio Gassman) e Peppe Dorè (Philippe Noiret) vanno al seggio per votare, e quando sono nelle rispettive cabine, cercano di trovare il simbolo comunista. Pippo fa notare al compare che ci sono “Falce e martello”, ma poi mettono la croce sul simbolo giusto.
Quando devono consegnare le schede, invece di metterle nell’urla le consegnano aperte, e qui comincia il caos, con l’esponente DC che vuole annullarle e quello comunista che vuole approvarle. Gli scrutinatori e la gente in attesa sapendo che hanno votato comunista si spaventano, e quindi il duo di amici decide di annullare tutte le schede, svuotando le urne e gettando le schede per aria. Nel farlo, commentano ogni simbolo politico scelto: la gallina, la bistecca, la pagnotta…
La gag di Citti è “sempliciotta”, eppure mette già in rilievo come i comunisti fossero già frammentati, sebbene utilizzassero lo stesso simbolo, e l’assurdità di certi simboli elettorali, scelti per colpire l’immaginario degli elettori. Negli ultimi decenni frequentemente nascono partiti che scelgono nomi altisonanti per raccattare voti. Solo per fare qualche esempio: Partito dei pensionati, Italexit, Partito della follia (elezioni comunali di Roma), La gente come noi, ecc.
Bianco, rosso e verdone (1981)
VIII legislatura (20 giugno 1979 – 11 luglio 1983), governo Forlani (1980-1981).
Per il suo secondo lungometraggio, Carlo Verdone ripropone il suo fregolismo attoriale, interpretando nuovamente tre personaggi buffi differenti tra loro. Questa volta lo sfondo è il contesto elettorale, che gli permette di costruire un simpatico road-movie. Bianco, rosso e verdone, in ogni modo, non va interpretato come un film aderente alla realtà politica del momento, poiché i personaggi durante il tragitto non discettano di politica, però dai loro caratteri si può intuire la loro fisionomia politica.
Tra le tante scene comiche rimaste nella memoria, trasformando il film un cult, rimane mitico lo sfogo finale dell’emigrato calabrese Pasquale Ametrano, partito dalla Germania per adempiere al suo dovere di cittadino italiano. Un lungo viaggio in cui è stato derubato, pezzo per pezzo, dell’auto (l’Alfetta sud, simbolo dell’emigrato meridionale).
Prima di infilare la scheda nell’urna, Ametrano comincia un incazzoso pistolotto in dialetto, magnificamente recitata da Verdone senza stacchi, che si conclude con un liberatorio:
«Che ve l’andate a pija tutti quanti nel culo!»
Un sentito e liberatorio sfogo che molti elettori vorrebbero poter gridare. Detta scena fa anche tornare alla mente la leggenda metropolitana dell’elettore che dentro la scheda ripiegata mise una fetta di mortadella e scrivendo: “magnateve anche questa!”. Aneddoto, reiterato negli anni, che varia sempre riguardo il tipo di fetta (era di salame o di prosciutto) e il dialetto.
Fantozzi subisce ancora (1983)
IX legislatura (12 luglio 1983 – 1º luglio 1987), governo Craxi I (1983-1986).
Quarto capitolo della saga del Ragionier Ugo Fantozzi (Paolo Villaggio), primo capitolo a non esser tratto da un romanzo dell’attore genovese, e primo diretto da solo da Neri Parenti. Fantozzi subisce ancora ha la solita costruzione narrativa, con il protagonista che si ritrova, di volta in volta, in grottesche e demenziali disavventure. Nel film compare per l’ultima volta il personaggio del geometra Calboni, qui interpretato da Riccardo Garrone, poiché Giuseppe Anatrelli era morto.
Meno riuscito delle prime tre pellicole, il film ha comunque alcuni momenti spassosi, e che riescono a mettere alla berlina alcuni aspetti della società italiana. Rappresentante della mediocrità italiana, Ugo Fantozzi è un vigliacco, un ipocrita, un ignorante, un qualunquista, uno forte con i deboli e debole con i forti. Tra i differenti episodi inseriti nel film, si ironizza sulla politica italiana: “E arrivarono le elezioni… naturalmente anticipate”
Per svolgere al meglio il suo diritto/dovere di cittadino votante, Fantozzi questa volta vuole informarsi al meglio per il voto, facendo incetta di giornali (50 mila lire di spesa) e guardando tutte le tribune politiche asserragliato nel suo salotto poiché, rivolgendosi alla moglie e alla figlia:
“[…] se io sbaglio il voto questa volta, va a finire che non mangiamo e non mangiate per una decina d’anni”.
Circondato da più televisori, a un certo punto Fantozzi comincia ad avere le allucinazioni, e crede che i candidati gli parlino (doppiati con voci contraffatte) attraverso lo schermo: Marco Pannella (PR), Giovanni Spadolini (PRI), Ciriaco De Mita (DC), Enrico Berlinguer (PCI), Pietro Longo (PSDI), Giorgio Almirante (MSI), Nilde Iotti (PCI), Giorgio Benvenuti (UIL), Bettino Craxi (PSI), Giulio Andreotti (DC).
Quando con la moglie Pina (Milena Vukotic) e la figlia Mariangela (Plinio Fernando) si recherà a votare, resterà chiuso nella cabina per molto tempo, suscitando la preoccupazione del Presidente del seggio. il Presidente bussa per sapere se è tutto ok, Fantozzi risponde che è occupato, e subito a seguire si sente lo scroscio dello sciacquone del water.
Il messaggio sarcastico, benché marchiano, è simile a quanto disse a parole Pasquale Ametrano, eppure di elezione in elezione, si ha sempre maggior necessità di tirare un fantomatico sciacquone, anche per ristabilire igiene.
Il portaborse (1991)
X legislatura (2 luglio 1987 – 22 aprile 1992), governo Andreotti VI (1989-1991).
Arrivando con un anno d’anticipo su Tangentopoli, Il portaborse di Daniele Lucchetti è una delle rare pellicole aderenti al periodo storico. Non pellicola di denuncia e d’impegno in senso stretto, almeno in senso stretto, ma commedia grottesca e severa sulla nuova classe politica di fine anni Ottanta inizio anni Novanta.
Cesare Botero (Nanni Moretti) è un ministro che ricalca e condensa la classe dirigente del Partito Socialista Italiano, che di facciata mostra un interesse al sociale e alla cultura, ma in realtà è soltanto interessata al potere e alla cultura del proprio egocentrismo. Botero è un ministro corrotto e corruttore pronto a candidarsi alle imminenti elezioni politiche, che si presenta pubblicamente come uomo del popolo, e dietro usa tutti i mezzi per acquisire i voti.
Luciano Sardulli (Silvio Orlando), professore idealista, viene contattato da Botero perché gli faccia da “Ghost Writer”. Onorato della chiamata, e contento che Botero si stia interessando alle iniziative che sta portando avanti (la Legge Bacchelli per l’anziano poeta Carlo Sperati), ben presto si accorge del marcio che regna nella politica, e nelle elezioni politiche.
La figura di Botero è sempre più presente nella scena politica questi ultimi vent’anni. Non è difficile ravvisare in quel ministro fittizio Matteo Renzi o Carlo Calenda.
Aprile (1998)
XIII legislatura (9 maggio 1996 – 29 maggio 2001), governo Prodi I (1996-1998).
Il titolo del film si riferisce al mese in cui Nanni Moretti, nel 1996, ebbe due belle notizie: la nascita del figlio Pietro, e la vittoria elettorale del Centro-Sinistra. E questi due argomenti sono alla base del film, che si muove in ambito privato e in ambito politico.
Smessi i panni dell’alter ego Michele Apicella, fatto morire in Palombella rossa (1989), dopo Caro diario (1994) Moretti si rimette in scena come se stesso, mantenendo però quell’ironia presente sin da Io sono un autarchico (1976), e criticando/ironizzando la società italiana in prima persona.
Marco Travaglio, in differenti suoi editoriali, cita sovente la scena in cui Moretti crea un maxi giornalone con i ritagli di disparati giornali e riviste, per evidenziare come la stampa sia ormai omologata. Molto citata – e amata – anche la scena in cui Nanni Moretti, dopo la vittoria del Centro-Sinistra e la nascita del figlio, esce in vespa per le strade di Roma ed esulta con somma gioia, come se fosse stata una vittoria di calcio.
Ma la scena che ancora oggi è tra le più citate, e tristemente applicabile ai dibattiti televisivi odierni tra esponenti di sinistra e di destra, è quella in cui Moretti, con a fianco la madre, esorta Massimo D’Alema a replicare a Silvio Berlusconi dicendo qualcosa di sinistra… ma anche non di sinistra, basta che controbatta e non resti in silenzio. Quando il verdetto delle elezioni è definitivo, con la vittoria di Berlusconi e la destra, Moretti dichiara:
“La sera del 28 marzo del 1994, quando vinse la destra, per la prima volta in vita mia mi feci una canna”
Gallo cedrone (1998)
XIII legislatura (9 maggio 1996 – 29 maggio 2001), governo D’Alema I (1998-1999).
Attento osservatore del popolo romano, Carlo Verdone è riuscito in particolare a cesellare, spingendo sul lato grottesco, la figura del coatto/bullo. Con Gallo cedrone, pellicola imperfetta strutturalmente ma perfetta nel fotografare il tipo, riproduce il coatto di fine millennio. Armando Feroci è l’esempio del romano coatto, ma anche dell’italiano medio.
Mediocre, parassita, bambinesco e attento soltanto alle donne, Feroci non ha un’idea politica. È un uomo che muta soltanto esternamente (il famoso “Questo è un paglia e fieno che se fa a Miami!”). Tra le sue tante trasformazioni stagionali, tenta anche la carta della politica, candidandosi come futuro sindaco di Roma con la lista civica Città ridente. Tra le proposte per il futuro della Capitale, quella di asfaltare il Tevere:
“Ma sto fiume ce serve o nun ce serve? Perché se ce serve lo voglio vivere e lo voglio navigare ma se nun ce serve, ed io dico che nun ce serve!”
Proposta assurda, ma non è ancora detto che qualche politico reale non la prenda in considerazione. Una proposta che, in ogni modo, si andrebbe a sommare a quelle altrettanto azzardate, come per esempio la costruzione del Ponte sullo Stretto, spacciata come necessaria soluzione di collegamento tra lo Stivale e la Sicilia (progetto sposato da destra e sinistra).
Lucignolo (1999)
XIII legislatura (9 maggio 1996 – 29 maggio 2001), governo D’Alema I (1998-1999)
Prima regia cinematografica di Massimo Ceccherini, giunto al successo tramite le commedie soavi e romantiche di Leonardo Pieraccioni. L’attore toscano vuole puntare tutto su una comicità politically incorrect, e recupera la figura diseducativa del Lucignolo di Pinocchio, già impersonato a teatro con il sodale Alessandro Paci, portandola alla contemporaneità italiana.
Lucignolo si potrebbe definire una smargiassata, a tratti anche divertente perché genuina e non “democristiana” come le opere di Pieraccioni, ma all’interno c’è un pezzo che parodia bene Silvio Berlusconi, ossia le sue promesse populiste. Lucignolo, parlando con il suo amico Pino (Alessandro Paci), dice che per trombare è necessario fondare un partito. Ed ecco che sullo schermo prende forma la fantasia di Lucignolo, che appare come lo spot elettorale di Berlusconi del 1994:
Il partito è denominato Forza passera, e Lucignolo promette inizialmente alle donne un milione di orgasmi, ma dietro i consigli di Pino (alle sue spalle che sventola una bandierina tricolore), scende piano piano di numero, fino a giungere a promettere almeno due colpi. Uno schizzo parodico che anticipa di anni la parodia che farà Antonio Albanese con Qualunquemente (2011) di Giulio Manfredonia.
L’aspetto divertente, però, è che nel governo tecnico Monti, tra i vari ministri a “risvegliare” la “Girfriend in a Coma”, venne chiamato anche il banchiere Corrado Passera. Esaltato da quell’esperienza, fu Ministro dello sviluppo economico, nel 2013 fondò il movimento politico Italia Unica. Non si hanno prove, ma non è da escludere che qualcuno hai comizi abbia gridato: “Forza Passera!”.
Il trasformista (2002)
XIV legislatura (30 maggio 2001 – 27 aprile 2006), governo Berlusconi II (2001-2005).
Luca Barbareschi ha avuto una carriera cinematografica e televisiva anche cospicua, però mai eccelsa, poiché è difficile ricordarlo in un ruolo memorabile. Addirittura viene sempre ricordato per la sua giovanile partecipazione a Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato, dove spara realmente a un maiale e lo si può vedere, per pochi secondi, completamente nudo.
Barbareschi ha avuto il suo maggior momento di gloria attoriale quando nel programma Mediaset Il grande Bluff (1996), sotto chili di make-up, impersonava personaggi strambi che andavano a creare scompiglio nelle altre trasmissioni Mediaset. Ed è ricordato, sempre in ambito televisivo, quando nel 2012 aggredì l’inviato de Le iene Filippo Roma.
Aveva esordito registicamente con Ardena (1997), racconto di formazione adolescenziale, e con il secondo film, Il trasformista ha voluto alzare il tiro. Una storia, scritta assieme a Gianfranco Manfredi, che voleva fustigare la politica italiana, fatta di politicanti assetati di potere e pronti a cambiare casacca e ideologie al momento. Una prassi che in questi ultimi decenni avviene sempre più correntemente nella classe politica nostrana (ultimo Luigi Di Maio, che da rivoluzionario è divenuto restauratore).
Il trasformista ha le sue pecche, eppure è uno dei pochi film, che lambisce i toni del cinema d’impegno degli anni Settanta, che ha saputo raccontare una parte della politica nostrana del tempo. La credibilità, però, non sempre tiene anche per le idee personali del regista. Barbareschi si era sempre dichiarato socialista, ma con idee di destra.
Nel 2008 si fece eleggere nelle file di AN (2008-2009), per poi passare al PdL (2009-2010), giungere a FLI (2010-2011), e infine definendosi Indipendente (2011-2013). Post Scriptum: nel film fa una comparsata Daniela Santanché, a quel tempo accasata in AN.
Dopo mezzanotte (2004)
XIV legislatura (30 maggio 2001 – 27 aprile 2006), governo Berlusconi II (2001-2005).
Davide Ferrario, nel panorama della cinematografia nostrana, è un regista eclettico, che è passato da genere a genere e da formato a formato. Dopo lo sconquasso critico subito con il coraggioso – ma difettoso – Guardami (1999), il regista lombardo si era rimesso in gioco realizzando, a proprie spese, un piccolo film giovanile girato in digitale. Dopo mezzanotte è una commedia romantica che si mischia con il noir e la cinefilia (oltre alla Successione di Fibonacci).
Nella sua variegata e corposa filmografia, si ha conferma di come abbia anche toccato sovente argomenti politici. È fondamentale il suo documentario Lontano da Roma (1991), che racconta l’acerba Lega Nord ancora come fenomeno locale ma già in via di espansione territoriale. E ugualmente importanti sono i documentari dedicati alla resistenza e ai partigiani: Materiale resistente (1995) co-diretto con Guido Chiesa; Comunisti (1997); e Partigiani (1997). Oltre al documento Le strade di Genova (2002), girato da lui medesimo per le strade di Genova durante i fatti del G8 del 2001.
Riguardo le elezioni politiche, si sarebbe potuto scegliere come esempio ficcante Tutti giù per terra, che mostra l’esilarante campagna elettorale di Lupo (Sergio Troiano) per farsi eleggere, che costringe Walter (Valerio Mastandrea) ad andare nei campi Rom per coinvolgere i zingari a integrarsi nella società. Promesse che poi svaniranno appena Lupo non riuscirà a farsi eleggere.
Ma molto più divertente, perché è una stilettata del “comunista” Ferrario, la scena di Dopo mezzanotte in cui Angelo (Fabio Troiano) sta esalando gli ultimi respiri di vita, da solo di notte in una strada di Torino. Ad un tratto passa un camion che reclamizza Silvio Berlusconi. Sul maxi manifesto c’è la solita faccia sorridente del Cavaliere accompagnate da una delle sue note promesse: “Un impegno concreto, città più sicure”.
Fin dalla sua discesa in campo, nel lontano 1994, Berlusconi è stato il re del battage pubblicitario, attraverso manifesti con il suo volto più grande del simbolo del partito e videomessaggi televisivi invasivi. Notizia alquanto recente è che alla Stazione Cadorna di Milano, il Berlusca ha completamente tappezzato la struttura di manifesti (con foto del 1994), e l’inno di Forza Italia viene fatto suonare a ripetizione. Una maniera, ormai obsoleta, rispetto alla tecnologia odierna, di convincere il popolo a farsi votare.
Il divo (2008)
XVI legislatura (29 aprile 2008 – 14 marzo 2013), governo Berlusconi IV (2008-2011).
Così diceva Beppe Grillo anni fa in uno spettacolo:
“Il giorno che morirà Andreotti finalmente gli toglieranno la scatola nera dalla gobba e finalmente sapremo come è andata a finire”
Giulio Andreotti (1919-2013), apostrofato “Divo Giulio” da Mino Pecorelli (1928-1979), giornalista ucciso, si ipotizza con certezza, su mandato di Andreotti; Tra i politici più influenti della storia italiana, presenziando a tutte legislature dalla I fino alla XVI, Andreotti fu un uomo rispettato da tutti e al contempo temuto da tutti. È stato considerato l’eminenza grigia della politica, e ugualmente da molti ritenuto il vero burattinaio della Loggia P2.
Molti segreti se li è portati con sé, altri sono stati palesati, come i rapporti con la mafia almeno fino al 1980 (reato prescritto, benché l’avvocatessa Bongiorno e altri diano fallace interpretazione al termine prescrizione). A livello cinematografico, Andreotti è ritenuto quello che ha ammazzato il Neorealismo, con la famosa dichiarazione “i panni sporchi si lavano in famiglia”.
Lo storico e critico Tatti Sanguineti, con il dittico documentaristico Giulio Andreotti: Il cinema visto da vicino/La politica del cinema (2014), ha voluto mettere invece in evidenza come il “Divo Giulio”, partendo da quanto gli disse lo sceneggiatore Rodolfo Sonego, abbia a suo modo salvato il cinema italiano:
“L’unico che può spiegarti tutto sul cinema di quegli anni è Andreotti, che ha ammazzato cinque film, ma in compenso ne ha fatti fare cinquemila…”
Premiato con il Premio della Giuria a Cannes, Il divo di Paolo Sorrentino è incentrato su Giulio Andreotti, prendendo come tranche de vie il periodo che va dal 1991 al 1993, ovvero l’ultimo suo governo da Premier e la ventilata ipotesi che sarebbe stato eletto Presidente della Repubblica. Ma Il divo è soprattutto una messa in immagini della Prima Repubblica, con i suoi (ab)usi e (s)costumi e i rituali della politica italiana.
Non un film di denuncia, ma un affresco grottesco dei personaggi, che ripesca in parte il piglio deformante di Elio Petri (esempio perfetto Todo modo) ma evitando l’aspetto cupo per evidenziare invece l’aspetto ridicolo. I marcati make-up dei personaggi (il trucco ebbe una candidatura all’Oscar), che poi Sorrentino rifarà anche con Loro 1 e 2 (2019), evidenziano la mostruosità dei personaggi.
Tra le tante sequenze, va menzionata quella in cui, il giorno dell’inaugurazione del VII governo Andreotti, la corrente andreottiana (Franco Evangelisti, Paolo Cirino Pomicino, Giuseppe Ciarrapico, Salvo Lima, Vittorio Sbardella e il cardinale Fiorenzo Angelini) incede in gruppo come una gang, non dissimile dal gruppo de Le iene (Reservoir Dogs, 1992) di Quentin Tarantino.
Le correnti politiche che stanno dentro a ogni partito, possono essere le vere spine nel fianco del medesimo, poiché possono impartire, attraverso gli agganci e/o i ricatti, la propria linea politica e acquisire posti chiave nel governo. Prassi che nella Prima Repubblica era visibile nella DC e nel PSI, mentre ora accade rovinosamente nel PD, sempre più dilaniato.
Il sindaco – Italian Politics for Dummies (2014)
XVIII legislatura (23 marzo 2018 – attualmente in corso), governo Conte I (2018-2019).
Documentario che ha avuto scarsa distribuzione: uscito in 230 sale soltanto per tre giorni (26,27 e 28 novembre). Promosso dal programma Le Iene e diretto da Davide Parenti, autore e regista del programma, il documentario segue la vera candidatura del giornalista e inviato de Le Iene Ismaele La Vardera per le elezioni comunali di Palermo del 2017, nella lista Centrodestra per Palermo (lista sostenuta da FDI e Lega Nord).
Una documentazione che usufruisce ance di riprese realizzate di nascosto, in cui si ha conferma come un candidato debba incontrare anche personaggi di dubbio lignaggio morale e politico per poter acquisire voti. C’è la conferma del voto di scambio, di un Do ut des che alla fine vuole che le cose rimangano così: il gattopardismo.
E il documentario attesta anche come la regione Sicilia sia quella più permeabile a questo tipo di “politica”, e non a caso a ogni tornata elettorale (nazionale o comunale che sia), il risultato ottenuto (usualmente di Destra) va al vaglio per scoprire se ci sono stati brogli. Sullo stesso tema, ci sono stati anche Sud (1993) di Gabriele Salvatores e Belluscone – Una storia siciliana (2014) di Franco Maresco.
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