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Walter Hill – Ricercato: ufficialmente nei nostri cuori

Un regista che comunica solidità e classicità. Il suo cinema ha vissuto di alti e bassi, ma resta nel suo complesso il lavoro di un autore tra i più massicci e solidi dell'ultimo cinquantennio, spaziando con ingegnosa disinvoltura tra i generi, ma rivelandosi affidabile e a suo agio in particolare nel comparto action, thriller e western.

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Dead for a dollar

Il grande regista Walter Hill ha compiuto i suoi primi 80 anni nel gennaio di quest’anno.

Forse per quello, o forse per approfittare dell’opportunità di un recente lavoro da presentare al pubblico (speriamo in sala), o probabilmente per il fatto che lo merita a prescindere, la 79° Mostra del Cinema di Venezia ha deciso di omaggiare il grande regista statunitense, accogliendo il suo western Dead for a dollar nella sezione del Fuori Concorso.

In attesa, piuttosto fremente, di far propria anche questa sua promettente fatica, con un titolo che, probabilmente, piacerebbe molto a Sergio Leone, e che conta un cast di tutto rispetto (tra gli altri due ceffi da western come Willem Dafoe e Christopher Waltz), appare piuttosto interessante e pertinente scorrere tutta la folta carriera lunga quasi un cinquantennio, di un autore che, tra alti e bassi commerciali, ha tuttavia sempre saputo essere un autore, più che un semplice regista al soldo delle majors.

Non solo: anche e soprattutto un regista in grado di contaminare i vari generi, riuscendo a fornire una versione tutta personale e sempre originale a quelli più disparati come il noir, l’action, il western e la fantascienza.

Dopo un decennio speso a scrivere sceneggiature a film anche memorabili (tra questi si possono ricordare Getaway di Sam Peckimpah (1972), Agente Speciale Mackintosh di John Houston (1973), e Detective Harper: acqua alla gola, di Stuart Rosenberg (1975), l’esordio da regista di Hill avviene nel lontano 1975 con un bel film drammatico ambientato nel mondo delle sfide clandestine di boxe: Hard Times, che da noi diventa L’eroe della strada.

Ambientato negli anni ’30 della crisi economica dilagante, in una New Orleans costretta a ricorrere ad ogni espediente per la sopravvivenza, l’intrallazzatore furbo e furfante Speedy (un ottimo James Coburn) incrocia sulla sua strada  Chaney (uno splendido Charles Bronson), un lottatore solitario e taciturno non più giovane ma fortissimo, che finisce per lavorare al suo soldo, bisognoso come si ritrova pure lui di un sostentamento urgente anche tramite mansioni di fortuna.

Sarà un successone, ma la fama che il lottatore si crea lo esporrà ad essere conteso dai manager più scafati e disonesti, ritrovandosi vincente ma sempre più solo.

Già da questo film dai toni struggenti ed epici, emerge la tendenza di Hill a circondarsi di personaggi al tempo stesso duri e fragili, che pare sappiano quello che vogliono, ma si ritrovano messi al bando da sfortuna, vizio e circostanze che non riescono a controllare. Già dagli inizi, Walter Hill firma un lavoro limpido e cristallino che coniuga durezza a romanticismo, forza a disillusione.

Nel 1977 è la volta di un noir meraviglioso: The Driver, che da noi si trasforma in Driver l’imprendibile.

Tre i personaggi senza nome, ovvero chiamati in base al ruolo che coprono lungo la vicenda:  Driver (Ryan O’Neal), abilissimo autista della malavita, Detective (Bruce Dern), suo giurato avversario che studia ogni mossa per incastrarlo, e Giocatrice (Isabelle Adjani), una bella donna di cui l’autista finisce per fidarsi.

Quando lei scappa col malloppo, ecco che Driver viene arrestato, ma la polizia non riesce ad acquisire elementi che possano incastrarlo.

I personaggi che Hill mette in campo ostentano atteggiamenti che li classificano come privi di cuore e di sentimenti.

Ma, pur nella essenzialità di uno script scientemente scarno e privo di sfaccettature, si dipana tutta una vicenda ove i sentimenti hanno la loro parte integrante, e in cui lo scavo psicologico, apparentemente inesistente, finisce per costruire pietre miliari di personaggi che diventano baluardi di un cinema action girato magnificamente, senza tuttavia dimenticare l’essenzialità che distingue e regola i rapporti tra esseri viventi costretti dai rispettivi ruoli a lottare perennemente uno contro l’altro, senza risparmiarsi nei mezzi e nella tattica.

Nel 1979 Hill gira un film divenuto memorabile: I guerrieri della notte (The warriors).

Definito a pieno diritto un “western metropolitano” ove musica e scene di violenza si alternano con ritmo frenetico, il film racconta l’incubo che ricade sulla banda metropolitana dei Warriors, quando costoro vengono accusati, a seguito di un raduno pacificatore organizzato in un quartiere neutrale popolare di New York, dell’uccisione del leader organizzatore.

La fuga tra le insidie notturne di una metropoli che somiglia ad una giungla, si concluderà all’alba per la sfida finale sulla spiaggia di Coney Island.

Sceneggiato da Hill, basandosi sull’omonimo romanzo di Sol Yurick, a sua volta ispirato a Anabasi del greco Senofonte, The warriors è divenuto un film culto in grado di generare le basi del filone apocalittico-metropolitano. Indimenticate appaiono le numerose scene del percorso della banda tra le strade malfamate nella metropoli, il cui incedere ricorda tipici movimenti da western, come il passo veloce e incalzante dei cowboys di Peckimpah ne Il mucchio selvaggio.

Gli anno ’80, che corrispondono anche al decennio d’oro del regista, si aprono per Hill con lo splendido e crepuscolare western  The long riders (1980), da noi diventato I cavalieri dalle lunghe ombre.

Nel 1980 Walter Hill porta in Concorso al Festival di Cannes questo suo suo apprezzato e torvo film ambientato al tempo dei pionieri nelle terre dell’Ovest.
Quando il western sembrava ormai definitivamente tramontato, Hill lo riporta in auge con uno stile che omaggia, senza plagiarla, la scuola solenne e spietata del maestro ineguagliato Sam Peckimpah.
La storia di tre gruppi di fratelli rapinatori di banche, in fuga contro i tutori della legge che gli stanno dando la caccia, si contorna di un cast memorabile, ove il legame di famiglia risulta un aspetto reale e palpabile: tre elementi della stirpe di attori dei Carradine, due dei Keach, e i due Quaid, al servizio di un bel revival che apre a Hill la strada in un genere che ha caratterizzato gran parte della sua eccelsa carriera di regista.
Nel 1982 Hill ha il merito di far esordire col botto la futura star Eddie Murphy, in un noir adrenalinico perfetto, in cui la dicotomia più esasperata tra i due protagonisti si rivela come un tocco di genio al servizio di una sceneggiatura perfetta, coadiuvata da una messa in scena da delirio.
Il film si intitola 48 ore, e costituisce uno dei più rilevanti successi al botteghino di Hill, al punto da indurlo, otto anni dopo, ovvero nel 1990, a dar vita all’unico sequel realizzato in 50 anni di carriera: Ancora 48 ore, che si rivela un dignitoso secondo capitolo, seppur nemmeno lontanamente paragonabile al primo.
In entrambi i film si sfrutta abilmente il gioco degli opposti: il nero e il bianco, la comicità rutilante di Murphy contro la durezza granitica di Nick Nolte, comico e spalla perfetti, al servizio di una storia che fila veloce tra azione e sparatorie, violenza e sarcasmo giostrati magicamente.
Sempre lungo i felici e frenetici anni ’80, e precisamente nel 1983, Walter Hill dirige un’altra delle sue vette artistiche assolute: I guerrieri della palude silenziosa.
Un survival movie mozzafiato, che vede al centro della vicenda nove ragazzi della Guardia nazionale, impegnati a sopravvivere a un campo di addestramento, laddove un atto di goliardia li rende ostici ai nativi di una antica comunità di cacciatori, che hanno, trovato nelle paludi della Louisiana, il loro habitat perfetto per estraniarsi da un mondo e da una società che non appartiene loro.
Il film, oltre ad essere galvanizzante e giostrato con mano sapiente, costituisce anche un monito dichiarato ed orgoglioso contro la guerra e l’ingerenza che troppo spesso ha visto gli Usa usurpare i diritti e le abitudini di popoli a loro estranei, o semplicemente desiderosi di non uniformarsi ai dettami di una società del consumo con cui non riescono ad identificarsi.
Per non farsi mancare proprio nulla, all’apice del successo e dei ritmi forsennati di una carriera da regista in odore di culto, Hill si cimenta, nel 1984, in un musical scatenato, forte di due interpreti sex symbol di puro traino: il film è Strade di fuoco, e i protagonisti i bellissimi Michael Paré e la “coppoliana” Diane Lane.
La storia non rinuncia all’azione, ma quello che resta alla mente è il contrasto tra le luci al neon e il luccichio delle strade bagnate nella notte in cui si svolge il concitato salvataggio della bella rock star da parte del suo eroico ex fidanzato.
Forse non un film memorabile, e più noto ed apprezzato ai giorni nostri come specchio di un tempo ormai lontano, ma ricordato con entusiasmo, più che al momento della sua uscita in sala.
Per Hill inizia una fase di declino commerciale e, se vogliamo, anche di minor ispirazione creativa.
L’anno seguente, ovvero nel 1985, è la volta dell’incursione del grande regista nella commedia sofisticata e surreale Brewster’s Millions, tradotta da noi con il molesto, ma non inopportuno, Chi più spende… più guadagna.
La storia è divertente e promettente: un giocatore di baseball riceve una inaspettata enorme eredità, ma anche una precisa istruzione che lo vincola a spenderne una lauta parte entro un breve periodo, pena la perdita di tutto il resto.
La circostanza darà vita a una serie innumerevole di gaffes e situazioni assurde.
Nel cast brillano la verve di Richard Pryor e John Candy, entrambi assai compianti, all’interno di una pellicola divertente ma solo parzialmente riuscita, che denota un certo disagio del cineasta per i circuiti un po’ obbligati legati al mondo della commedia leggera.
Una bella storia edificante e scritta con garbo, permette a Hill di lavorare con un giovane divo all’epoca assai acclamato: il Ralph Macchio rivelatosi ne I ragazzi della 56° strada, per poi sfondare con i tre Karate Kid di John G. Avildsen.
Il film si intitola Mississippi Adventure (Crossroad in originale), e si presenta come una sorta di road movie a sfondo blues che permette a Hill di collaborare nuovamente col fidato musicista Ry Cooder (dopo Strade di fuoco e I cavalieri dalle lunghe ombre), riuscendo a dar vita ad un piccolo film non certo fondamentale alla carriera, ma riuscito e musicalmente trascinante, soprattutto per gli amanti del genere.
L’intesa e l’affiatamento con l’attore Nick Nolte inducono Walter Hill a scritturare la star per il suo cupo western moderno del 1987 intitolato Extreme Prejudice, che da noi si trasforma nel poco tranquillizzante Ricercati: ufficialmente morti.
La lotta di uno sceriffo di una cittadina ai confini con il Messico nei confronti di un suo ex amico divenuto pericoloso trafficante, si trasforma in un duello all’ultimo sparo, quando tra i due, rivali anche in amore, ci si mette anche un terzo contendente, ovvero un sedicente comandante di una truppa di superstiti soldati di guerra, giunti lì per rivendicare il malloppo in gioco.
Il film, dalla sceneggiatura un po’ traballante, che guarda ai capisaldi del cinema di Peckimpah senza riuscire ad emularne l’efficacia, si salva per la messa in scena esemplare e per il carisma pietrificato di Nolte, in grado di dar vita a un altro dei suoi personaggi granitici irresistibili.
Nonostante ciò, il film fu un clamoroso flop al botteghino.
Decisamente meglio l’avventura che porta Hill a lavorare con la star Arnold Swarzenegger nell’action al fulmicotone Danko (Red Heat in originale).
Memore del fortunato dualismo degli opposti che rese campione di incassi lo sfrenato 48 ore, Hill punta nuovamente a unire due soggetti contrapposti su tutto: poliziotto sovietico severo e inflessibile che si confronta con collega americano scanzonato ed estroverso (un perfetto James Belushi), al servizio di una spy-story dal ritmo forsennato e dall’ironia sapientemente dosata.
La scena iniziale della lotta in sauna in cui Swarzy se la deve vedere con diversi marcantoni degni della sua stazza, tra vapori e carni esposte, divenne una scena cult, ancora oggi nota agli estimatori della star ex campione di body building.
Nel 1989 Hill viene coinvolto in un progetto a destinazione televisiva, che poi godette anche di una minima distribuzione nelle sale. Si tratta dell’episodio pilota, intitolato I racconti della cripta, di una serie horror nata sulla falsariga del successo ottenuto dagli episodi horror di Creepshow, da King.
Per questo film ad episodi di partenza, vengono scomodati tre grandi registi del calibro, oltre al nostro (nell’episodio The man who was death), di Robert Zemeckis (And all through the house) e Richard Donner (Dig the cat…he’s real gone).
La storia diretta da Hill è incentrata su un boia che, talmente preso dal suo mestiere di esecutore, decide di mettersi in proprio e agire di iniziativa, indipendentemente dalle necessarie fasi di giudizio che seguono la condanna.
Il 1989 è un buon anno per Walter Hill, che sforna un noir davvero di gran livello: Jonnhy Handsome, che da noi si trasforma poco, diventando Johnny il Bello.
Un rapinatore afflitto da una malformazione al viso, viene arrestato dopo un colpo andato male, in cui muore un suo compare. La causa di tutto, il tradimento di altri soci.
Quando esce di galera, col volto rifatto grazie ad un bravo medico, l’uomo cerca di rimettersi in società, ma trama anche l’organizzazione di una nuova rapina, in cui coinvolgere i suoi ex soci, per potersi vendicare e ingannarli.
Per Mickey Rourke, protagonista assoluto entro un cast di nomi prestigiosi (Morgan FreemanForest Withaker, una inquietante Ellen Barkin, la dolce Elizabeth McGovern), quello di Johnny è il ruolo del riscatto dopo qualche passo falso, lungo una carriera che continuerà ad essere costellata di saliscendi.
Hill firma un noir seducente che forse non ci racconta nulla di veramente nuovo, ma sa intrattenere con una messa in scena esemplare e scene d’azione strepitose: tra queste, risulta memorabile quella della rapina iniziale, lunga circa venti minuti di sola adrenalina.
Gli anni 90 si aprono per il regista con l’accennato seguito, non fortunato come il capostipite, di 48 ore.
Del 1992 è invece il thriller incalzante, sulla carta di poche pretese, ma a livello di risultati, piuttosto convincente.
Si tratta di Trespass (I Trasgressori), action a tutto ritmo che vede coinvolti due pompieri alla ricerca di un tesoro, finiti nel posto giusto, al momento sbagliato.
Il problema dei due non sarà tanto trovare il tesoro, bensì preservarlo dall’ira dall’ avidità della banda di spacciatori che i due, inavvertitamente, andranno a disturbare, provocandone una irrefrenabile reazione.
Nel cast, oltre a brutto ceffi come Ice T., Ice Cube e William Sadler, il compianto Bill Paxton, efficace come al solito senza necessità di strafare.
Nel 1994 Hill si porta dalla parte degli indiani e con Geronimo, racconta la storia della mesta resa del celebre capo apache verso la fine dell’800.
Forte del fasto che Balla coi lupi tornò a dare al genere western con i nativi, Geronimo tenta di indirizzarsi nella strada aperta da Kevin Costner, ma il film, efficacemente interpretato da un toccante Wes Studi, coadiuvato da un motivato Jason Patrick e da due mostri sacri del livello di Gene Hackman e Robert Duvall, si rivela eccessivamente prolisso e retorico, ben lontano dai livelli di scrittura e tecnici a cui ci ha mediamente abituato il poso registico del grande cineasta.
L’anno successivo Hill persevera col genere western e dirige Wild Bill, una vicenda di vendetta di un figlio per onorare una madre (Diane Lane) abbandonata dal suo uomo.
Che in questo caso è un celebre pistolero, conosciuto come Wild Bill Hickok (lo interpreta con la solita efficacia il grande Jeff Bridges) avviato sul sentiero del tramonto. C’è pure Calamity Jane (Ellen Barkin).
Il racconto si sviluppa prevalentemente sotto forma di flashback tramite il racconto di un caro amico del pistolero (John Hurt), che ne ripercorre la storia in occasione del funerale dello stesso.
Il tratto classico di Walter Hill guarda anche stavolta al tardo western spietato e senza circostanze d’appello di Peckimpah, senza dimenticare i classici del genere, ma senza nemmeno restarne soggiogato ed intrappolato.
Il film non godette di un risultato eclatante al box office, al punto che in Italia non ebbe mai l’onore di uscire in sala; ciò nonostante, Wild Bill rimane un western crepuscolare di tutto rispetto.
Ma è con lo splendido Ancora vivo (in originale Last man standing) del 1996 che Walter Hill torna a firmare un film davvero memorabile come ai tempi de I cavalieri dalle lunghe ombre.
Trattasi di un remake autorizzato de La sfida del samurai (1961) di Akira Kurosawa, trasposta al periodo del proibizionismo dei primi anni ’30 e del proliferare del fenomeno dei gangster.
L’abile e taciturno pistolero John Smith (un Bruce Willis dalla fissità consona al carattere del proprio personaggio) si trova a passare per Jericho, città texana al confine col Messico, ritrovandosi incastrato nella lotta tra due bande rivali di gangster, e proteso a conquistare il cuore della donna di uno dei boss rivali.
Ne scaturirà una sanguinosa e solenne resa dei conti, sotto uno scenario desertico e spettrale che trasforma la sfida in un duello più psicologico che fisico.
Splendido cameo per lo straordinario Christopher Walken, in un western dalle atmosfere solenni e moderne che rappresenta uno dei vertici stilistici del celebre regista.
Dopo quattro anni di silenzio, il nuovo millennio si apre per il regista Walter Hill con un film di fantascienza dal titolo Supernova, che, dalle intenzioni, avrebbe dovuto risolversi in un blockbuster di fantascienza ad elevato budget.
Ma proprio per questo motivo, l’influenza dei produttori finisce per indiporre il regista che, per protesta dinanzi a una versione eccessivamente rimaneggiata del suo lavoro, toglie il proprio nome al progetto firmandosi Thomas Lee.
La vicenda dell’astronave di soccorso impegnata ad assistere un vascello spaziale finito alla deriva oltre i limiti conosciuto dello spazio, possiede in incipit piuttosto galvanizzante, ma in sede di epilogo, la vicenda si mostra confusa e il sospetto di pasticci in sede di montaggio risulta quasi palese.
Ciò nonostante il film, interpretato da Angela BassettJames Spader e Robert Foster, mantiene un suo fascino oscuro che dona al progetto travagliato una certa aurea di maledettismo in grado di impreziosire l’ormai lontano ricordo del film visto in sala, per quanto mal distribuito, all’epoca della sua uscita.

Nel 2002 è la volta di un film che riporta Hill sulle tracce di quella boxe che ha caratterizzato il film d’esordio, L’eroe della strada: Undisputed.

Ma stavolta, per quanto l’incontro non presenti i connotati di una sfida ufficiale, si parla di boxe vera, che fa incontrare un famoso boxeur (Ving Rhames) finito in carcere con l’accusa di stupro, con un suo rivale non professionista (Wesley Snipes), dotato e talentuoso, allenato in galera e indotto da un anziano scommettitore (Peter Falk) a sfidare il noto sportivo.

Per questo film di pugilato tra le sbarre, Hill dirige con un certo piglio e la vicenda, per quanto non proprio originale, si lascia seguire grazie ad una narrazione coordinata con criterio.

Il film non sfondò al botteghino, ma ottenne un certo successo in versione home video, al punto da indurre la produzione a girarne altri tre seguiti, completamente estranei a Hill e privi del cast di un certo spessore coinvolto in questo originale.

Nel 2006 Walter Hill viene coinvolto in un progetto televisivo, suddiviso in due puntate. Un nuovo western dal titolo Broken Trail – Un viaggio pericoloso, che vanta un cast di tutto rispetto, nel quale spiccano il veterano Robert Duvall e Thomas Haden Church, oltre a Greta Scacchi.

Nel 1897 due cowboy ereditano una grossa somma di denaro e maturano l’intenzione di comprare una mandria di cavalli da portare in Wyoming.

Durante il viaggio, si aggiungono alla comitiva altri personaggi, tra cui anche cinque donne cinesi che sono state vendute come schiave. I due le salvano e le ragazze si uniscono al viaggio che li porterà in Wyoming.

Prodotto dalla HBO, il film ha uno stampo tipicamente cinematografico che si sostanzia in panoramiche lungo le distese e spazi senza confini, sviluppando una storia che alterna lunghi momenti contemplativi a scatti di azione e violenza da tipico umore western.

Come se a Hill non importasse più di star dietro ai ritmi ossessivi, come se la forma finisse per avere il sopravvento sull’azione, e i soggetti agissero secondo un istinto legato a un codice morale appreso imparando a vivere o sopravvivere in territori ostili e severi ove buoni e cattivi non conoscono mezze misure.

Trascorrono ben sei anni prima di veder coinvolto nuovamente Walter Hill in un progetto giunto a compimento.

Il lavoro, dal titolo Jimmy Bobo – Bullet to the Head, vede coinvolto, per la prima volta con il regista, la star Sylvester Stallone, che, quarantenne, sfodera un fisico sexy da culturista tatuato  a dir poco invidiabile.

Già il fatto che il film presenti, al contrario di molti action movie attuali, i titoli di testa, lo rende simpatico e lo fa apprezzare sin dai primi passi di visione.

E poi quel titolo originale magnifico, Bullet to the head, in grado di rendere ancor più efficace ed appropriata giustizia e giustificazione al massacro vero e proprio a cui la pellicola non rinuncia, manifesta e descrive ogni più dettagliato e raccapricciante particolare di agguati e traiettorie di proiettili che perforano carni ed ossa, in un macello sanguinolento efferato, ma di grande effetto scenico.

Le sparatorie e le situazioni sono già viste e riviste decine di volte, molto spesso nello stesso curriculum di Hill, ma non è affatto la storia che conta in questo amabile noir della vendetta e della più spietata e assurda macelleria: quello che conta è perdersi in una regia che, senza compiacimenti, ma solo con lo scopo di non perdere un secondo del ritmo dell’azione, sfreccia come le pallottole che martirizzano quei corpi crivellati e ci porta in un mondo dove il ritmo dell’azione è quello vero dei polizieschi anni ’70 e ’80. Epoca in cui il grande Walter primeggiava con i suoi spietati Driver l’imprendibile, e con le sue scanzonate doppie 48 ore, con i suoi efferati Danko (citato platealmente con una nuova scena di lotta all’ultimo respiro in sauna tra corpi seminudi di due moderni e gommosi gladiatori) ed intriganti Johnny il bello.

Insomma, al di là della storia, (Sly, killer spietato, ma in fondo un po’ stanco di spalare sterco salva la vita ad un poliziotto di origine coreana che sta indagando su un caso di corruzione in cui in qualche modo è coinvolto pure lui) a salvare e rendere davvero piacevole un filmaccio che in alcuni momenti sembra una rivisitazione d’autore del micidiale (ma non troppo) Cobra, è proprio il talento immutato del grande Walter Hill, che non accenna a perdere smalto e pure lui a questo punto invecchia davvero bene.

Forse è proprio il caso di dire che quando la sceneggiatura non offre spunti migliori, la potenza espressiva di una regia tosta e motivata riesce a condurre in salvo un progetto che, diversamente, sarebbe diventato un prodotto qualunque, usa e getta;  invece in questo caso, lo incasella nel privilegiato mondo dei filmacci di genere che possono ambire a divenire col tempo dei piccoli “cult”.

Il film più recente diretto da Hill ed uscito in sala si intitola Nemesi, datato 2016, un thriller interpretato da due donne toste, come sanno essere quasi sempre Sigourney Weaver e Michelle Rodriguez.

Ritorno gradito del grande Walter Hill. Dietro le apparenze di un “ordinario” thriller su un diabolico complotto tra un efferato sicario e una brillante ex dottoressa incarcerata, ritenuta responsabile di una strage e di altri reati inerenti l’etica e l’esercizio abusivo di prestazioni mediche elaborate, Nemesi si incentra su tematiche legate alla condizione transgender, ipotizzando che l’individuo in questione (il killer) venga trasformato, contro ogni sua volontà, in una persona di sesso opposto.

Hill parte in quarta con il thriller, ma via via che la vicenda si dipana, il regista si concentra – a suo modo, senza perdere di vista l’aspetto action – sulle dinamiche della nuova identità del protagonista (che continua a considerarsi al maschile, nonostante le fattezze), sui dubbi legati a una femminilità costretta ma mai accettata, sul desiderio sessuale nutrito nei confronti di quel sesso femminile che la rende, in quel caso, una donna attratta dal suo stesso sesso, anche se effettivamente nulla è più lontano da tutto ciò.

In sintesi, Nemesi si presenta come un vengeance-legal- thriller solo in apparenza e a tratti dozzinale, che cela attorno a sé sfaccettature psicologiche da confusione sessuale forzata e indotta davvero acute.

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