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Approfondimenti

Dal predatore alla preda: una ricognizione critica della saga di Predator

Dalla fine degli anni Ottanta arriva la saga dei Predator, alieni sanguinari che amano la caccia e tornano su Disney Plus con un prequel che è anche una specie di reboot...

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Prey di Dan Trachtenberg è un film del 2022 disponibile su Disney Plus dal 4 agosto; Predator è invece il primo film della saga ora disponibile, con tutti i seguiti, su Amazon Prime Video e Disney Plus.

Per quanto oggi le piattaforme abbiano creato una specie di universo condiviso con la più ampia libertà creativa per autori e franchise, è sempre più difficile trovare (in tempi di reboot, sequel e prequel multimilionari) opere che riescano a dire qualcosa di nuovo dal punto di vista dell’inventiva e della creatività.

Predator saga

Come sempre, sembra però che sia il genere horror quello con i codici più predisposti alla reinvenzione delle formule narrative, dove pur percorrendo strade già battute -qualcuno disse tempo fa che ogni storia è già stata raccontata ed è dentro i poemi omerici- si riesce a trovare una chiave di lettura che offra suggestioni e stimoli nuovi.

E se da una parte ci pensano i nuovi autori come Jordan Peele a unire ricerca visiva, perfezione stilistica e profondità di contenuti, dall’altra inaspettatamente arriva Prey, il film di Dan Trachtenberg che prosegue la saga del predatore più famoso del cinema in maniera totalmente inedita, ovvero trasportando la razza (e la mitologia) del mostruoso protagonista indietro nel tempo.

La saga di Predator dove tutto inizia

Tutto inizia negli anni ’80, come sembra consueto di questi tempi: quando il grande schermo, o meglio gli sceneggiatori e i registi, inventavano un immaginario figlio della rivoluzione culturale, sociale ed economica di quegli anni. Star Wars aveva di fatto costruito un nuovo modo di fare cinema, riaccendendo il fuoco -mai sopito veramente- per la sci-fi, con una passione che nasceva dalla voglia di non rimanere confinati negli stretti codici di un genere ma anzi commistionandone diversi. Erano anche gli anni di Stallone e Schwarzenegger, che si erano creati un pubblico adorante degli action hero in storie dinamiche ed iperviolente.

Neanche a dirlo, il pugile italoamericano Rocky Balboa aveva aperto una nuova visione del ring, e dallo scontro attesissimo con Ivan Drago venne l’idea, agli sceneggiatori Jim e John Thomas, di mettere un combattente umano di fronte ad uno alieno, l’unico che poteva mettere in difficoltà un protagonista scultoreo e muscoloso. Dalla scintilla creative uscì uno script intitolato Hunter, dove l’uomo era la preda di un feroce alieno indistruttibile: e le potenzialità del racconto furono subito annusate da quella vecchia volpe di Joel Silver, reduce dal successo di Commando.

Direttamente dai ring di Rocky arrivava invece Carl Weathers, mentre Shane Black (lo stesso che nel 2018 realizzerà un pallido remake del primo Predator) fu coinvolto nel casting perché coinvolto con lo stesso Silver nella stesura di una commedia poliziesca su due poliziotti, uno bianco e uno nero… che sarebbe poi diventata Arma Letale!

Da questi presupposti, uscì al cinema nel 1987 uno degli ibridi di guerra e fantascienza migliori di sempre, Predator, con Arnold Schwazenegger protagonista e la regia firmata da John McTiernan.

Un action, alla base, che non si faceva problemi a mettere in scena corpi scuoiati e gran guignol, immersi in una giungla da survival, tutto mirato a una storia sulla sopravvivenza della specie: un’opera abbagliante nella sua lucida quanto apparente semplicità, che fa il paio con l’Alien di Ridley Scott per come ribalta le prospettive uomo-alieno, mettendo però al posto della cupa disperazione dell’equipaggio Nostromo una forza cieca, con risvolti profondi che rendono la visione un capitolo fondamentale della narrazione cinematografica.

Sottolineando anche il contesto sociale e politico, accostando la storia della caccia alle piccole e disastrose guerriglie delle latitudini latino-americane, gettando le necessarie ombre sulle operazioni segrete dei black ops.

Nei prospicenti anni Novanta che seguirono al trionfo della pellicola, gli adattamenti a fumetti non erano un caso sporadico: ma il successo del film di McTiernan fu così travolgente da spingere la casa editrice Dark Horse a pubblicare proprio una serie di albi da edicola incentrati sulla mostruosa razza di alieni del film.

Predator saga

Un sequel sbiadito

Oltretutto, con una trama che anticipava quello che sarebbe stato l’evento centrale del sequel, Predator 2, uscito nel 1990 e firmato da Stephen Hopkins.

Una delle caratteristiche vincenti del film era poi ovviamente la fisicità del mostro alieno, lontanissimo dalle configurazioni abituali sia per la sua visualizzazione, sia per l’acuta intelligenza malvagia che lo caratterizza. Un alieno la cui mitologia  inizia ad approfondirsi proprio con Predator 2, che riprende d’altro canto una delle idee di Silver per il capostipite, ovvero il contesto urbano della caccia e degli scontri.

Un sequel sbiadito, se confrontato all’originale, ma che invece oggi, a distanza di decenni, acquisisce un’inedita potenza narrativa, sia per l’accostamento (prima larvato) della razza aliena degli Yautja con gli xenomorfi del citato capolavoro di sir Scott, sia per gli echi polizieschi dove riecheggiava un altro cult dell’epoca, ovvero Robocop. Il collegamento tra gli Xenomorfi e gli Yautja era stato ideato nei fumetti, ma divenne centrale nei due film successivi di questa saga anomala, ovvero il dittico Alien VS Predator prima di Paul W. S. Anderson (2004) poi dei fratelli Strause (2007).

Predator saga

Il confronto tra la saga di Predator e Alien

È però proprio il confronto con Alien a mostrare più approfonditamente uno dei difetti che non ha permesso alla saga di Predator di diventare iconica come l’altra: se nei diversi Alien esplorava quell’universo cosmico e letale in maniera complessa, stratificata e psicologicamente coraggiosa e moderna, specialmente nei successivi Predators (di Nimrod Antal, 2010) e The Predator (di Shane Black, 2018).

Predators è ambientato in una giungla che solo a film inoltrato capiamo non essere terrestre: l’azione infatti si sposta sul pianeta natale dei mortali ed efferati predatori, mostrando le diverse varianti della razza, dal Dog Handler a Ram Runner, da Mr. Black ai Cani da Caccia, in un film dove, come c’era da aspettarsi, l’azione la fa da padrone ma tutto dà l’impressione di essere un mero pretesto per portare in scena i nuovi esseri, dimenticando completamente e colpevolmente l’avventura bellica proto-rambiana da machismo reaganiano del primo capitolo.

Come è vero che tutto questo manchi anche nel successivo film girato da Black, che ha però dalla sua un carattere dichiaratamente gradasso, scanzonato e indiscutibilmente abile nell’intrattenere. Scompare ogni traccia del pathos claustrofobico che aveva caratterizzato la pellicola di McTiernan, a favore di una distruzione e ricostruzione (sbagliata) del mito, imponendosi con la sua eccessività mentre mette in mostra i -tanti- muscoli e il -poco- sangue.

Chi preda e chi cacciatore

Da qui, il balzo al capitolo successivo è lungo ma necessario: perché con Prey del 2022 Trachtenberg lo spaesamento viene dal concetto alla base, ovvero la ricerca da parte dello spettatore di cosa rende davvero preda e cosa cacciatore. A partire dal titolo, che sposta l’attenzione sul concetto di preda: l’abilità del regista, che aveva dato bella mostra di sé nel precedente 10 Cloverfield Lane e nei due episodi da lui girati di Black Mirror e The Boys. La caccia torna ad essere allora una metafora potente e suggestiva, tra la situazione delle donne, lo sterminio dei Nativi Americani e la salvaguardia dell’ambiente. Prey è efficacissimo nella sua essenzialità, ma soprattutto trova finalmente in Amber Midthunder una degna erede di Schwarzenegger per combattere gli Yautja e rifondare una mitologia che si riappropria del proprio fascino primordiale.

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