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Intervista a Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, registi di “Et in terra pax”

TAXI DRIVERS intervista Matteo Botrugno e Daniele Coluccini, registi di “Et in terra pax”

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Matteo Botrugno e Daniele Coluccini

Cominciamo dal titolo tratto da Et in terra pax di Antonio Vivaldi. Perché avete scelto questo titolo e queste musiche per la colonna sonora del film.

Il titolo del film è nato un po’ per caso, io (Matteo) ho scritto il soggetto del film. Una decina di righe che tracciassero le linee guida della storia e facessero capire le dinamiche fra i personaggi. Mentre scrivevo, mi lasciavo ispirare dalle note di un Gloria di Vivaldi e in particolare dal secondo movimento, Et In Terra Pax per l’appunto. Non avendo ancora dato un nome a questa storia ho scritto Et In Terra Pax come titolo. Quando ho proposto il soggetto a Daniele e ad Andrea Esposito, il nostro co-sceneggiatore, abbiamo deciso non solo di tenere questo titolo e di conseguenza anche la musica, ma anche di calcare questo contrasto fra musica sacra e argomento profano. Abbiamo voluto enfatizzare ed esaltare le piccole gesta di uomini comuni, renderle sacre.

Et in terra pax è un film sulla perdita della speranza e la solitudine o, peggio ancora,  sull’indifferenza nei confronti della vita umana; da cosa nasce l’esigenza di rappresentare un teatro così negativo della realtà?

Da un certo punto di vista EITP è sicuramente un film in cui la speranza lascia il posto alla disperazione. Apparentemente non c’è riscatto nel film, non c’è via d’uscita. E ovviamente (e questo si evince soprattutto dal finale) la vendetta, la sopraffazione, il “sacrificio inutile” di Marco, non solo non portano nessun riscatto, ma schiacciano ancor di più l’Uomo e lo confinano nella sua condizione di immobilità. Al di là di questo però, possiamo affermare che EITP mostri una sorta di riscatto in potenza: ognuno dei nostri personaggi ha la possibilità di fuggire dall’isolamento in cui si trova, ognuno di loro potrebbe cambiare qualcosa sia dal punto di vista personale sia per quel che riguarda il rapporto con il mondo che li circonda. Marco e Sonia si incontrano sulla panchina e condividono il loro modo di vedere le cose; la stessa Sonia, nel finale, si rialza e affronta in piedi e con sguardo fermo l’alba di un nuovo giorno. Sono molti gli elementi che mostrano il desiderio di comunicare, di condividere. Questo istinto è celato fra le pieghe della solitudine e della disperazione, ma la propensione umana a risalire, a sfuggire dall’isolamento c’è, seppur nascosta fra le mura grigie di un qualsiasi edificio ai margini della città. La periferia non è solo sinonimo di delinquenza, criminalità, spaccio o violenza. Spesso e volentieri è tutto l’opposto. È vita, lotta, coraggio, speranza.

Come avete scelto gli attori e come è avvenuto il casting?

Gli attori del film sono tutti attori professionisti. Molti di loro li conoscevamo già personalmente e alcuni avevano lavorato con noi nei nostri cortometraggi. Gli altri li abbiamo visti a teatro. Gli attori sono stati per noi una delle principali fonti di ispirazione per la stesura della sceneggiatura. Mentre scrivevamo infatti, avevamo già ben chiare le facce e i corpi degli attori a cui volevamo proporre la parte. Finita la sceneggiatura, li abbiamo chiamati tutti a raccolta, abbiamo consegnato loro la sceneggiatura, dicendo che lì dentro c’era una parte scritta appositamente per loro. Abbiamo poi fatto una lettura tutti assieme e tutti si sono subito appassionati al progetto. Tutti sapevano che ci sarebbe stato per loro solo un piccolo rimborso per le spese e non un vero e proprio cachet, ma hanno deciso comunque di seguirci in questa avventura perché hanno visto nella nostra sceneggiatura una piccola opportunità per emergere.

Abbiamo poi fatto circa due mesi di prove lavorando molto sui personaggi, sul dialetto, sul ricercare quella naturalezza necessaria alla narrazione. Abbiamo parlato molto dei personaggi e della loro psicologia, cercando di attingere dalle esperienze personali di ognuno. La cosa forse più importante è che gli attori sono stati sempre molto affiatati tra di loro e si è creato in tutti un legame che prescinde dal film.

La panchina. Un uomo fermo che aspetta. Ci si aspetterebbe un riscatto che però non arriva. Cosa rappresenta il fuoco che vediamo sia nel prologo che nell’epilogo del film, ma anche in una scena centrale?

Il fuoco è stato uno dei primi elementi, già presenti nel soggetto, su cui abbiamo lavorato e su cui abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione. Elemento purificatore per eccellenza, dona allo spettatore, anche grazie all’ausilio della musica sacra, quell’atmosfera nella quale volevamo immergere la storia. Ci fa intuire subito, fin dalla prima sequenza, quale sia il respiro della pellicola. Il fuoco ci ha aiutato anche a dare quel senso di ciclicità alla storia. Viene riproposto infatti in tre momenti durante lo svolgersi della vicenda. Nel prologo, serve ad immergere lo spettatore in uno stato di incertezza, ci aiuta ad instillare nella sua mente un senso di precarietà e di curiosità verso quell’elemento che sembra essere estraneo alla vicenda e che ritroverà solamente nel finale della pellicola. Abbiamo voluto inoltre inserire questo elemento una terza volta, proprio al centro del film e dopo una delle sequenze più importanti, quella in cui i due protagonisti, Marco e Sonia, parlano serenamente su di una panchina osservando ciò che li circonda. L’immagine che segue questa scena, il fuoco, riporta subito lo spettatore all’atmosfera iniziale, lo riporta a pensare che quello che ha visto fino a quel momento deve necessariamente essere filtrato dal fuoco, come un tema musicale che torna ciclicamente, che riporta l’ascoltatore ad un’atmosfera conosciuta, che troverà il suo sfogo solo nel finale in cui il fuoco diventerà il vero protagonista.

Ignoranza, paura del diverso. Ogni periferia è uguale all’altra, ma quella italiana che viene descritta da Pasolini in poi la conosciamo bene e non possiamo immaginarla, purtroppo, in modo molto diverso da come avete fatto anche voi (certo estremizzando un pò il contesto) con questo vostro film. Quanto c’entrano la politica, la cultura e l’educazione in uno scenario selvaggio come quello che viene messo in scena non solo nei film ma anche nella vita reale della periferia?

Tendenzialmente evitiamo di parlare del film in chiave socio-politica. EITP è un film sulla solitudine. Abbiamo provato ad andare a fondo nei personaggi, a cercare le manifestazioni di questa solitudine, per fare in modo di reinterpretare le radici esistenziali di questa condizione. Ovviamente ci sono i presupposti politici, sociali e culturali che permettono il manifestarsi di questa condizione esistenziale. La periferia di Pasolini era estremamente diversa da quella attuale. Come lo stesso poeta-regista ha profetizzato, anche la periferia ha fatto un salto ma, probabilmente, nella direzione sbagliata. Se prima la necessità era sopravvivere giorno per giorno, ora sembra essersi spostato l’asse del bisogno. Se prima la necessità era quella di arrivare al giorno dopo e a quello dopo ancora, ora il bisogno è un qualcosa che va oltre l’istinto della sopravvivenza. La necessità è ciò che viene generato dal consumismo. È molto più importante l’apparenza che l’effettiva propensione alla sopravvivenza. Ma questo non è solo un problema della periferia.

In periferia, più che in altre zone della città, l’isolamento crea disagio e questo, a sua volta, genera rabbia. L’atto politico è quello delle persone che vivono in un quartiere periferico, gente che si rimbocca le maniche, si auto-organizza, cerca di far funzionare ciò che la politica dei partiti, spesso e volentieri, non conosce neanche. Il lavoro sul territorio non si può fermare alle promesse da campagna elettorale. Bisogna educare, creare opportunità e servizi, dare un’alternativa. Questo malessere esistenziale è il frutto dell’abbandono e dell’isolamento.

Vincenzo Patanè Garsia 

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