Scoprendo Alice Diop, da MUBI a Venezia: ‘We’ e altri film di periferia
Il cinema documentario della regista francese di origine senegalesi ricostruisce gli spazi della collettività conservando le tracce del vissuto in periferia. "We" (2021) è la chiave per capirne il percorso, che a Venezia 79 la porta in concorso con la finzione di "Saint Omer"
Il suo mestiere è quello: guardare. Alice Diop, regista francese nata da genitori senegalesi, ne ha fatto qualcosa in più: un talento. Nella disposizione all’ascolto; nell’attesa accorta; nella ricerca dell’incontro. Il prologo di We (Nous) suo ultimo film premiato alla Berlinale (2021, sezione Encounters), contempla tre persone che guardano, aspettano, ascoltano con pazienza ai limiti della boscaglia: un uomo (l’anziano Marcel), un ragazzo (Ethan), una donna (Florence). Predispongono la battuta di caccia che poi, a fine documentario, coinvolgerà un’intera équipe, quella del Rallye Fontainebleu. È sull’acuirsi della vista, che Alice Diop ha costruito la propria carriera di documentarista – di cacciatrice, più che di storie, di autentici frammenti di vita.
Dal premio ai César col mediometraggio Towards tenderness (Vers la tendresse, 2016), quando già alle spalle aveva perspicaci riflessioni filmiche del calibro de Danton’s death (La mort de Danton, 2011), la sua è stata un’escalation che l’ha portata ad affermarsi tra le autrici da monitorare con maggior attenzione nel panorama contemporaneo. Lo speciale in cinque film su MUBI, tra luglio e agosto 2022, fornisce la possibilità di scoprirla. Ma non sono cinque pezzi facili: serve mettere a fuoco.
Riguardo alla periferia
E documentarista, peraltro, nemmeno basta, poiché al 79esimo Festival di VeneziaAlice Diop partecipa in concorso con un’opera che si presenta come film di finzione, Saint Omer. Di là di formati e generi, il suo cinema, sempre dentro la realtà, si è raffinato su un certain regard. Un certo sguardo, ma piacerebbe tradurre – come “falso amico” dal francese – anche come un certo riguardo. La sua è una sensibile, financo appassionata caccia all’umano: ai confini, nelle periferie, nelle intercapedini sociali. Proprio We, in questo senso, è il film ideale per scoprire una filmografia compatta negli intenti, sfaccettata nelle soluzioni. È il centro, cioè, di un’opera centrifuga, fatta di racconti lontano dal centro stesso: racconti dalla periferia (così titola lo speciale di MUBI).
Originaria di Aulnay-sous-Bois, Alice è cresciuta fino ai dieci anni nel complesso residenziale Cité des 3000, non privo di complicazioni sociali note alla stampa francese. Ma è un luogo d’ignoti. Alice, nel paese delle non meraviglie, prende a interessarsi di persone e comunità dei margini, abbozzandone ritratti che s’intercalano delle sue stesse confessioni. Così si genera il suo cinema: nato ai bordi di periferia.
We: il trailer
We: di che parla (o di chi parla)
A bordo del cinema di Alice Diop, la rotta filmica è spesso intersecata dal tragitto del RER B, il treno che fa la spola tra il centro e la periferia di Parigi, collegando nell’area metropolitana i fili invisibili di una micro-geografia di storie. Sacro RER, verrebbe da dire, parafrasando il Sacro GRA di Gianfranco Rosi. In Wela stazione è un’immagine fugace, un ricordo che unisce passato e presente nelle banlieue; lo sferragliare del treno, è il passeggero necessario del montaggio sonoro. Ispirandosi dichiaratamente all’autore ed editore François Maspero e al suo libro Les Passagers du Roissy Express, la regista si sposta – neanche troppo – lungo la linea ferroviaria, intercettando esperienze che traboccano di vissuto.
C’è un meccanico del Mali che cerca di sbarcare il lunario; una donna (la sorella di Alice) che fa la badante con una premura pari a quella dell’autrice; lo scrittore Pierre Bergounioux viene intervistato per raccontare come, nella propria opera, abbia voluto dare un’identità letteraria alla misconosciuta comunità di Corrèze, nella Francia centrale. E poi, ragazzette che spettegolano; giovanotti in relax tra i palazzi che ascoltano Edith Piaf. Un cinema che per ritrovare il nous– il noi, la collettività – deve essere nu, cioè nudo: deve recuperare, senza censure o distrazioni, lo spazio umano dell’invisibile.
Perché We è il film ideale per scoprire Alice Diop
Tutto questo, se non fosse già auto-evidente in un cinema di così forte presa sul reale, We lo dichiara senza mezzi termini. Nell’intervista allo scrittore Bergonioux, la cui operazione letteraria di recupero della periferia invisibile può considerarsi in parallelo a quella filmica di Alice Diop, quest’ultima rivela di aver così ripensato la propria esperienza cinematografica proprio alla luce dell’incontro con l’autore:
Ho compreso che ho realizzato film sulle periferie in modo ossessivo. E in parte si tratta proprio della stessa ossessione di lasciare una traccia, conservare l’esistenza delle vite ordinarie, che altrimenti scomparirebbero se non le filmassi.
Un cinema siffatto – di struttura sciolta, divagante, libera: F-RER jazz cinematografico – si esaurirebbe nel binario morto del click sulla macchina da presa, se non fosse per l’acume di quello sguardo. Serve anima, insomma. In We, anche un po’ per gioco, si possono trovare quattro anime di Alice Diop, ossia, altrettanti aspetti della sua personalità filmica che contribuiscono a meglio intenderne l’opera.
4×4: 4 anime di Alice Diop e 4 film da vedere
Alice la paziente
C’è una scena, in We, in cui la regista filma l’intera conversazione telefonica del meccanico Ismael con la madre in Mali. L’uomo parla con la testa ficcata in un cofano, mentre è alle prese con la riparazione di un’auto. La macchina da presa non si smuove. Il dialogo è assorbito senza irrequietudine. I momenti morti sono momenti vivi nel cinema di Alice Diop, regista paziente. E i pazienti ci sono per davvero nel film On call (La permanence, 2016), girato in uno studio medico che accoglie rifugiati, per curarne sia il fisico che la mente.
Una scena del film On call (La Permanence)
È un film che ascoltando chi ascolta, in un gioco di scatole franco-cinesi, diventa quasi il manifesto dell’attenzione: quella della regista, dei medici, ma anche dello spettatore, che deve cimentare il proprio sguardo in film lenti, liberi da struttura, dialogati anche a vuoto. Un’attenzione che è cura.
Alice la curiosa
Nello speciale di MUBI dedicato ad Alice Diop, compare una chicca: un cortometraggio di 99 secondi intitolato RER B (2017). Qui il treno che fa da leitmotiv all’opera della regista francese – chissà quante tracce di esistenza in quel milione di passeggeri l’anno – è osservato e dipinto dall’artista francese Benoît Peyrucq da un ponte di Drancy. Trasfigurata in arte, la struttura ingegneristica è quasi investita di un’aura di bellezza. In un cinema senza fuochi di artificio, che non pretende di elevare canti alla bellezza, c’è una scena di We che mostra come la curiosità dell’ordinario, il peregrinaggio tra i semplici, inevitabilmente, dischiudano anche le porte del bello. Un gruppo di bambini guarda i fuochi d’artificio; Alice Diop, con un’attenzione al pubblico più che allo spettacolo in stile I 400 colpi di Truffaut, ne riprende i visi illuminati dai lampi di luce e di meraviglia. Ora sì che Alice (la curiosa) è nel paese delle meraviglie.
Alice l’ascoltatrice
Alice Diop che ascolta chi ascolta è presente in un’altra porzione di We, quella dedicata alla sorella. Lì, con discrezione, il primo degli anziani di cui si occupa la badante non è mostrato. Nelle altre case, il carattere solare della sorella emerge nella propria disposizione a farsi raccontare storie, o anche solo a parlare (con terapeutica gentilezza) del più e del meno. In Danton’s death (premiato al Cinema du Réel), la regista seguiva traversie e ambizioni di Steve, 25enne di colore della periferia parigina in fuga dalla violenza del quartiere per studiare in una delle più quotate scuole di recitazione del paese. Scopre presto, suo malgrado, che il sistema vuole relegarlo a “ruoli da neri”. È impressionante, in questo film, la sincerità di alcuni scambi, in cui il cinema si fa quasi terapia dell’ascolto. Steve vive momenti di profondo sconforto che Alice accoglie e incorpora con riserbo delicato. Sarà una dote di famiglia?
Alice l’interventista
Uno dei frammenti di storie di Wesi riferisce proprio alla stessa regista. Alice Diop parla delle proprie origini, coinvolge la sorella, fa parlare il padre, mostra un vecchio filmato di famiglia. Il trapasso alle storie altre resta fluido. La collettività da ricreare, a cui ambisce il film, include l’autrice medesima. Che ci mette la faccia, poi, nel già citato dialogo con lo scrittore.
We, Alice Diop con lo scrittore Bergonioux
L’autrice non si nasconde. A casa di Bergonioux, persino il microfono della presa del suono si mette in bella vista, nella parte alta del campo. Contrariamente a certa scuola di pura oggettività, Alice Diop nel documentario si mette in gioco: è corpo, voce, presenza. In Towards tenderness (2016), in alcuni momenti il suo dialogo è anche spigoloso. Il film è una sorta di “io non so parlar d’amore”, in cui la documentarista intervista su amore e dintorni i giovani di periferia ingabbiati nel cliché della mascolinità. Col primo dei protagonisti, Alice fuori campo si fa quasi incalzante con le sue domande: che vuol dire “ragazze facili”? Che vuol dire “relazioni basate sulle bugie”? Intervenendo, anziché osservando soltanto, si costruiscono, d’altro canto, le più forti relazioni.
Vers la vie
Quante ne ha viste, dunque, e ne fa vedere, Alice Diop. Il suo cinema, ipersensibile all’ordinario come serbatoio di diversità, ha l’ansia di smarrire le tracce di esistenza. Esplora per necessità. Lo fa lontano dai centri, che già sono saturi di sguardi. E crede fermamente nella vitalità che l’immagine cinematografica può restituire all’anonimato. Parlando, sempre in We, delle riprese del padre effettuate prima che morisse, la regista afferma:
È stato bello ripensarci. Erano più vive di quella tomba vuota. Sono le mie prime immagini. E so che è proprio grazie a queste che giro ancora film oggi.
Altrimenti detto: le immagini hanno un’anima. Anche chi le cattura, come cacciando. Forse non c’è da cercare i maestri di Alice Diop nella scuola del documentario. Il progenitore del cinema di Alice Diop – francese, provinciale e periferico – è nell’800: l’inventore in pittura del Realismo, Gustave Courbet, con le sue scene anonime da Ornans. Non a caso, diceva di voler fare un art vivant. Ad Alice Diop, al momento, nella settima arte, sta riuscendo benissimo.
We
Anno: 2021
Durata: 115'
Distribuzione: MUBI
Genere: Documentario
Nazionalita: Francia
Regia: Alice Diop
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