Karaoke e tette. Così si chiama il locale di cui il cliente vorrebbe venisse cancellato il nome dall’estratto conto – caso mai la moglie dovesse gettarvi un’occhiata, s’intuisce. Al suo servizio, per aiutarlo, c’è Jina (Gong Seung-yeon), la protagonista di Aloners, operatrice del call center di una carta di credito. A mezzo servizio, in realtà: un po’ fa assistenza telefonica; un po’, spentamente, guarda di sottecchi qualche video al cellulare. Così è anche la sua vita, vissuta a metà nella letargia di una routine esistenziale che si arrota su lavoro, solitudine, chiusura emotiva. Finché un paio di lutti, e soprattutto una stagista poco incline al mestiere ma ultrasensibile (Jeong Da-eun), non le danno la scossa.
Presentato al 39°esimo Torino Film Festival e ora disponibile su MUBI, Alonersdell’esordiente regista coreana Hong Sung-eun addormenta e scuote, tirando fuori la poesia dal lucido ritratto di una società abulica e performante.
Il trailer
La trama
Jina, impiegata nel call center di un’azienda di carte di credito, evita qualsiasi rapporto stretto e sceglie di vivere e lavorare da sola. Ma quando un suo irritante vicino viene ritrovato morto nel suo appartamento, Jina comincia a rimuginare sulle relazioni che ha scelto di ignorare in passato. (Sinossi ufficiale da MUBI)
Girare (un film) a vuoto
Non daremo per “stilosa” la scelta, sempre accattivante, di far comparire il titolo del film qualche minuto dopo l’inizio. Alonersdi Hong Sung-eun è infatti un film ben girato, ma consapevolmente accademico nella sua routine di campi e controcampi; di inquadrature fisse di personaggi solitari in cui entra un secondo personaggio (senza per questo formare un tandem); di riprese posteriori o frontali per sottolineare il lonely planet della protagonista. Non c’è stile sensazionale, o sensazionalistico.
Aloners, Jina (a destra) sul divano col padre
Di contro, annodandosi alla fibra del contenuto, la ricerca si assesta su un tono piatto, un mono-tono che rispecchia il piattume relazional-emozionale di Jina: le chiamate con letture ad alta voce dell’estratto conto, i pasti solitari, il risveglio che anticipa la sveglia. E ancora, un’intera prima parte scaltramente costruita su dialoghi fake, non-conversazioni di persone compresenti che parlano senza comunicare: Jina con la datrice di lavoro, Jina col padre, Jina con la stagista. Jina, insomma, è il centro della ruota che gira, e l’epicentro di un terremoto che non c’è mai. Ma la morte della madre, il suicidio del vicino e l’arrivo della tirocinante rimettono in moto il tellurismo emotivo. O l’encefalogramma.
La società della stanchezza
È dunque un passo, quello di Aloners, da interni domestici, che non sono mai casa; di open space di lavoro, che restano spazi chiusi al contatto; di cuffie per il telefono, a cui fanno da contraltare le cuffiette che Jina mette nelle passeggiate lente a orecchie turate, con tutto il mondo fuori. Esperta di perfomance lavorativa, Jina è sempre l’impiegata del mese. Ma non per questo è una rappresentante della società della stanchezza di cui argomentava un altro coreano, il filosofo Byung-Chul Han: quella, cioè, in cui si vive uno stato di depressione latente, per il fatto di voler essere a tutti i costi performer perfetti e iperattivi non solo sul posto di lavoro, ma anche come imprenditori di sé stessi e dei propri desideri. Ecco: Jina non desidera. Teme la performance del legame con tutti i rischi dell’abbandono. Come quello che la madre ha subito dal padre. Honjok per sbaglio – termine coreano col quale si indicano le persone solitarie che amano fare le cose da soli – si è autoconvinta di amare la solitudine, ma è così diventata una walking dead. Ora sul punto di accorgersi che le cose da sola proprio non ama farle.
Dall’ironia alla poesia
Seguire la protagonista vuol dire, per la regista Hong Sung-eun, piegare lo spettatore a un cinema della variante emotiva, in cui cogliere, dal mono-tono, il micromovimento dell’esitazione, del soprassalto fugace, del cambio forzato. Le iniezioni adrenaliniche sono a dosi variabili. Ci sono eventi traumatici, come la scomparsa della madre o la morte del vicino; ma anche capsule di ironia. Tra queste, la scritta Happy your life che campeggia sul posto di lavoro (ma la datrice di lavoro dice a Jina: “che brutta faccia hai oggi!”); la morte del vicino per schiacciamento di pila di riviste cinematografiche (sic!); l’utente convinto di aver inventato la macchina del tempo che chiama per poter usare la carta di credito nel passato. Ma lo shock è un altro: è nella stagista di provincia (“si capisce dall’accento, vero?”) che chiede a Jina di pranzare assieme:
Sujin: mangi sempre da sola?
Jina: sì.
Sujin: perché?
Jina: preferisco essere da sola.
È una domanda che sconquassa (dis)equilibri già in lento dissesto, innescando in Jina reazioni più turbate nella turbina della vita meccanica che si muoveva, ormai, col controllato rigore della ripetizione. Se disposto a questo cinema di osservazione acuta, lo spettatore, senza nemmeno stancarsi troppo, può arrivare, dopo la prima parte, alla call, urgente e imperdibile, di un cinema di ricerca inquieta e di scintille di poesia. Dall’arte della stanchezza a quella della poetry – per citare il titolo di un altro coreano incline all’esplorazione esistenziale, Lee Chang-dong.
Incontri d’autore
Così, la ragazza dal cappottone verde e dalla camicia a quadri (a volte a righe), invariabilmente appoggiate sullo schienale della sedia di lavoro, è in tutta l’ultima parte il bocciolo di un fiore in lenta schiusura. La variante, che fertilizza, è quelladell’incontro: col nuovo vicino; con la tirocinante – ironia della sorte, avvicinata con una telefonata in stile anti-call-center; col padre (ma non sono ancora happy together); persino con la propria superiore, ancora avvolta nella patina della tuttofare coi paraocchi.
Aloners, Jina (a destra) con la propria superiore
Nell’apertura di Jina, cauta e graduale, tra paura e – finalmente! – desiderio, c’è tutta bellezza e la poesia di Aloners: un esordio d’autore da incontrare senza esitazioni.
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