Aprendo i pugni: questa la traduzione di Unclenching the Fists, titolo originale di Ada di Kira Kovalenko.
Una traduzione che racchiude tutto il senso del racconto a cui assistiamo. Tra neorealismo e omaggio a Bellocchio e al suo I pugni in tasca (1965), a cui la seconda pellicola di Kira Kovalenko rimanda per tematiche emotive e psicologiche.
Inseguendo la vita, fuggendo dalla propria realtà
La giovane Ada (Milana Aguzarova) aspetta qualcuno. Il coetaneo Tamik (Arsen Khetagurov) la tampina, come al solito. Le chiede di salire sul suo furgoncino. Ada tenacemente resiste. Col sorriso, ma resiste. Dakko (Khetag Bibilov), il fratello minore, la raggiunge. Tornano a casa: anche oggi l’attesa è stata vana. Ada aspetta la sua liberazione. Tutti succhiano le sue energie: Dakko è attaccatissimo a lei, la stringe forte, non la lascia andare, vuole dormirle vicino, la tratta come se fosse sua madre. Il padre (Alik Karaev) le impedisce di diventare una donna. Di avere delle possibilità nella vita. Le ha sottratto il passaporto. L’unica evasione è nel negozietto in cui lavora. Ada sorride spesso, sorride per non crollare. Non si separa mai dalla sua borsa a tracolla con sopra stampato un cavallo, quell’oggetto che nasconde il suo segreto. Akim (Soslan Khugaev), finalmente arriva: il fratello maggiore. Più forte, più cinico. Andato via di casa per cercare un’alternativa a Rostov, una città “dove le cose accadono”. Arriva anche per salvare Ada. Non ha dimenticato, Akim, non ha abbandonato i fratelli al loro destino.
Kira Kovalenko, diplomata al laboratorio di regia di Alexander Sokurov alla Kabardino-Balkarian State University, nel suo secondo lungometraggio ci trasporta nell’Ossezia del Nord, in un manipolo di case della cittadina mineraria di Mizur. Un luogo ai confini del mondo e dell’uomo, abbandonato a se stesso. Affossandoci nella vita di una famiglia stroncata da una tragedia: sullo sfondo, echeggia la strage di Beslan e un destino a cui alcune esistenze sembrano condannate. Il legame di sangue diventa, allora, l’unico vincolo solido, sicuro: un vero e proprio rifugio che non si vuole perdere. Al padre di Ada non rimane che questo: trattenere a tutti i costi i suoi figli. Proteggere Ada da un dolore da cui lui stesso non si è mai liberato. Ada si deve operare, ancora una volta. Altrimenti non potrà essere libera di vivere la sua vita.
Uno sguardo fisico ed emotivo
Ada ha un respiro che ci rimane attaccato anche a fine visione: un linguaggio del corpo, prevalentemente. Abbracci soffocanti, insistenze soffocanti, una lotta fisica ed emotiva, mai esplicitata ma sempre rivelata: per Ada la gabbia psicologica diventa normalità, consuetudine. Un mondo inconsciamente, da sempre, la sua casa. A cui è legata da odio e amore. Una compressione dell’anima, pulsante, attaccata alla macchina da presa. Uno sguardo che si avvinghia, in un crescendo, anche ai personaggi che attraversa. Ada è l’eroina di questo universo nella sua condizione estrema, dalla quale vuole emanciparsi a tutti i costi.
Un cinema essenziale, sanamente ‘artigianale’, quello di Kira Kovalenko (gli attori impiegati, per lo più sono non professionisti, come il wrestler Soslan Khugaev alias Akim). Che brilla e cammina in tensione, capace di cogliere emotivamente e psicologicamente la verità. Il finale liberatorio, anche visivamente, in frame sfilacciati, sovrapposti, come in un Super 8, è la vita che ci attraversa, al cui destino non possiamo sfuggire se non in una ribellione estrema.