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Approfondimenti

Il cinema di Arthur Penn: dalla violenza che muove l’umanità, alle sfumature femminili

Arthur Penn si racconta, incalzato e stimolato dalla presenza dell'amico e collega Amir Naderi, che lo accompagna con brio lungo una intervista che ripercorre una carriera di prima grandezza, composta da non molti titoli, ma quasi tutti memorabili ed eterogenei.

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Il fiore all’occhiello della scorsa Festa del Cinema dell’ottobre 2021, è sicuramente stato rappresentato dalla splendida e meritata retrospettiva dedicata al regista Arthur Penn (Filadelfia 27/09/1922-New York 28/09/2010). Si tratta, senza esagerare, di uno dei pionieri del nuovo cinema americano che fece seguito alla Hollywood dei grandi registi (Hawks, Ford, Mankievitz, Stevens, Minelli), e che si trovò ad affrontare la materia narrativa cinematografica in un periodo caldo. Tra fine anni ’60 ed inizio ’70, la gioventù dell’epoca iniziava a domandarsi in modo sempre più impellente ed incisivo, il senso di una violenza legalizzata rappresentata dall’intervento degli Usa in conflitti che non li riguardavano da vicino, ma solo per dare risposte a interessi economici di casta e categoria.

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Ospitata nelle due sale della Casa del Cinema dedicata a Marcello Mastroianni a Villa Borghese, la rassegna ha permesso ai cinefili di tornare a focalizzare l’attenzione su un autore determinante che, al pari di altri grandi maestri coevi come Altman, Bogdanovich, Nichols e Mazurski, per citarne solo alcuni, ha saputo farsi portavoce di quel malessere generalizzato che si avvertiva in particolare tra il pubblico giovanile, divenendo espressione di tematiche come la violenza e il ruolo della donna nella società, che hanno contribuito molto a rendere eccelsa la sua tutt’altro che sterminata attività di regista cinematografico.

Qui di seguito alcune considerazioni maturate durante la visione dell’intervista che il regista iraniano Amir Naderi ha raccolto in una lunga conversazione con Arthur Penn nel suo ultimo periodo di vita: quello dei bilanci e delle autocritiche serene di un uomo soddisfatto, ma ancora inquieto.

Arthur Penn intervistato da Amir Naderi

Il regista e appassionato cinefilo iraniano emigrato negli States negli anni ’80, Amir Naderi, spesso al lavoro in produzioni che coinvolgono anche l’Italia, ha avuto il privilegio di intervistare nel 2004 l’allora ottantaduenne regista Arthur Penn, incontrato nel suo studio.

Da quegli incontri, scanditi dalla necessità di stacco della camera, fissa e costantemente diretta sul volto amichevole e bonario del regista, i due cineasti si sono confrontati e ne è nata una fucina di notizie e informazioni interessanti.

La caccia - Film (1966) - MYmovies.it

Attraverso un racconto di vita del grande regista americano di madre lituana, che parte dall’infanzia e prosegue lungo una carriera umana e lavorativa piena di svolte e comunque sfaccettata, è scaturito un percorso cinematografico e umano che ci conduce dall’America della grande crisi economica all’arruolamento e l’esperienza da soldato in Europa contro il nazismo. Fino ad approdare, per il tramite dell’esperienza teatrale e poi televisiva, alla Hollywood di fine anni ’50, da dove iniziò per il cineasta la grande avventura nel cinema.

Un percorso cinematografico che ha sempre alternato a quello teatrale, iniziato, quest’ultimo, con la trasposizione di due commedie drammatiche di William Gibson, tra cui “Anna dei miracoli” (The Miracle worker), trasposto poi al cinema nel suo secondo, straordinario film, premiato agli Oscar e destinato a successi di critica e di pubblico.

Arthur Penn: gli esordi

Un approccio cinematografico che nasce come conseguenza di ingaggi televisivi che, nel ’57 lo fecero approdare alla prima regia, con il western Furia Selvaggia (The left handed gun), piccola produzione che racconta una storia ampiamente rivisitata inerente al giovane bandito dal cuore d’oro Billy the Kids, ucciso dallo sceriffo Pat Garrett. Forte soprattutto di un attore in ascesa e profumo di divismo come Paul Newman, conosciuto grazie alla frequentazione dei corsi all’Actors Studio di Lee Strasberg.

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Un esordio che lo vide sostenitore della doppia cinepresa, con grande sconcerto della sua troupe tradizionalista, che fece inutilmente ostruzione su questa scelta. Un esordio che non godette di particolare immediata fortuna, ma che venne rivalutato in Europa, in particolare grazie all’ottima accorata recensione di André Bazin.

Quella di Penn fu una infanzia non drammatica, ma certo distante dalla famiglia. Con un padre un po’ freddo che ricorda quello immigrato in Usa del protagonista de Gli amici di Georgia. Una madre sola che deve mantenere due figli, lui ed il fratello maggiore Irwin, che diverrà in seguito un celebre fotografo, ma che in gioventù soffrì di una malattia ai bronchi che costrinse la madre a trasferirlo altrove, presso conoscenti, che lo trattarono con  affetto, soprattutto le figure femminili, da cui il regista trasse spunto per delineare alcuni dei suoi più riusciti personaggi, femminili, appunto.

L’influenza delle donne che si occuparono di Arthur nella infanzia e adolescenza, che lo svezzarono alla vita, é la scintilla che ha permesso di renderlo quello che Orson Welles definì un grande regista di figure femminili.

Lo stesso Wells, ci rivela Penn, si complimentò con lui definendolo “maitre”, imbarazzando il regista destinatario del complimento che, al contrario, si schernì controbattendo con umiltà che fu proprio Wells uno dei suoi fondamentali maestri.

Arthur Penn e gli illustri colleghi

Quando Naderi lo guida a parlarci di altri registi già grandi quando il nostro Penn stava per esordire, l’intervistato ci confessa di essersi sempre sentito più in sintonia col cinema di Hawks (che con quello di Ford), che esprimeva derive di violenza e malvagità umana con uno stile e un’a efficacia che Penn ha cercato sempre di raggiungere nei suoi film, e ammirato più che nel lavoro di Ford, un po’ più attento alla forma e meno viscerale.

Ma il suo regista preferito resta George Stevens, oltre che George Sydney, per la capacità di fondere la commedia col dramma. Incalzato da Naderi, Penn confessa di considerare Mankiewitz più un grande sceneggiatore che un ottimo regista, in grado di girare film ottimi solo se coadiuvati da un processo di scrittura che sostenesse la messa in scena.

Il piccolo grande uomo - Arthur Penn - recensione

Per quanto attiene Hitchcock, Penn sorprendentemente lo definisce, con rispetto, ma anche sincerità, come un “pesce freddo”. Ovvero lo paragona a un ottimo meccanico, capace di far funzionare meravigliosi sistemi a orologeria perfetti, a cui tuttavia manca il cuore e quel genuino sentimento che, in effetti, guardando i capisaldi del cinema di Penn, ci fa pensare che, senza nulla togliere al maestro indiscusso del brivido, la sua apparentemente spietata e secca valutazione non risulta  completamente infondata.

Alla considerazione sincera ma un po’ maliziosa del perché Penn ha girato così pochi, seppur film miliari  nella sua carriera quarantennale, ovvero meno di quelli che ognuno dei suoi ammiratori avrebbe desiderato, l’anziano regista risponde che gli studios gli proposero molte volete storie che non gli interessavano, così come si rifiutavano di finanziargli progetti e sceneggiature che invece lo avevano occupato per mesi.

Poi più avanti, tornando sul discorso della produzione cinematografica che ha caratterizzato la sua carriera, Penn aggiunge e precisa come ha organizzato quella giovanile, tra sei anni di permanenza in Europa da soldato e congedato, poi dieci anni dedicati a dirigere ben dodici pièces teatrali, e alla soglia dei quaranta, finalmente pronto ad agguantare la carriera di regista cinematografico col primo film da regista di cui sopra.

Penn si racconta attraverso i suoi capolavori

Faye Dunaway, Warren Beatty

Penn, incalzato da Naderi, ci parla della rappresentazione della violenza nel suo cinema, tema costante dal suo esordio con il western sopra menzionato, dal celeberrimo Piccolo Grande Uomo passando per Gangster Story e La caccia: una tematica forte, viscerale, influenzata certamente dall’esperienza del regista vissuta da arruolato in guerra nel Belgio.

La conversazione prosegue incalzante e appassionante, fino a citare quella manciata di vere e proprie opere d’arte che hanno contraddistinto la solida carriera registica di Arthur Penn: film come il già citato Anna dei miracoli (1962), passando per il glamour La caccia, forte di un cast da sogno, del quale Penn precisa che non è vero che non lo ami, ma non gli piace il finale imposto dal produttore.

Tra i titoli cult non si può omettere Gangster Story (Bonnie and Clyde – 1967), Piccolo grande uomo (1970), forse il suo titolo più forte, noto ed amato; Missouri (The Missouri Breaks – 1976) che lo ritrova per la terza volta in territorio western, e l’introspettivo e generazionale, potentissimo Gli amici di Georgia (Four Friends – 1981). Penn ha saputo prodigarsi con valente professionalità anche in lavori su commissione, magari meno ispirati dei titoli precedenti, ma solidi e di forte impatto come Bersaglio di notte (Night moves – 1975), Target – Scuola omicidi – 1985), Omicidio allo specchio (Dead of Winter – 1987).

Missouri (1976) - Streaming | FilmTV.it

Ci sono poi parentesi personali in piccole ma anche memorabili e sagaci produzioni che puntano il dito contro la violenza in determinati periodi storici (il mondo hippie di fine anni ’60 di Alice’s Restaurant – 1969), o contro il potere deviante del mezzo televisivo (Con la morte non si scherza – Penn & Teller get killer – 1989).

Un viaggio intimo costellato di capisaldi che hanno reso Arthur Penn uno dei registi di punta (assieme ad altri maestri come Bogdanovich e Altman) tra i nuovi autori che da fine ’60 hanno dato smalto al cinema americano d’autore poco incline ai facili condizionamenti delle majors.

Cronologia di un grande cineasta

FURIA SELVAGGIA, 1958 

Il film d’esordio di Arthur Penn è un piccolo western crepuscolare, in cui risulta insolitamente potente lo scavo psicologico del suo tormentato protagonista.

ANNA DEI MIRACOLI, 1962

Anna dei Miracoli è uno dei capolavori di Arthur Penn, che, al suo secondo lungometraggio, dirige con potenza e un uso meraviglioso dei primi piani (sui meravigliosi occhi senza direzione di Patty Duke, sul volto scavato e coperto da piccole lenti scure di una Bancroft spaziale); un film che attanaglia e stordisce, finendo per emozionare come pochi altri in assoluto.

MICKEY ONE, 1965 

Penn si prodiga a dar vita ad un film piccolo e personale in cui poter descrivere le sfaccettature di un attacco d’ansia che degenera in uno stato depressivo latente. Il senso di colpa e il peso di una minaccia che la nevrosi rende più opprimente del dovuto, emergono feroci in un film che crea disagio e spiazza, ma si rivela, almeno a tratti, potente e coraggioso.

LA CACCIA, 1966 

Ancora odio ed intolleranza fuori controllo che animano le masse e degenerano in episodi di violenza estrema. Attraverso una sontuosa produzione che si fa forte di un cast da fare impallidire i più grandi colossal, La caccia è spesso considerato il film dal quale Arthur Penn prese le distanze, rifiutandosi di amarlo nonostante sia considerato uno dei vertici qualitativi della sua produzione cinematografica.

In realtà Penn ha precisato che non ama solo quel finale posticcio ed accomodante che la produzione gli impose arbitrariamente.

GANGSTER STORY, 1967 

Da una storia vera che ha creato una coppia di personaggi leggendari per seduzione, simpatia e il fatto di appoggiare apertamente la classe meno abbiente, rubando solo ai ricchi e alle istituzioni o grandi banche, trascinandosi dietro un tifo da stadio nonostante le nefaste azioni di cui si resero protagonisti e la scia di sangue che derivò spesso dai loro colpi, ecco che l’epopea sanguinosa e irresistibile di Bonnie and Clyde è il veicolo perfetto che permette ad Arthur Penn di tornare a focalizzarsi sulla violenza che alberga nell’essere umano. Con Gangster Story ci troviamo ai vertici del cinema di un grandissimo autore indimenticabile.

ALICE’S RESTAURANT, 1969 

Penn dirige il suo film più politico e impegnato, traendo lo spunto proprio da una canzone del cantautore folk Arlo Guthrie, che partecipa interpretando l’omonimo giovane bizzarro e disincantato protagonista.

PICCOLO GRANDE UOMO, 1970 

Dal romanzo omonimo di Thomas Berger, anche responsabile del limpido seppur denso e concitato adattamento narrativo cinematografico, Piccolo grande uomo, che si riferisce al nome affibbiato a Crabb dai nativi a causa della sua bassa statura, permette ad Arthur Penn di far suo un altro fondamentale tassello che abbia per fulcro la violenza nell’indole umana, trasformando i suoi rappresentanti nelle peggiori belve in circolazione.

BERSAGLIO DI NOTTE, 1975 

Da un soggetto di Alan Sharpe, Arthur Penn dirige un giallo incalzante che riesce a coniugare il sordido intrigo al centro delle molteplici morti, con i risvolti privati di un detective abituato a scandagliare vizi e virtù dei suoi clienti, e trovatosi per ironia della sorte a scoprire una infedeltà che lo vede coinvolto in prima persona.

MISSOURI, 1976 

Missouri è un western moderno che riflette sulle conseguenze di una violenza subitanea e implacabile ordita a tradimento e senza pietà, che diventa una risposta a una precedente violenza, generando in tal modo una spirale di reazioni, da cui è difficile riuscire a uscire indenni. E in cui, qualora tale circostanza accada, essa fa comunque naufragare ogni proposito di costruzione di un futuro, di una famiglia, e di una solidità di sentimenti che rimane un miraggio, soprattutto nei territori senza legge né giustizia attraversati dall’impetuoso fiume Missouri.

GLI AMICI DI GEORGIA, 1981 

Arthur Penn firma con Four Friends (questo il titolo originale del film), una delle sue opere più intense e introspettive, perfettamente calata sui personaggi coinvolti, a loro volta specchio di un periodo cruciale in cui l’America si trova a fare i conti con i moti generazionali pacifisti di protesta contro la guerra.

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TARGET – SCUOLA OMICIDI, 1985

Target sarà pure probabilmente niente più che un film su commissione, che tuttavia ci far ritrovare un Arthur Penn in piena forma, impegnato a costruire una spy story che, per una volta addentro a questo genere spesso fumoso, risulta lineare e comprensibile e si fa seguire con grande suspence e scene di inseguimento davvero notevoli (le peripezie sulla Peugeot 295 e poi sulla Fiat Uno rossa sono fantastiche!).

OMICIDIO ALLO SPECCHIO, 1987 

Certamente per Penn un’opera “alimentare” su commissione, in cui il maestro tuttavia riesce qua e là ad imprimere il suo tocco che si districa tra violenza ed ironia, nonché il suo interesse a scandagliare figure femminili complesse, in questo caso riconducibili non solo a due donne identiche, ma addirittura a tre.

CON LA MORTE NON SI SCHERZA, 1989 

Opera bizzarra, con siparietti divertenti e scanzonati, forti di una comicità isterica, fisica e verbale, sviluppata sul contrasto fisico e caratteriale dei due bravi e un po’ inquietanti comici, al servizio di un piccolo film certo di nicchia, che sfrutta il talento del bizzarro e corrosivo duo comico per riflettere sulle inquietanti conseguenze che il mezzo televisivo può esercitare sulla massa, in termini di condizionamento e incitamento verso forme di violenza che si trasformano da messe in scena, a drammatiche realtà.

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