La Casa di Carta – Corea (종이의 집: 공동경제구역?, 종이의 집: 共同經濟區域?, Jong-i-ui jip: Gongdonggyeongjegu-yeok) è una serie sudcoreana prodotta da Netflix ispirata all’omonima serie spagnola. I primi sei episodi, sui dodici complessivi della prima stagione, sono disponibili dal 24 giugno 2022.
La trama
In un futuro ipotetico ambientato verso la metà degli anni 2020, le due Coree del Nord e del Sud vengono unificate dopo anni di conflitti, dando vita ad un’area economica congiunta e di conseguenza a una nuova valuta comune. Il Professore, una mente stratega e criminale, arruola una banda di rapinatori per progettare di portare a termine una rapina nella Zecca di stato coreana, ma durante l’operazione ci saranno tanti imprevisti.

La recensione
“La Casa Di Carta é finita, e dobbiamo farcene una ragione”: si iniziava così, tempo fa, a parlare dell’ultima quinta stagione del fenomeno televisivo creato da Alex Pina.
E il pubblico (come la critica) probabilmente era riuscito nell’intento, considerando i pareri non proprio entusiasti sulla conclusione della serie fenomeno -anche se si sa, quando parliamo di icone dell’immaginario così’ come è stato per Lost prima, per Il Trono Di Spade poi, difficilmente le modalità dei finali mettono d’accordo l’utenza.
Quello che però sembra sicuro è che a non fare pace con la parola fine per un brand universale è stata proprio Netflix, che ha provveduto nel giro di un anno a mettere in cantiere e realizzare questo remake–reboot con Kim Hong-sun alla regia e Ryu Yong-jae in fase di scrittura.
Un’operazione non certo nuova, nel mondo dell’audiovisivo e in quello televisivo in particolare; ma che con la serie di Hong-sun assume un aspetto differente e straniante.
La Casa De Papel è riuscita, con una manciata di episodi, a superare quello scoglio emotivo che oggi ogni prodotto deve valicare per imprimersi nella memoria collettiva: perché se ci si guarda intorno, risulta chiaro di essere in un periodo storico nel quale il pubblico o meglio l’utente è sballottato tra mille e una suggestioni, dove vince solo chi riesce a colpirlo emotivamente nella maniera più forte o radicale.
Ma in balia di questo “gusto emotivo” si perde di vista quell’affezione, propria di qualche anno fa, profonda e viscerale e conseguentemente più reale.

La banda dei moderni Robin Hood è stata capace di riempire un vuoto nell’immaginario, facendo leva su sentimenti e bisogno popolari e in qualche modo mainstream, grazie a pochi elementi di base (il colore rosso, l’importanza della maschera, la rivalsa sociale ed economica) che hanno creato subito una forte empatia con i personaggi.
È bene allora partire proprio da qui, ovvero dai protagonisti della serie: che nonostante sia ambientata dall’altra parte del mondo lascia invariati i soprannomi e i caratteri, giusto lasciando che scivolino lentamente verso la cultura asiatica ma senza renderli troppo diversi.
Ed è questo il primo difetto, la sovrapposizione.
Un remake deve lasciare respirare la storia, facendo si che lieviti su nuovi presupposti: La Casa Di Carta -Corea invece sembra fare di tutto per prendere in giro chi guarda costringendolo da una parte a dimenticare la storia originale, dall’altra a riviverla persino nelle cadenze lessicali dei personaggi (vedi Denver), creando un effetto disturbante e alla fine respingente.
Esempio lampante è la maschera dei rapinatori: se prima c’era Dalì, artista famoso durante il movimento Dada che rifiutava la società capitalista dell’epoca, ora abbiamo la maschera Yangban. Che dal 1392 al 1910 era la classe sociale più importante nata durante la dinastia Joseon, fatta da funzionari della Corea tradizionale, e che prese gradualmente forma sotto la dinastia Yi: il termine, che letteralmente significa due classi, indica quindi le due funzioni, civile e militare secondo le quali erano divisi. Gli Yangban detenevano anche la proprietà della terra e avevano il diritto esclusivo a partecipare agli esami, di tipo cinese, per l’accesso alle cariche pubbliche.

Oggi la maschera viene usata nel teatro, ed è una malcelata critica alla classe nobile corrotta e che si accusa di essere incompetente, assumendosi quindi la funzione di denunciare le diseguaglianze presenti nella Corea del Sud.
Insomma, un ricchissimo background culturale forse ancora più affascinante e impervio del povero, “semplicistico” Salvador Dalì: tutto molto bello, certo, ma purtroppo poco sincero.
Perché quello che alla fine manca a questi episodi de La Casa Di Carta -Corea, che poi è anche scritto bene, e politicamente intenso, e ideologicamente ricco, è proprio la sincerità.
Che spesso, in questi tempi soffocati da rifacimenti e rimaneggiamenti, si traduce anche solo nell’urgenza di dire qualcosa, di trasmettere un pensiero che non debba essere per forza unico e originale ma che possa però trasformarsi in un’opera immersa nel proprio tempo e soprattutto con un senso.