Io e Spotty, opera seconda di Cosimo Gomez, racconta l’incontro tra Eva, Michela De Rossi, studentessa che soffre di attacchi di panico, e Spotty, un cane fuori dal comune. Spotty non abbaia e non ringhia, ha la statura di un essere umano e, soprattutto, nasconde dentro di sé Matteo, Filippo Scotti (premio Guglielmo Biraghi per È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino). È stato definito dagli autori «commedia romantica», ma c’è ben altro. È il racconto coinvolgente di emozioni complesse.
Il film è prodotto da Mompracem, Carlo Macchitella, Manetti bros. e Pier Giorgio Bellocchio con Rai Cinema. Adler Entertainment . In streaming ora su Prime Video.
Io e Spotty, oltre la «commedia romantica»
Durante la conferenza stampa, la direttrice Alessandra De Luca ha osservato che l’aspetto più delicato del film è il tono. E in effetti si tratta di una vicenda non facile da realizzare sul piano drammatico. Eva studia giurisprudenza e cerca lavoro; posta un annuncio come dogsitter e viene contattata da Matteo, un giovanissimo animatore di cartoni animati che, dopo il lavoro, diventa Spotty.
Michela De Rossi è una brava attrice, interpreta un personaggio intelligente e gestisce le crisi di panico con disinvoltura e credibilità. Spotty, con il costume di Ginevra De Carolis, è una presenza al contempo tenera e inquietante.
L’atmosfera del film è retta dalla colonna sonora di Pivio e Aldo De Scalzi, Acmf: uno stillicidio di note morbide, malinconiche e vibranti. I colori freddi della pellicola allenano l’occhio alla corretta comprensione degli eventi, finché la storia, nel suo sviluppo, raggiunge un certo tepore: in una scena riscaldata dalla luce del tramonto, Eva e Matteo-Spotty, giocando a palla, raggiungono un’intesa e iniziano ad allentare le rispettive catene. Alle prime musiche temperate succedono le canzoni originali di Violetta Sironi e Ivan Silvestrini. Attraverso la colonna sonora, il regista riesce nel suo intento di «mantenere il film allegro anche nella tragicità».
Io e Spotty è dedicato alla memoria di Anna Lombardi, costumista del primo film di Gomez, e al regista e amico Alessandro Valori.
Intervista al regista
Cosimo Gomez ha iniziato la sua carriera professionale come assistente scenografo, lavorando nell’opera lirica e poi con Ermanno Olmi, Giuliano Montaldo, Franco Zeffirelli. A oggi ha firmato oltre venti scenografie, tra film e fiction. Brutti e cattivi, il suo esordio alla regia, è stato presentato alla Mostra di Venezia, nel 2017, e ha ottenuto sei candidature ai David di Donatello, quattro ai Globi d’oro e due ai Nastri di argento.
Nella terrazza dell’Hotel Metropol di Taormina, il regista e il suo ufficio stampa, The Rumors, ricevono i giornalisti uno alla volta. La maschera di Spotty, inquietante e divertente, occupa una sedia a sé, posta di fronte a Gomez. Il regista dirà di non essere avvezzo alle interviste, eppure ha un grande e instancabile desiderio di raccontare la realizzazione di Io e Spotty – e l’intervista, al netto dei tagli necessari, durerà quasi venti minuti. Quando il suo ufficio stampa gli farà notare che è ora di pranzo e che ci saranno molti impegni a seguire, Gomez dirà di non preoccuparsi. Ho la possibilità di raccontare aspetti di cui non si discute mai, risponde.
Come nasce il soggetto di Io e Spotty, scritto con Luca Infascelli e Giulia Morelli? In conferenza stampa hai parlato di un lavoro scientifico alla base, di una ricerca svolta con l’aiuto di una psichiatra.
L’idea iniziale è nata da un documentario, Life of the Human Pups. […] È la storia di una sorta di cosplayer, ma più radicale. Come lui, ci sono persone che si travestono da cane e fanno i loro raduni. Ce ne sono in Germania, in Inghilterra; in Italia non credo arriveranno mai. L’aspetto più incredibile è la vita di questa coppia: lui si è fatto costruire questo costume da cane dalmata che indossa in casa, la sera, dopo il lavoro. Entrambi vivono così parte della loro vita di coppia, lei lancia le palline e lui fa il cane. È impressionante.
Ci sono poi i furries, per lo più in America: migliaia di persone che amano travestirsi da peluche, anche sexy. Abbiamo visto decine di interviste. Grazie a una psichiatra abbiamo approfondito i casi più gravi: persone, come il personaggio del film, sociopatiche, che hanno costruito la propria comfort zone. Questa cosa ha un nome: disturbo schizoide della personalità. E non è così raro. Può esistere a più livelli. Parliamo di una sorta di diversità – una parola che non ho ancora capito. […]
Ma questo non è il tema del film, è un argomento, e lo stesso vale per il personaggio di Eva. Due personaggi, considerati malati dalla società, che il destino fa incontrare. Qual è la migliore medicina per loro? L’essersi incontrati. L’amore.
L’amore coterapeutico di cui hai parlato in conferenza stampa.
Di questo tema mi ha parlato la psichiatra Flavia Ratti, consulente del film. Pur essendo una commedia, non volevo fare errori sugli aspetti scientifici, sugli aspetti della malattia. […]
Nel film, quando Eva vede Spotty per la prima volta, si profila una vicenda surreale. Tuttavia vengono trattati temi reali: il disturbo di Matteo, le crisi di panico di Eva, la ricerca di lavoro. Il film è realista. C’è un tema morale, la diversità che diventa, semplicemente, complessità. Avete immaginato un risvolto educativo per questa opera?
Non siamo partiti con questa intenzione. Se pensi a un’audience giovane, in fase di crescita, che potrebbe apprendere un punto di vista giusto, allora sì, me lo auguro. Forse lo abbiamo scoperto via via. In fondo quale film non ha, anche inconsciamente, questo fine? In Brutti e cattivi il tema era la disabilità, l’idea di uguaglianza. Anche il disabile può essere stronzo. Quel film era contro il pietismo verso i disabili. Forse anche in questo caso è così.
A proposito di aspetti tecnici, avete girato con due camere a mano. Che vantaggio vi ha dato questo modo di ripresa, quale libertà?
È una sorta di linguaggio, che trascina lo spettatore in maniera naturale dentro il film. […] È una domanda che mi pongo anche io. Lo stesso essere umano non sta mai fermo, la vista ha una sorta di respiro. Forse l’utilizzo della macchina a mano ha qualcosa di naturale. Inoltre siamo sempre più abituati al linguaggio delle riprese con il telefonino, qualcosa che è entrato dentro al cinema d’intrattenimento e di finzione. Si accetta ormai che le immagini siano un po’ sporche, e per questo cominciano a piacerci. I grandi maestri di questo stile sono i Dardenne […]. La caratteristica dei loro film è che ti trasportano dentro. Stesso discorso per Kechiche. A me interessava questo aspetto.
Aspetto ben reso nella scena di gioco tra Eva e Spotty, al tramonto. I movimenti di Spotty sono estremamente naturali, animali. Chi c’è dentro il costume, a proposito?
Ecco, dentro Spotty c’è un ragazzo che si chiama Riccardo Dell’Era, parkourista. È stata un’altra sfida. Lì si rischiava l’errore più grande. Abbiamo provato mimi, break dance, vari parkouristi. Poi abbiamo trovato Riccardo, parkourista con esperienza teatrale.
Voglio aggiungere che abbiamo lavorato in un clima bellissimo. […] Se c’è qualcosa che vorrò ripetere, anche in film successivi, è la possibilità di provare molto. Affinché la personalità degli attori possa entrare nei personaggi, e viceversa. Sempre per ottenere quella verità. Io e Spotty è una storia surreale: un ragazzo si veste da cane e chiama una dogsitter. Verrebbe da ridere. Ma si parla anche di malattia. Tutto doveva essere verosimile. La stessa ripresa a mano garantisce quello sporco controllato che aggiunge verosimiglianza. Questa era la sfida e spero sia riuscita.
Il regista, Cosimo Gomez. Fotografia di Nicole Manetti.