Amuka, il documentario di Antonio Spanò, è stato presentato al festival Cinema e Ambiente di Avezzano, dopo essere stato ospite di numerosi festival e aver ricevuto premi presso le rassegne Le Grand Bivouac in Francia, il FilmFest Bremen in Germania, Leonid Khromov International in Russia e il Riviera International in Italia. Il regista, trentaseienne, aveva già vinto nel 2019, sempre ad Avezzano, il premio miglior cortometraggio con Animal Park. Come accadeva nel suo lavoro precedente, anche quest’anno, all’interno del festival diretto da Paolo Santamaria, Spanò racconta la Repubblica democratica del Congo, concentrandosi sui contadini e allevatori congolesi e sull’organizzazione del loro lavoro.
Amuka, la liberazione attraverso il lavoro
La cornice introduttiva sugli ultimi sessant’anni di storia congolese – così come i titoli di coda – è costituita di tavole illustrate da François Henry. In breve, dopo l’indipendenza dal Belgio, nel 1960, il Congo è proclamato repubblica democratica nel 1996, dopo la destituzione di Mobutu a opera degli hutu guidati da Laurent Desirè Kabila. Dagli anni Novanta a oggi, i contadini – allo stato attuale, pari al 70% della popolazione – riorganizzano il loro lavoro attraverso cooperative e centri di produzione. Il documentario presenta i ritratti di alcuni lavoratori, in particolare la produttrice di riso Biaba, l’allevatore di bestiame Augustin, le operaie Chantal e Colette che raccolgono le palme e ricavano l’olio.
Pur non conoscendo i tempi di ripresa del film e il trascorso di Spanò nella realtà rurale, appare evidente come il regista sia ben integrato tra la popolazione. I personaggi descritti si muovono con naturalezza e non subiscono alcun condizionamento dalla telecamera, sia che vengano incorniciati in primissimo piano, durante la raccolta, sia che attraversino un paesaggio collinare, ripreso con il campo totale, sia che si radunino per contrattare il prezzo di vendita dei loro prodotti. Ciascuna immagina dimostra la giusta vicinanza del regista all’oggetto narrato.
Il giusto valore del lavoro
Il lavoro, nel racconto di Amuka, ritorna al suo valore autentico. Il lavoro non è quel lemma riciclato nel dibattito mediatico e politico, non è un valore retorico né l’oggetto di analisi tecniche. È l’insieme di sforzi, valutazioni e contrattazioni tra individui. È un fatto umano, il fondamento di una civiltà autentica, vitale. Il lavoro, per i protagonisti del documentario, comporta fatica ma non alienazione. Le immagini di Spanò hanno qualcosa di primigenio, qualcosa che offre respiro dal racconto occidentale, fatto di «indicazioni» in fatto di salario minimo, rapporti tra redditi nazionali ed europei e costo della vita e tutte le riflessioni giornalistiche che trasformano il lavoro in qualcosa di astratto.
A metà film, un lavoratore mostra il centro agricolo di raccolta della comunità: lavoratori, macchine, fertilizzante – c’è tutto, dice, ma tutto è fottuto. La fabbrica, afferma, è la metafora del paese. Dopo i sette anni di guerra, a partire dal colpo di stato di Kabila, i 3 milioni di morti e il saccheggio dell’esercito del Ruanda, il sistema contadino di queste province del Congo – Kivu del Nord e del Sud, Masisi – deve essere ricostruito. Agricoltori e allevatori cercano la propria identità, riflettono sulla loro condizione e prendono coscienza. «Siamo il 70% della popolazione» dice uno di loro. «Il Congo dipende da noi».
Spanò racconta le storie di questi lavoratori e lavoratrici, dalla raccolta dei prodotti alla contrattazione del prezzo in città – quest’ultimo sempre più a loro svantaggio. Le conquiste dei protagonisti, tuttavia, dimostrano la validità di un modello di civiltà al quale si dovrebbe tendere, dal quale si dovrebbe ripartire; un modello finalmente cooperativo e che si oppone all’ingiustizia, distante dalle frottole della competitività.
Una scena del documentario.