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Interviews

‘I tuttofare’, intervista alla regista Neus Ballús: “cercavo la realtà. E mi sono divertita”

La regista catalana racconta il casting selvaggio alla base del suo film e di come abbia mescolato commedia e documentario in un film coraggioso e irresistibile

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I tuttofare, foto di set dei tre protagonisti del film di Neus Ballus

I tuttofare di Neus Ballús riparerà il buonumore di molti spettatori in sala, dove arriva, in Italia, grazie ad Academy Two. A Locarno aveva fruttato ai due protagonisti, Mohamed Mellali e Valero Escolar, il premio per la migliore interpretazione maschile. Singolare riconoscimento di coppia per un film che racconta della loro difficoltà ad accoppiarsi – lavorativamente, s’intende: l’uno, marocchino che mal padroneggia il catalano ma assai bene i ferri del lavoro; l’altro, chiamato a giudicare lo stage del candidato collega, è uno smanettone chiacchierone, irresistibile nonostante i pregiudizi. Sullo sfondo, Pep, prossimo al pensionamento, abbozza una timida mediazione. Sei giorni di guai – Sis dies corrents è il titolo originale – li allontaneranno, per poi avvicinarli.

Ci siamo avvicinati al film, smontandolo per guardarci dentro, con una recensione. Ma l’ultima parola è della directora, la regista catalana Neus Ballús, all’opera terza dopo un bel tour di giudizi e festival con La plaga (2013, a Berlino e Torino) e El viaje de Marta (2019, ancora a Berlino, poi candidato ai Premi Gaudí). Che in comune, con l’ultimo lavoro, hanno il pallino della realtà come sorgente fluida di storie. Ne abbiamo parlato in un’approfondita intervista.

Il trailer

L’intervista: Neus Ballús racconta I tuttofare

SCELTE DI CLASSE

Con I tuttofare metti lo spettatore nelle condizioni di avventurarsi laddove non ci si aspetterebbe di trovare avventura: al seguito di una coppia di idraulici e riparatori. Questa scelta di situazione diventa un osservatorio privilegiato del comportamento umano. Perché hai trovato così interessante il punto di vista?

È molto facile rispondere. Il compagno di mia madre è idraulico; ricordo che quando avevo dodici anni, a mezzogiorno, tornava a mangiare, entrando in casa ancora sporco. Raccontava delle varie cose successe qua e là. Entrare in casa delle persone senza dar loro la sensazione di osservarle significa avere un accesso privilegiato. Purtroppo, nei confronti di chi lavora in imprese di pulizia o di vari tipi di riparatori, c’è un curioso pregiudizio: non sono considerati esseri umani intelligenti. Con loro hai una relazione puramente utilitaristica, ti servono a qualcosa. Mentre lo raccontavo, me ne dispiacevo. Lo facevo anche con una sorta di indignazione di classe. Quando loro sono in casa, te ne dimentichi e sei disposto a lasciar scoprire cose di te e del tuo luogo. Ecco perché ho trovato che questa situazione sarebbe risultata interessante.

Mi parli di indignazione, ma percepisco anche un certo piacere che hai avuto nel girare un film così, nel congegnarne episodi e microstorie. Lo confermi? Quando accade, chi guarda il film se ne accorge.

Dopo El viaje de Marta, sentivo che fare un film di finzione e trovare i finanziamenti mi sarebbe costato molto; avevo bisogno di contatto con la realtà, e soprattutto di un progetto che mi divertisse. Ecco: avevo bisogno di divertirmi. Non è possibile che chi lavora nel cinema debba sempre farlo sotto stress. Mi sono proposta di seguire un gruppo di idraulici e di usare proprio il divertimento come motore del film. Mi sono anche chiesta se fosse possibile girare in modo più rilassato mantenendo un uguale impegno di aderenza alla realtà. E credo di esserci riuscita.

UN’IDEA SELVAGGIA DI CINEMA

Per mantenere questo impegno di fedeltà al reale, hai puntato sul tuo metodo di casting selvaggio, già sperimentato in precedenza. Come hai vissuto questa fase preparatoria del film dal punto di vista creativo e umano?

È stato molto interessante. Nei miei film il casting non è un semplice casting. Il film non esiste senza personaggi. Scelgo sempre di fare questo tipo di casting selvaggio, vale a dire, di andare in luoghi dove posso incontrare le persone che mi interessano. Non amo, invece, fare una chiamata aperta, del tipo “cerco idraulici”. Così facendo, molta gente come Moha e Valero non sarebbe mai venuta a cercarmi, perché non è gente che si ponga la questione di partecipare o meno a un film. Spetta al regista andare a cercarli e osservarli.

È anche vero che così, però, la ricerca può essere complicata, perché devi scegliere strategicamente in che direzione muoverti e dove cercare.

Infatti ho avuto una grossa difficoltà: non riuscivo a trovare un’impresa di idraulici presso cui effettuare la mia osservazione. Ho allora siglato un accordo con degli installatori che davano lezioni sulle certificazioni di qualità e sull’aggiornamento della normativa. Entravo in classe, osservavo con la macchina da presa alla mano e poi invitavo i soggetti più interessanti a un incontro filmato. Qui ci tengo molto, il linguaggio conta: non a un casting, bensì a un incontro filmato. Dicevo loro di volerli conoscere meglio perché avevo in preparazione un film su idraulici e aggiungevo di voler conoscere le loro storie.

È una procedura interessante, perché così non cerchi, di fatto, i soli protagonisti di una storia che hai in mente, ma sei letteralmente aperta a scoprire storie.

Esatto. Questo casting è una ricerca di storie. Quando l’ho iniziato, del film avevo solo un’intuizione. Non c’era nemmeno l’idea di dividerlo in capitoli auto-conclusi. È sempre la realtà che deve comprovare la bontà dell’intuizione di un cineasta. Le persone che ho trovato mi hanno raccontato aneddoti e storie da cui è nata l’idea del film. Con i protagonisti ho trascorso due anni di preparazione e frattanto scrivevo la sceneggiatura. Si tratta quindi di uno script scritto per loro: con altri personaggi sarebbe stato differente.

Resto ancora su questo metodo, perché da come me lo ricostruisci e da quello che so, appuro un altro tratto piuttosto insolito: il fatto che ti sia messa in contatto con la sceneggiatrice, con Margarita Melgar (pseudonimo di Montse Ganges e Ana Sanz-Magallón) solo in fase avanzata, quando la struttura drammatica era venuta così maturando. Quali sono i vantaggi e gli svantaggi di questo tipo di percorso creativo?

Le difficoltà principali riguardano produzione e finanziamento. Per ottenere dei finanziamenti, di base, in Spagna devi presentare una sceneggiatura. Naturalmente, io l’ho avuta solo in fase molto avanzata. Per contro, il vantaggio è stato quello di aver dovuto rimediare alla mancanza di una sceneggiatura iniziale con la realizzazione di un teaser. In queste riprese montate di tre minuti circa, realizzate già durante il primo anno di conoscenza, si poteva capire dove andasse a parare il progetto. È stato molto divertente. Dopo averlo realizzato, trovare finanziamenti, compresi quelli della televisione, è stato più facile, specie per l’alta risonanza della commedia, in particolare quella di un certo livello. Ecco, grazie a questa sorta di teaser, si potevano annusare tono e linguaggio de I tuttofare.

Neus Ballús sul set de I tuttofare

Neus Ballús sul set de I tuttofare mentre impartisce direttive a Valero. © Lab Creative Studio (per tutte le foto)

Mi hai parlato della sceneggiatura rispetto al processo di produzione. Mi interessa capire, dal punto di vista artistico, quale fosse il rapporto con la sceneggiatura da parte dei personaggi. Cosa sapevano? Di cosa erano all’oscuro?

La sceneggiatura è scritta in base a quanto succede durante le improvvisazioni organizzate nelle nostre sessioni. Se il personaggio di Valero è stato costruito con tratti razzisti e di pregiudizio, è perché questo nasce da Valero stesso; lui stesso trovava naturale che nella Spagna di oggi, in una situazione come quella del film, accadessero cose del genere (si riferisce alla diffidenza nei confronti di Moha e della sua assunzione, in quanto immigrato, n.d.R.). Il film vive una simbiosi con la realtà: Valero è davvero a dieta; Moha studia davvero il catalano; Pep è davvero in pensione. La trama narrativa proviene da loro. Certo, non è la loro vita per intero: c’è una selezione.

E qui, immagino, intervengono le sceneggiatrici.

Di fatto, io davo alle sceneggiatrici del materiale crudo, proveniente dalla realtà, e indicavo in che modo potesse incastrarsi in una narrazione cinematografica. Da lì, spettava a loro proporre una struttura più classica del racconto, ma comunque sempre fortemente basata sui personaggi. Quanto a questi ultimi, non hanno mai avuto accesso alla sceneggiatura. Loro venivano preparati a improvvisare, a restare emotivamente aperti a qualunque cosa succedesse davvero nella realtà, a ricevere indicazioni senza voltarsi verso la camera o interrompere situazioni. Soprattutto, erano preparati tecnicamente a stare al gioco e divertirsi. Non dovevano mai sapere ciò che succedeva in scena, nemmeno il tipo di guasto sul quale sarebbero intervenuti. Nella squadra tecnica, c’era un idraulico che si adoperava per creare un’avaria reale, su cui Moha e Valero dovevano davvero metter mano per riparare.

LA VOCE DI MOHA

Si sono divertiti così tanto, Moha e Valero, che a Locarno hanno vinto il premio come migliori attori protagonisti. Devo però osservare che tra i due sussiste una differenza significativa. Diversamente da Valero, Moha è chiamato anche a fare da voice over, a sviluppare dei momenti di riflessione pensando ad alta voce. Di qui, monologhi suggestivi come quando Moha racconta della sua abitudine di osservare i vicini, oppure dell’arte di costruire una cucina col gioco di squadra. Non voglio arrivare al punto di trovarvi delle metafore, rispettivamente, dell’osservazione del documentarista e del lavoro collettivo e coordinato che necessita per fare un film. Ma ti chiedo: quale filosofia, quale visione della vita hai messo in bocca a Moha?

Sin dall’inizio, teaser compreso, avvertivo che era profondamente ingiusto che la storia si svolgesse solo in catalano e castigliano, perché entrambe sono lingue che Moha non domina. Io l’ho scelto perché ho trovato che avesse un’espressività interessante, soprattutto con quegli occhi coi quali sembrava che in qualche modo volesse sempre rivelarsi. A livello linguistico, tuttavia, sentivo che i suoi limiti rischiavano di dare un’immagine ingiusta non solo nei confronti del personaggio, bensì di tutti gli immigrati che parlano male la lingua e dei quali vien da pensare che siano stupidi. Non è così: sono persone intelligenti e si impegnano per imparare la lingua. Di Moha, volevo mostrare quanto fosse profondo: è un poeta, ha una forte saggezza popolare. La sua intelligenza doveva essere espressa nella lingua madre.

Ed è la voce di Moha o, in effetti, c’è anche qualcosa della tua visione di cineasta?

Abbiamo trovato un punto d’incontro nelle cose che pensiamo. Hai fatto bene a chiedere, perché in effetti l’idea della voice over l’abbiamo inserita alla fine, quando già ero a conoscenza di luoghi e temi del film. Abbiamo avuto una lunga conversazione, soprattutto su lavoro e società. Dopo averla registrata, ho trascritto le sue parole, ma in particolare quelle in cui abbiamo trovato una convergenza. Parole, altrimenti detto, in cui la sua voce coincideva con la mia.

IL MATTATORE VALERO

Vengo all’altro protagonista, Valero. Il suo potenziale comico è straordinario, e so che l’hai trovato tale per l’ovvia constatazione che tu lo abbia scelto, ma anche per il fatto di averlo a più riprese dichiarato. Ci sono vari modi, tuttavia, di esprimere la forza comica: con gesti, parole, presenza, omissioni, tempi di recitazione. In cosa pensi che Valero sia così formidabile?

Di base è un dialoghista brillante. A livello linguistico, in modo praticamente complementare a Moha, usa le parole in modo molto originale, e lo fa con naturalezza. In più, come molti lavoratori, ha qualcosa che trovo di assoluta potenza: è un bruto, di dice in faccia ciò che pensa. È qualcosa che non è facile trovare, e a cui attribuisco grande valore. Ti piace che sia scorretto, anche a rischio che sia razzista, in un mondo in cui tutti sono politicamente corretti. È qualcosa da rivendicare.

Valero è un provocatore anche nella vita reale, sta sempre lì a polemizzare. Anche con me, quando si parlava di femminismo, si rivolgeva con espressioni del tipo “ma voi donne…” (ride, n.d.R.). Mi colpisce, inoltre, che si sia costruito questo personaggio comico anche per difendersi dalle sue debolezze, la qual cosa non ha reso facile penetrare la sua realtà. Ci siamo dovuti affidare a un coach.

Per un personaggio così loquace, non c’è il rischio di dover porre un freno? Una sorta di limite agli attacchi d’istrionismo?

Il silenzio è stato un problema: non sapeva zittirsi! E tra l’altro, il suo essere comico si rivela anche nel cercare costantemente l’approvazione del suo pubblico, che in questo caso sono principalmente io. In quanto regista, per tutti sono come la madre di cui cercare il consenso. Così, dopo ogni battuta capitava che Valero si girasse verso di me per controllare se stessi ridendo! (Ride, n.d.R.) In effetti, abbiamo dovuto in qualche modo “depurare” la sua comicità. Ci siamo riusciti facendo in modo che succedessero davvero le cose e che lui percepisse il senso di realtà delle situazioni. Gli dicevamo di stare al gioco, di sentirsi grasso e brutto; creavamo una situazione seria o grave. È solo dentro la realtà che la sua commedia diventa più credibile e brillante.

Moha (in primo piano) con Pep (jn secondo piano)

Moha (in primo piano) con Pep (in secondo piano) sul set de I tuttofare

Abbiamo parlato sia di Moha che di Valero. Ora ti faccio una domanda che li mette insieme. Nella prima scena, quella in cui s’incontrano, in verità non s’incontrano: Valero è solo una voce fuori campo, non fai mai il controcampo per inquadrarlo. Potrebbe anche essere una semplice manifestazione del tuo stile, tanto più che osservo qualche scena simile anche più avanti, ma vorrei chiederti lo stesso il perché di questa opzione.

Perché è un disincontro evidente. È una forma di rottura, è un modo per dire che non riescono a stare nello stesso luogo. A livello stilistico può essere stato un po’ incidentale, in effetti, ma poi in montaggio abbiamo optato volontariamente per questa versione. Avevamo lavorato a lungo per ottenere una prima scena così. Dopo due anni di improvvisazioni, ho avuto le date definitive delle riprese, e nei quattro mesi precedenti il loro inizio, ho proibito a Moha e Valero di vedersi e comunicare. Mi interessava che tra loro ci fosse tensione e distanza. Così è stato: quando si sono incontrati dopo tutto questo tempo, la sensazione è stata piuttosto strana.

COMMEDIA, DOCUMENTARIO E DINTORNI

Ti chiedo di un altro incontro/disincontro: quello tra commedia e documentario. I tuttofare è una combinazione indefinibile dell’una e dell’altro. A livello puramente visivo, comunque, mi sembra che la matrice documentaria sia prevalente: non credo che lo spettatore, guardando il film, lo colleghi per immagini alla commedia classica.

Beh, intanto: cosa intendi per commedia classica? A mio avviso ci sono due importanti fasi della commedia nella storia del cinema. Da un lato c’è tutta la commedia visiva, originata dal cinema muto, da Chaplin, Keaton e i grandi maestri. Dall’altro, c’è la conquista della parola, che ha generato una commedia basata sul dialogo. La commedia contemporanea, esasperando questo aspetto, si basa sulla precisione dei dialoghi, su una cadenza che è diventata quasi musicale. A me non era dato ottenere una rifinitura di questo tipo, nemmeno con più riprese, perché i miei attori non sono professionisti. La mia commedia deve basarsi su altre cose.

Ad esempio?

Penso anche all’uso delle ellissi, alle situazioni irrisolte: mi sembra che funzionassero bene con un cast di questo tipo. Questo sistema filmico doveva essere al servizio dei tre personaggi principali. Volevo che brillassero. Anche la proposta fotografica e tecnica non doveva condizionarli; non ho dato loro indicazioni su dove andare, potevano muoversi liberamente. Il risultato è di stile documentario perché sceglie l’improvvisazione al posto della precisione.

Problema classico del documentarista è anche quello della distanza dai personaggi. A ben vedere, da questa calibratura, ovviamente diversamente gestita, può dipendere anche l’esistenza o meno di un effetto comico. Perché molte scene sono riprese senza avvicinarsi troppo a Moha e Valero, persino guardandoli di sottecchi tra gli stipiti di una porta nella stanza accanto?

Penso che abbia a che fare con la volontà di ottenere una commedia. Se sei troppo dentro il personaggio e ti avvicini al dramma, alla sua vita, a quello che gli capita, ti porta un materiale più denso più vicino a lui. A me interessa invece un effetto shock. Non posso entrare troppo profondamente nelle vite dei personaggi, devo tenere un punto di vista condiviso ma medio.

IL CINEMA AFFACCIATO SUL REALE

C’è un altro aspetto osservativo che mi è parso documentaristico. Nella recensione del film ti ho definito una Hopper delle Ramblas per il tuo modo di guardare con insistenza finestre, balconi, facciate, con le loro storie invisibili e, in quanto tali, inevitabilmente solitarie. Perché questa insistenza ne I tuttofare?

Non saprei, a me sembra affascinante osservare queste cose. È curioso che io abbia filmato tutto ciò prima del confinamento per la pandemia di covid, durante il quale tutti si sono messi a guardare i balconi dei vicini. Sono sempre stata un po’ voyeur. Mi piace non tanto conoscere in concreto quelle storie, quanto percepire l’inesauribilità dell’esperienza umana. Nel film è anche un atteggiamento di umiltà, come a dire che non posso mostrare tutto perché l’universo è incontenibile e posso solo far vedere alcune esperienze. Ora tocca allo spettatore come persona interessarsi agli incontri con la realtà.

Non sei per l’idea di cinema larger than life, di quelle storie che debbano edulcorare e imbellettare una realtà non interessante.

Sento che molta gente si è fatta l’idea che il cinema posso mostrare solo storie di certe persone, con assassinii o grandi storie d’amore. Io reputo invece che le storie affascinanti siano quelle da scoprire giorno dopo giorno. Mi conforta la reazione di molti spettatori dopo la visione de I tuttofare. Molte persone che esercitano lavori umili mi hanno avvicinato per dirmi che avevano delle storie interessanti su cui fare un film. Mi ha colpito, ad esempio, una persona che lavora andando in giro in quei camioncini per dipingere le strisce pedonali a terra. Ha detto che gli succedono tante di quelle cose che se ne potrebbe fare un film.

Pensi che questo cinema sia, per certi versi, democratico nel rappresentare le persone?

Non dubito del fatto che ci sia qualcuno che non si senta rappresentato da questo tipo di cinema e continui a pensare che le sue, di storie, non siano interessanti. Ma io, intanto, posso morire tranquilla, perché vedo che il cinema si è aperto a questo tipo di narrazione, ed è quanto mi basta.

Diamo per inteso, sia dalla visione dei tuoi film che da questa intervista, l’importanza della realtà nelle tue creazioni filmiche. Lasciami dire che basarsi sull’improvvisazione o sulla performance di attori non professionisti, naturalmente, è tutt’altro che insolito nella storia del cinema. So che in particolare una tua fonte d’ispirazione è il cinema di John Cassavetes. Eppure, una cosa è sfruttare la fertilità del reale per una commedia, un’altra per un dramma, come ne La plaga o in El viaje de Marta. Qual è la differenza principale secondo te?

Quando arrivo al montaggio, mi accorgo che i miei film si assomigliano. Ogni volta che intraprendo un progetto, inizio promettendo a me stessa di fare qualcosa di diverso, ma poi ritorno ineluttabilmente al mio stile. Mi piace tagliare quando ne avverto il bisogno. Mi piace fare la cineasta codarda, che fa riprese da tutte le prospettive, procurandosi campo, controcampo, reazione, dettaglio e tutto il resto. Voglio avere tutte le inquadrature! Al montaggio, però, mi accorgo di preferire che lo spettatore abbia quella sensazione di essere sempre in ritardo, di perdersi qualcosa, di imprecisione: è così che si ottiene un effetto di freschezza.

E questo vale tanto per la commedia, quanto per il dramma. Devi avere la sensazione di essere lì, e che puoi tanto vedere quanto perderti qualcosa. Non mi piace che allo spettatore venga fornito qualcosa come un decoupage perfetto, di cui si avverta l’artificio. Non dico che non ci sia artificio, ma da cineasta devo fingere che non ci sia.

Il confine tra finzione e realtà si è assottigliato al punto da insidiare la definizione stessa di documentario e portare a un’espressione sostitutiva che va prendendo sempre più piede tra i critici: quella di cinema del reale. Cosa ne pensi? Sei di quelle documentariste che preferiscono conservare il termine documentario?

Devo confessarti che per me è lo stesso. La plaga, per me, non era al cento per cento un documentario. Mi piace la realtà, mi piacciono i personaggi reali; devo usare ciò che vedo come materia prima, certo. Ma mai mi sentirei di dire che la mia sia una mostra oggettiva della realtà. Si tratta della mia volontà di narrazione, del mio punto di vista, del mio modo di giocare con una realtà che è sempre più grande. C’è un solo caso in cui conta davvero la definizione di documentario: quando mi costringono a barrare una casella nelle richieste di finanziamento. Ma dal punto di vista artistico, tutto è bugia e tutto è verità.

Se ci pensi, già Flaherty (Robert J. Flaherty, 1884-1951, regista statunitense pioniere del documentario e del cinema verità, n.d.R.) stava facendo cinema del reale e non documentario puro, eppure i suoi sono i primi documentari che abbiamo visto. Non saprei come risponderti: lascio a voi critici questo compito.

Intanto ti dico che in alcune interviste ci sono stati documentaristi che hanno voluto difendere la definizione di documentario perché ritengono che abbia a che fare con lo stabilire un patto con lo spettatore, col fare una promessa, anziché lasciarlo in balia del dubbio sul confine tra realtà e finzione.

È giusto e li capisco totalmente. A me come spettatrice sembra interessante che sia così; è vero che ci sono storie che non possono essere definite diversamente se non documentari.

CONTI IN SOSPESO E FINALI A SORPRESA

Ecco, mi parlavi del documentario La plaga, o meglio, del fatto che non fosse un documentario. Visto che condiscendi a osservazioni politicamente scorrette, mi permetto la scorrettezza di dire che La plaga ha fatto osservare che non ci fosse alcuna storia, alcuna impronta di racconto. Un noto critico italiano – ecco la scorrettezza: nelle interviste c’è quasi omertà nel citare i colleghi – ne argomentò scrivendo che aveva il problema di “non andare mai in profondità, di voler disegnare una situazione, prendendo dei momenti nelle vite di alcune persone (che ovviamente si intrecciano), senza però riuscire a dare una chiave di lettura forte”. Qual era il disegno di quel film?

La plaga non era un racconto: era un’esperienza. Potrei dire la stessa cosa de I tuttofare. Pensa che quando l’ho rivisto dopo molto tempo, poco prima di Locarno, mi sono detto proprio questo: che non succedeva niente. Mi sono detta: ma che abbiamo combinato!? (Ride, n.d.R.) Non lo ricordavo così! Ma ciò che mi resta è sempre la sensazione di un valore: quello di aver passato del tempo con delle persone. Questo è ciò che conta per me. La plaga ha la singolarità di farti passare del tempo in una certa atmosfera con dei personaggi, ed è questo che intendo per fare del film un’esperienza.

Chiudiamo con una domanda sul finale del film – che non sveleremo, naturalmente; ma raccomandiamo comunque a chi non l’abbia visto di non leggere questa domanda (salvo curiosità insopprimibile). Diciamo che c’è una circolarità ne I tuttofare, nel senso che la scena finale ricorda quella iniziale, con la differenza che insieme a Valero questa volta c’è Moha, e non Pep. Si trattava, in effetti, della chiusura di un cerchio? Ora Moha è integrato?

È curioso che tu me lo chieda, perché questo finale non era previsto inizialmente. Non era scritto così. C’era una sesta storia con un’altra riparazione. Il fatto è che, come per La plaga, il lavoro è stato organizzato così: riprese, montaggio, poi altre riprese. Questo succede perché, ovviamente, vedere il materiale montato cambia la prospettiva. Non ti nascondo che la produttrice era morta di paura. Lamentava: “ma come? Abbiamo sempre detto che il finale sarebbe stato da un parrucchiere!”. Ma io ho risposto che non avrebbe funzionato. Dovevamo tornare a qualcosa di più semplice. Ne ho parlato con Valero. Gli ho chiesto: cosa faresti a questo punto, una volta tornato a casa? Ti prepareresti un the, della pasta? E lui ha detto sì. D’accordo, dunque: è bello che siano i personaggi a dare la soluzione ai momenti creativamente difficili.

ESSERE O NON ESSERE AUTRICI

Un’appendice su un altro tipo di difficoltà: quella di essere autrici nel cinema spagnolo. Ne ho parlato in passato sia con Paula Ortiz, quando uscì il film La novia, premiato ai Goya 2016; sia con Belén Funes, a proposito del film La hija de un ladrón, anch’esso premiato ai Goya (2020), nonché ai Gaudì e a San Sebastián. Mi facevano capire che il problema delle registe non fosse tanto quello di ottenere finanziamenti, quanto di riceverli in modo selettivo: per piccoli progetti. Così, dunque, da continuare a girare piccoli film. Qual è la tua esperienza in questo senso?

È così. C’è una doppia difficoltà. Viviamo un momento apparente dolce, in cui molte produzioni di registe spagnole si stanno mettendo in evidenza. Eppure le cifre parlano chiaro: solo il 15% dei film è realizzato da donne, è una quota molto bassa. Ma facciamo molto rumore. Io ho una teoria. Si tratta di film e progetti che per essere realizzati devono passare per tanti “filtri”, e proprio per questo finiscono per avere un impatto tanto nei festival, quanto presso la critica. Dall’altro lato, i nostri budget sono ancora bassi. Questo succede perché, a dispetto del rinnovamento dei linguaggi che ha infine incorporato anche il punto di vista femminile e un modo distinto di narrare, che dà valore ai nostri film, l’industria resta fondamentalmente conservatrice.

Belén Funes mi diceva che il risultato era proprio di essere identificate con quei piccoli film. Essere, cioè, specialiste di piccole storie a cui mai assegnare un progetto in stile Marvel (anche se poi sarebbe sopraggiunto il caso di Chloé Zhao con Eternals).

Nel realizzare La plaga e El viaje de Marta, mi domandavano perché chiedessi tanti soldi. E io dicevo: perché li vale. Noi donne dobbiamo giustificare ogni cosa che facciamo, e allora qualche volta ci limitiamo a fare film con poco budget. Non si tratta di voler girare un film della Marvel, bensì del diritto a ricevere la domanda: cosa vuoi fare? Quanto ti serve per un film d’impatto globale? Molti produttori non la vedono così. Alcuni vengono da te con un progetto in mano, e io rispondo: sono un’autrice, so quello che voglio, perché non appoggi la mia visione? Su questo penso che dobbiamo restare ferme ed esigere.

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I tuttofare

  • Anno: 2021
  • Durata: 87'
  • Distribuzione: Academy Two
  • Genere: Commedia
  • Nazionalita: Spagna
  • Regia: Neus Ballús
  • Data di uscita: 09-June-2022