Colonna sonora Brought Back To Life dei Nekromantix
E dunque ci siamo!
Dopo più di due anni di covid, tra visioni online di dubbio piacere, restrizioni, passaporti sanitari ed esaurimento degli argomenti in retrospettiva da trattare che avevano reso la mia presenza scritta molto più rarefatta e latitante, finalmente tornano i festival in presenza e io, con loro, torno alla vita.
Non c’è niente da fare, come tutte le persone “resistenti” vedo nella resilienza il mio esatto opposto.
Quindi ho faticato davvero molto ad adattarmi ad un lavoro da fare online, con visioni su piccolissimo schermo.
Per non parlare delle interviste.
Insomma, in questi due anni sono riuscito a vedere su Skype il grande capo al massimo tre volte per lo stretto necessario.
L’idea di condurre un’intervista via webcam mi sembrava (e mi sembra ancora) una cosa al di fuori della mia portata.
Praticamente tutte le fatiche di Ercole concentrate sulla punta di uno spillo, fino a fargli a raggiungere il corrispettivo del peso specifico di un carro armato T-80 su Giove.
E non è solo una questione imputabile ai miei limiti con la tecnologia.
É che mi sento proprio un idiota a parlare con un computer e non riuscirò mai a realizzare che in realtà quello è un mezzo per comunicare tra persone.
Anche dopo 100 anni di covid probabilmente, all’atto di mettermi davanti ad una webcam, io sarò sempre convinto di dialogare con un ammasso di plastica e microchip.
Darwin probabilmente mi avrebbe fatto estinguere insieme ai Neanderthal qualche era geologica fa.
Ma tant’è, contro ogni pronostico io sono ancora qui, vivo, vegeto e ritornato all’azione nel migliore dei modi possibili.
Ovviamente sto parlando del Fantafestival che, anche lui contro ogni previsione, ha festeggiato quest’anno la quarantaduesima edizione.
Con buona pace di papà Darwin.
Edizione agrodolce questa, per svariati motivi.
Da un lato c’è la gioia di ritrovarsi in sala, dopo due anni che sembravano interminabili, a rivedere film, a criticarli, confrontarli, amarli, odiarli ed emozionarsi insieme.
Dall’altra, immancabile su tutti incombe il pensiero agli amici assenti.
Più di ogni altro il pensiero corre doverosamente a Michele De Angelis che ci ha lasciato ad ottobre 2021.
Autore, regista, produttore, distributore, appassionato cinefilo che tentò con successo la follia di tornare alle sale cinematografiche proiettando in 35mm. Infine direttore artistico di un Fantafestival ormai dato per spacciato, in coma profondo.
Lo prese per i capelli quando ormai ne avevano annunciato l’ultima edizione e lo riportò in vita, restituendolo all’affetto di tanti appassionati di cui lui era certamente il più entusiasta.
Ma, almeno per quello che mi riguarda, di Michele posso dire che soprattutto fu un caro amico e definendolo tale direi che ogni altro appellativo o commento sia superfluo.
Parlando con Simone Starace, il direttore artistico del Fantafestival che nelle ultime edizioni aveva coadiuvato De Angelis, vengo a sapere che in effetti non è solo per una questione di rispetto che l’edizione attuale porta la firma di entrambi.
Michele teneva molto a questa kermesse, ne comprò i diritti quando ormai era in fase di rottamazione con il solo intento di salvarla e ci si dedicava a tempo pieno.
Quando la morte lo colse il lavoro di selezione e organizzazione era già in fase avanzata.
Non è quindi mera celebrazione dire che a tutti gli effetti questo sia ancora il suo festival anche se purtroppo postumo.
E la mano di Michele si evince dando una semplice occhiata al programma.
Vistosa è la presenza di film est-europei, figlia della sua passione per il cinema di quelle latitudini.
Non è un caso che venisse affettuosamente chiamato “l’uomo nella macchina da presa” parafrasando l’appellativo che già fu dell’immortale Dziga Vertov.
E quindi partiamo dal primo film in questione.
The day I found a girl in the trash del polacco Michal Krzywicki, per la sceneggiatura di Dagmara Brodziak.
Interpretato da entrambi.
La prima cosa che vorrei dire è che questo film, che è il vincitore dell’edizione di quest’anno, conferma una volta di più la mia incompatibilità con il gusto e le opinioni correnti.
Che sia io un giurato, che sia un critico, oppure che mi ritrovi a vestire i panni di un semplice spettatore, il film che piace a me non vincerà mai un premio.
Di contro, il film che mi lascia più dubbi è generalmente quello che incassa le maggiori simpatie.
A onor del vero, devo dire che non è questo il film in cima alla mia lista nera, però sempre per onestà devo dire anche che sono parecchie le perplessità che mi lascia.
Già a metà del festival, ascoltando il chiacchiericcio di corridoio in aggiunta al fatto che veniva riproposto continuamente e da chiunque alla mia attenzione come i peperoni per cena, avevo già capito come sarebbe andata a finire.
Nonostante questo la mia opinione non è mutata di una virgola, né i miei dubbi sono stati scalfiti.
Vabbè, lo so che sono un bastian contrario!
Ma fermiamoci un attimo e ascoltiamo le ragioni del diavolo.
Dunque, prendiamo un film polacco, quindi per sua natura lento (eh già… Bruce Willis non ha parenti a Cracovia), strutturiamolo come un film distopico, quindi lentissimo e per finire innestiamolo nel filone “road movie” e avremo The day I found a girl in the trash.
Ovverosia un film lentissimo al cubo.
Di bello ci sono certamente le gambe di Dagmara e il fatto che contrariamente ai miei timori il film è molto critico verso le posizioni reazionarie e parafasciste del governo polacco e il conseguente modo di pensare dominante in quella società.
Anzi a dirla tutta è un film di denuncia molto coraggioso, specie se consideriamo che viene fatto in un paese autocratico, militarista e per nulla tollerante con minoranze e dissenso.
Quindi tanto di cappello per le intenzioni degli autori che però ahimè si perdono a causa della scarsa cognizione dei propri limiti.
Se hai un budget limitato, anzi limitatissimo, a meno che tu non sia George Lucas, non dovresti nemmeno provare a tinteggiare le atmosfere urbane con suggestioni alla Blade Runner.
Un po’ di pioggia, qualche cumulo di spazzatura e il fatto che il film parli di androidi (tecnicamente uomini robotizzati, ma siamo lì) non ti daranno la magia di un Ridley Scott che oltre al suo genio può contare su una macchina organizzativa dalla potenza di fuoco e di spesa praticamente illimitate.
Piuttosto cercherei di lavorare sul materiale umano che ho, evitando di trasformare il virtuosismo di alcuni piani sequenza in errori di autocompiacimento.
Il film è geneticamente lento e ci sta, ma un occhio attento benché dotato di poche risorse finanziarie può sempre migliorarne il ritmo con piccoli accorgimenti e qualche taglio.
Magari doloroso per l’autore che vedeva nei 4 minuti di una singola sequenza la sua “cappella sistina”, ma piacevole e meno faticosa per lo spettatore che la troverà più godibile se ridotta a 3 minuti.
Ma non voglio sembrare troppo cattivo.
Michal e Dagmara sono al loro secondo lavoro e considerato sia questo che il budget, meritano di certo la medaglia al merito.
Forse magari non il pipistrello d’oro…
Quello lo avrei dato a 2551.01 che già per il titolo meriterebbe una menzione speciale e che, invece, tranne a me non è piaciuto a nessuno.
Ma la cosa non mi turba, ormai sono abituato ad essere perennemente la minoranza di uno e perciò vi sorbirete le sperticate lodi di questa piccola perla austriaca per la regia di Norbert Pfaffembicher.
Ora, da un autore il cui nome non sono riuscito a pronunciare nemmeno dopo un’ora di prove allo specchio è lecito aspettarsi un film in cui non ci si capisca niente nemmeno dopo 65 minuti di visione, muta e in bianco e nero.
Ed infatti è proprio così!
Eppure…
Ho trovato geniale l’idea di reinventare completamente il soggetto de “Il monello” di Chaplin e sbatterlo in un universo post-apocalittico, dove si muovono i personaggi più grotteschi evasi dagli incubi di celluloide più truci, come i commensali del pasto bestiale di “Non aprite quella porta”, e anche quella di farli incontrare con i personaggi di incubi ahimè più reali come i prigionieri iracheni torturati dagli americani nel carcere di Abu Graib.
Il tutto in un decoupage rubato ai video dei Bauhaus raccolti nell’antologica “Archive”.
Da Telegraph Sam a Bela Lugosi is dead, passando per Rosegarden Funeral, c’è tutto.
Fotografia in bianco e nero sgranata, fumosi sotterranei in laterizio i cui spazi sono indefiniti, claustrofobici corridoi fiocamente illuminati da faretti di un bianco accecante che spezzano le ombre senza soluzione di continuità.
Qualcuno mi fa notare che più che un film, si tratta in realtà di un lungo videoclip, dove la musica detta i tempi della narrazione.
Ed è assolutamente vero.
Proprio per questo lo trovo geniale e seducente.
In fondo sono un vecchio ragazzo degli anni ‘80, una volta capite quali sono le mie leve emotive, ci vuole davvero molto poco per comprarmi.
Poi, proseguendo sui film in concorso, ci sarebbe Knocking di Frida Kempff su una psicotica svedese lesbica, con la passione per le Birkenstock e i tuffi nei cassonetti della mondezza a cielo aperto, che rompe le scatole ad un intero condominio di edilizia popolare, accusando a turno gli inquilini di omicidio, toppando clamorosamente ogni volta per i 78 minuti di proiezione, finché per la legge dei grandi numeri e dando fuoco al palazzo, alla fine non ci azzecca, lasciando però senza tetto tutti i condomini precedentemente accusati.
Che dire?
Il film è proprio svedese, il che vuol dire che se c’era dell’ironia io non l’ho colta e se c’era dell’azione deve essermi sfuggita mentre dormivo rumorosamente in sala.
Per finire la carrellata dei film in concorso ho tenuto per ultimo “Dead Bride” di Francesco Picone.
Imbarazzo…
Io a Picone gli voglio bene, fui tra i pochi a recensire i suoi primi e misconosciuti lavori, definendoli violenti, creativi, originali e pregni di quella tipicità che fece grande il cinema di genere italiano.
Ma ahimè, da qualche anno a questa parte Francesco s’è messo in testa di “fà l’americano” a tutti i costi e su questo terreno, mi spiace io non riesco proprio a seguirlo.
Intendiamoci, tecnicamente sono film perfetti, anzi direi che con il basso budget con cui abitualmente lavora, Picone fa degli autentici miracoli.
Peccato che poi si risolvano in opere di puro manierismo, un quasi vuoto sfoggio di erudizione e competenza operativa, ma sostanzialmente privi di anima.
Mi spiego parlando nello specifico di questo film che esternamente è una bella scatola, confezionata a puntino ma che al suo interno non contiene null’altro che un copia e incolla di vari film alla moda in America.
Troviamo un blob composto da pezzi de “L’esorcista”, “Amtiville Possession”, “E.S.P.” e tutta una caterva di altre produzioni d’oltreoceano imperniate sui filoni “possessione diabolica” e “case infestate”.
Un collage ruminato e masticato senza nemmeno il minimo tentativo di rielaborazione e per di più condito per l’ennesima volta con la provinciale scelta di girare un film italiano in inglese.
Ora, lo ammetto, sono certamente prevenuto.
Io faccio parte della generazione bruciata e anche se a me è andata in fondo molto meglio che a tanti altri miei coetanei, non riesco a non provare un pavloviano senso di diffidenza ogni qual volta sento un abuso non giustificato dell’inglese.
Portate pazienza, ma è dai primi anni ’90 che ogni volta che le istituzioni ci vogliono fregare sparano anglismi a raffica per confondere le acque e indorare le pillole.
Da peace keeping a recovery fund, passando per jobs act, spending rewiew, governance e choosy è stato un lungo trentennio di fregature propinate a colpi di un inglese maccheronico che ha preso il posto del “latinorum” di Don Abbondio.
Un po’ di prevenzione credo sia il minimo sindacale.
Ma al di là delle considerazioni personali, anche il pubblico in sala non ha mancato di esternare il proprio disappunto alla maniera del popolo bruto.
Tra grugniti che minacciavano di esplodere in una vampa di contestazione degna dei migliori disturbatori dell’epoca d’oro del Fantafestival, il povero Picone, impavido, mostra il petto al plotone di esecuzione e cerca di domare la plebe in subbuglio.
“ahòòò ma che ce voi dì co’ sto firme?” “io nun c’ho capito gnenteeeee” e ancora “ ma come parli? Perché nun l’hai fatto in italiano sto coso?”
Questo più o meno il tenore dei commenti espressi dagli Orchi di Mordor presenti tra il pubblico, già eccitati per aver fiutato l’odore del sangue e io che, come ho detto, ho simpatia per Francesco e so che è molto dotato, cerco di venirgli in aiuto con un assist.
Gli spiego che il pubblico estero è goloso delle nostre produzioni proprio per le loro peculiarità.
Ci sta benissimo che un film non debba necessariamente avere un risvolto sociale e morale, che possa essere una semplice fiaba nera da godersi senza altre aspettative che non un piccolo brivido di paura lungo la schiena.
Ma la fiaba forse è meglio che uno la racconti a modo suo, non cercando di imitare la narrativa di qualcun altro, sperando così di risultare più accattivante.
I problemi della produzione in Italia sono ahimè ben noti a tutti, ma non è rinunciando a priori che la cosa migliorerà.
Mi metto in gioco in prima persona, dicendo che come critica io e molti colleghi siamo pronti a sostenere una scelta autoriale originale e coraggiosa, ma qualcuno deve pur cominciare a osare, perché le cose non si fanno da sole.
E comunque è sempre meglio provare a ritornare all’idea di un cinema di genere di produzione italica che non persistere nel cercare di vendere gelati agli eschimesi.
Pratica che oggettivamente non ci ha portato a grandi risultati negli ultimi 20 anni.
Oltretutto provate voi a dire ad un francese di girare in inglese un film come “La Horde”!
È molto probabile che vi dia in pasto agli zombie solo per aver pensato quella che i nostri cugini considerano niente di meno che un’eresia.
Che dire?
Io ci ho provato, ma di fronte all’ennesimo mantra sulla necessità di confezionare un prodotto yankee per assecondare l’ossessione di far cassetta all’estero, alzo le mani e lascio Picone all’opinabile affetto della vox populi che mai come questa volta coincide con la vox dei.
Ovviamente auguro a Francesco ogni bene per questo film che rimane un’opera di maniera tanto onesta, quanto modesta.
Ma soprattutto gli auguro di ritrovare la grinta anarchica dei suoi primi lavori e un produttore coraggioso che sappia valorizzarla al meglio.
Perché il talento se c’è (e nel caso di Picone c’è) va sempre usato.
Finita la panoramica dei film in concorso e delegata l’intera sezione dei cortometraggi al collega Roberto che insieme a me ha sfidato la canicola estiva per coprire il Fantafestival, diamo una rapida occhiata alle altre categorie del festival degne di nota.
Prima cosa le anteprime.
Va detto che sono state volutamente tenute fuori concorso, sia perché sono tutte opere di cineasti navigati e vecchie volpi dei set, sia perché tutte le proposte, avendo dietro delle produzioni ragguardevoli, avrebbero vinto a mani basse un’impari tenzone con le opere indipendenti o quasi.
Il livello è altissimo ovunque si guardi.
Apre le danze “Inexorable”, produzione franco/belga del 2021 di F. Du Weltz.
Film fortemente voluto e cercato da De Angelis, una perla macabra che potrebbe un giorno sconfinare nelle leggende sui film maledetti.
Sia per la sua difficile reperibilità, sia per le tematiche crudeli e morbose che tratta, dall’omicidio, alle ossessioni fino all’incesto.
Argomenti crudi, tenuti insieme dal trait d’union di uno scrittore in crisi creativa, con alle spalle un matrimonio di convenienza con una ricca editrice, perseguitato dalle morbose attenzioni sessuali di una giovane ammiratrice che poi si rivelerà una figlia non riconosciuta.
Nei boschi del Belgio si dipana una storia efferata resa però a pieno da un’azzeccata alchimia di immagini crudeli, rese con la delicatezza di un quadro fiammingo.
Una vera sorpresa la riserva “The Innocent” di Eskil Vogt.
Un melting pot produttivo in cui gli scandinavi la fanno da padroni.
E in effetti dopo un inizio volutamente fiacco, pensavo di trovami di fronte all’ennesimo film svedese, capace di uccidere un bradipo narcolettico con i soli titoli di testa, e invece con un crescendo di colpi di scena la storia ci fa precipitare in un vortice di situazioni politicamente scorrette che non risparmiano nemmeno la protagonista positiva del racconto che si diverte a tormentare la sorellina autistica, infilandogli schegge di vetro nelle scarpe.
Arrivati a circa un terzo del film siamo ormai a pieno nel filone horror bambini terribili, genere che vanta nella sua storia titoli ormai divenuti leggenda come “Il villaggio dei dannati” e “Scanners”, ma con quel tocco frizzante in più che spazza via ogni traccia residua di buonismo, persino razziale.
La narrazione aumenta il ritmo in forma esponenziale e travolge con un finale quasi western dove invece delle pistole i protagonisti duellano usando i loro poteri psichici.
A titolo personale posso dire che ho trovato particolarmente disturbanti le scene di violenza sugli animali, soprattutto gatti, che mi hanno fatto desiderare ardentemente l’epilogo al quale si arriverà alla fine della storia, lasciando andare lo spettatore con un senso di soddisfazione per veder severamente punito chiunque osi far del male agli adorati felini.
In buona sostanza un film per famiglie che dà modo a tutte quelle persone che ancora non hanno fatto un figlio di riflettere attentamente prima di compiere questa insana follia e offre lo spunto di riflessione per gli incauti che già son diventati genitori sulla possibilità di rinchiudere i loro pargoli in qualche severissimo collegio teutonico, prima che sia troppo tardi.
Tra le varie sezioni ci sarebbe anche quella dedicata al cinema ucraino.
Argomento spinoso che offrirebbe il fianco a numerose stoccate, tra cui, non ultima, lo spacciare per ucraino un film del 1986 (“Duel”), quindi sovietico.
Capisco che in una manifestazione patrocinata dal Comune o dalle istituzioni pubbliche gravi anche una certa ipoteca politica che possa permettere certe pressioni relative alla contingenza.
Purtroppo mi conosco e so che se vedo qualcosa che proprio non mi piace, non riesco a passarci sopra e la devo far presente.
Tuttavia provando un affetto infinito per il Fantafestival e non volendo correre il rischio di trovarmi a visionare il lavoro di qualche appassionato “lettore di Kant” ho preferito eliminare alla radice ogni possibile ragione di polemica evitando accuratamente ogni proiezione ucraina.
Ho fatto un tentativo per il film “Amulet”. Un po’ per l’orario e un po’ perché mi veniva proposto come una prima visione assoluta di un film rarissimo, mi sono convinto a dargli una possibilità.
Ho resistito per un po’ alla visione di un film che certamente già di suo non è un capolavoro, finché non ho visto celebrate su grande schermo le prime, cupe bandiere rossonere di Pravy Sektor e lì ho abbandonato silenziosamente la sala in preda ad un rigurgito antifascista (cit. 99 Posse).
Mi considero una persona aperta al confronto, anche su posizioni diverse dalle mie, ma ci sono paletti, come lo sdoganamento dei movimenti neonazisti che proprio non riesco ad oltrepassare.
Magari sono troppo rigido io, ma sono fatto così, anche a rischio di finire in qualche lista pubblica di proscrizione come quelle che alcuni quotidiani nazionali si divertono a compilare in questi giorni.
Ma l’aver abbandonato la sala mi ha permesso di assistere ad un siparietto interessante.
Un nutrito gruppo di giovanissimi disturbatori non proprio entusiasti del film (onestamente noioso) si era lanciato in una gara di ironici commenti.
Anche sottotono se vogliamo rapportarli a quelli a cui ci avevano abituato i tempi d’oro del Fantafestival.
Ma sufficienti ad indispettire l’ipersensibilità di qualche spettatore, vorrei dire attempato, ma essendo ad occhio un mio coetaneo, mi limiterò a definire dal difficile carattere, che ha ritenuto giusto farsi giustizia da solo a suon di gavettoni.
Film interrotto, luci in sala e cacciata in par condicio sia dei ragazzetti che del nostro suscettibile Clint Eastwood alla matriciana.
Ora, avendo visto tutta la scena da esterno, mi preme dire un paio di cose a questo signore con la speranza che mi legga:
La prima, estrarre il cellulare esclamando con tono piccato “lei non sa chi sono io” è una battuta stantia persino per un film di Pieraccioni e ti rende ancora più ridicolo di quanto tu già non abbia fatto tirando un gavettone ai parvuli.
La seconda, un gavettone è una risposta esagerata a qualche battuta che mi pare abbia dato fastidio solo a te.
Se lo avessi fatto a me ai bei tempi in cui ero parte dell’infernale legione dei disturbatori ti avrei infilato la testa nel water, tenendoti appeso per le caviglie e avrei tirato lo sciacquone fino ad ottenere piena soddisfazione.
Terza ed ultima cosa, sei nella decade dei 40, sei un amante del cinema o almeno ti professi come tale, sei al Fantafestival, un appuntamento con la sua socialità, la sua storia e le sue tradizioni.
Renditene conto!
Personalmente credo che sia solo un motivo di gioia vedere un folto gruppo di adolescenti venire al cinema in un’assolato pomeriggio estivo a confrontarsi anche con film difficili invece di starsi a lobotomizzare tutto il giorno davanti ad uno smartphone.
Vedere i film, commentarli, amarli, odiarli, deriderli, criticarli, magari anche ad alta voce è una forma di interazione che presuppone interesse e visione critica.
A ragazzi del genere, il tappeto rosso bisognerebbe stendergli, altro che gavettoni.
Io ci penserei molto bene prima di stigmatizzare queste attitudini.
O credi forse che senza il sangue fresco delle giovani generazioni le sale cinematografiche resteranno aperte solo per te?
Potrebbe venire il giorno in cui scoprendoti vecchio, rimpiangerai di aver reagito con rabbia ad una situazione che magari poteva essere risolta con un sorriso.
Finita la ramanzina torniamo ai film.
La retrospettiva sul cinema dedicata alle donne protagoniste del cinema horror è stata gustosa, con piccole perle autoironiche e dissacranti come “Femmine carnivore” in cui si narrano le vicissitudini di un gruppo di ricche ninfomani antropofaghe riunite in una clinica che cura le loro turbe psichiche a suon di carne umana, ovviamente di maschi alpha.
Invece “Il grande inquisitore”, un grande classico con Vincent Price, è come un vecchio pugile.
Nonostante l’età è sempre in grado di sferrare il gancio che ti manda a tappeto!
Chiude questa panoramica un rapido colpo d’occhio sull’ultima sezione retrospettiva.
Quella che parla di un matrimonio antico e felice.
Rock e cinema fantastico.
Il primo film in questione è “Heavy Metal” di Gerald Potterton del 1981 e quando dico primo, in questo caso intendo il primo il molti sensi.
È infatti il primo lungometraggio in animazione ad usare l’heavy metal come elemento essenziale della narrazione.
Ovviamente visto l’anno di produzione ci riporta ad un’epoca in cui il termine metal aveva un’accezione vastissima e comprendeva al suo interno diverse sfumature che oggi chiameremmo sottogeneri.
Introdotto dal critico d’eccezione Domenico Vitucci (è sempre un godimento sentirlo parlare) è un prodotto monumentale, che grazie alla musica unisce momenti epici ad altri distopici.
Certo all’epoca la visione era probabilmente pensata per essere coadiuvata dall’ausilio di qualche sostanza, o quantomeno da una robusta sbronza.
Ma nonostante tutto riesce a risuonare potente anche in tristi tempi di sobrietà come i nostri.
Il secondo mostro sacro proposto dalla sezione è “Il fantasma del palcoscenico” di Brian De Palma.
Il film non ha bisogno di alcuna presentazione e forse nemmeno di altri commenti.
La storia avrebbe già decretato la sua grandezza.
Ma due parole voglio dirle sul formato.
Chi vi scrive possiede quest’opera sia in VHS che in DVD, l’ha vista decine di volte e senza tema di fallo può dire di conoscerla a memoria.
Eppure alla mia prima visione su grande schermo è stata un’epifania.
Come se non lo avessi mai visto prima, sono stato investito da una serie di particolari e dettagli fino ad oggi sconosciuti.
Se avete la possibilità di fare la mia stessa esperienza non ve la lasciate sfuggire, perché ne vale assolutamente la pena.
Volutamente ho lasciato per ultimo il “Rocky Horror Picture Show”.
Anche questo è un film che ho rivisto decine di volte, su grande e piccolo schermo. Persino a teatro.
Eppure il legame affettivo che mi lega a questo film, al suo immaginario così kitsch, ai miei personali ricordi della prima adolescenza, quando lo guardavo in VHS insieme ai miei primissimi amici, è sempre fortissimo, come sono forti le emozioni che riesce ancora a suscitarmi.
Onestamente mi sarei aspettato una sala gremita che purtroppo non c’era, ma quando siamo arrivati al momento del “Time Warp”, complice il buio della sala, una lacrima di emozione e di nostalgia mi è sfuggita… forse anche più d’una.
Poco male, perché dubito che qualcuno mi possa aver visto.
La cosa peggiore però è che temo di aver cantato.
Se qualcuno mi dovesse aver sentito ne approfitto per porgergli le mie più sentite scuse.
Colonna sonora:
Time warp... ovviamente!