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FESTIVAL DI CINEMA

5ª edizione Visioni Fuori Raccordo: “This is my land…Hebron” di Giulia Amati e Stephen Natanson

Giulia Amati e Stephen Natanson, hanno realizzato il docu-film “This is my land…Hebron”, decidendo di riprendere, con la videocamera e l’occhio attento del testimone partecipante, uno dei luoghi-simbolo dell’occupazione israeliana

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il

 

Anno: 2010

Durata: 72’

Produzione: Blink Blink Prod

Genere: Documentario

Regia: Giulia Amati/Stephen Natanson

Storie di vita vissuta nei territori occupati: prevaricazioni, violazioni dei diritti elementari e strategia della tensione sono il pane quotidiano ad Hebron, uno dei luoghi-simbolo dell’occupazione israeliana, terra contesa per eccellenza, dove i coloni occupanti, ebbri di fanatismo patriottico-religioso vessano, giorno dopo giorno, ora dopo ora, i palestinesi occupati, alimentando l’odio reciproco fra i due popoli ed inculcando la cecità ed il pregiudizio anche ai bambini, ed è normale vedere piccoli ortodossi che insultano e prendono a sassate anziane signore arabe barricate dietro gabbie protettive.

Ma che vita è mai questa? Forse anche per rispondere a questa domanda due coraggiosi registi, Giulia Amati e Stephen Natanson, hanno realizzato il docu-film This is my land…Hebron, decidendo di riprendere, con la videocamera e l’occhio attento del testimone partecipante, immagini ed eventi, ascoltando punti di vista plurali, parti in causa, giornalisti, membri di organizzazioni umanitarie, soldati pentiti divenuti accompagnatori turistici nei territori.

Il documentario, vincitore del Festival di Bellaria e di una menzione speciale al MedFilm Festival 2011, è stato presentato presso il Nuovo Cinema Aquila al Visioni Fuori Raccordo Film Festival, diretto da Luca Ricciardi con il coordinamento artistico di Giacomo Ravesi (il Festival è realizzato grazie al contributo della Regione Lazio, al sostegno della Roma Lazio Film Commission e dell’Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico). Al termine della proiezione, i due registi sono stati intervistati da Andrea Billau, giornalista di Radio Radicale, esperto di temi legati alla Palestina ed all’immigrazione, sull’esperienza vissuta ad Hebron, davanti ad un folto ed attento pubblico: entrambi hanno dato prova di grande umanità, intelligenza e compartecipazione con eventi tanto tristi e folli, tanto più vissuti di persona, da apparire impensabili in un’epoca come la nostra. Riassumiamo di seguito i principali temi del dibattito, senza pretesa di esaustività: la forza dei contenuti sociali, etici e (inevitabilmente) politici non ha bisogno di perfezionismo, proprio come le immagini del documentario.

Come è nata l’idea di questo documentario?

(Giulia): Ho ricevuto la proposta di insegnare film-making a Hebron e ci sono andata: una volta lì ho iniziato a girare, a vedere ed ho conosciuto molte persone significative, come Yehouda, il ragazzo che, dopo aver lasciato l’esercito perché non approvava ciò che accadeva ad Hebron, ora accompagna i turisti a vedere con i loro occhi cosa succede. Poi ho chiamato Stephen, perché non sono un tipo troppo coraggioso, ed abbiamo cominciato a girare, ho ascoltato le organizzazioni umanitarie a favore dei palestinesi ed ho inserito il punto di vista dei coloni. Ho raccolto tantissimo materiale ed ho impiegato tre anni per montare il documentario. Non è stato facile affrontare una questione così controversa e delicata.

Parlateci della situazione di Hebron ….

(Stephen): Hebron sta logisticamente al centro dei territori occupati, ed è abitata dai coloni più oltranzisti e fanatici che credono nel grande Stato d’Israele e vogliono che i coloni se ne vadano. Il succo della questione è la collocazione dei coloni e l’identità. In realtà è stato ricostruito un ghetto, e si è creato il bisogno di un nemico per rafforzare l’identità. I palestinesi non possono fare nulla, se si ribellano vengono maltrattati, mentre i coloni vengono giudicati secondo il diritto civile. Ci sono oltre 2000 soldati e costano carissimi: nessuno sta ad Hebron perché è un posto piacevole, i coloni hanno forti sconti sui mutui ed intendono controllare completamente il territorio, i palestinesi difendono la  terra degli antenati, per loro resistere, restare, è una forma di lotta ma alcuni se ne vanno perché è troppo dura, non possono portare i figli a scuola, né andare in ospedale a causa dei blocchi, ed i loro parenti possono essere arrestati senza motivi concreti.

Quali scelte avete operato nella narrazione documentaristica degli eventi?

(Giulia e Stephen): Non abbiamo chiesto permessi, è stato un vero giornalismo in scarpe da tennis, facevamo i finti tonti e raccoglievamo tutte le risposte. Abbiamo lavorato sulla documentalità, sul testimoniare: tra Israele e Palestina c’è una griglia. Ricorrere alle immagini può aiutare a semantizzare. Non abbiamo edulcorato quanto visto, non volevamo porre un diaframma a livello emotivo verso le sensazioni provate, contro la strategia dello svuotamento, che evita le news e le altre fonti d’informazione ed alimenta l’odio. Del resto i coloni hanno paura e questo sentimento si trasforma in odio, l’odio serve a gestire il potere, insieme alla religione, per controllare gli spazi territoriali. Il governo non si vede, non si scopre, ma questa situazione fa comodo a molti.

E dopo, cosa è accaduto con questo documentario così ‘difficile’?

(Giulia e Stephen): Per molto tempo è stato rifiutato dai Festival, poi finalmente è stato selezionato dal Festival dei Popoli ed ha vinto alcuni premi. A Roma il “Martin Buber” ha chiesto a Nanni Moretti di fare una proiezione aggiuntiva, e poi c’è stata New York, con una proiezione alla “Hebron Foundation” di Brooklyn, un vero banco di prova per noi, ma è andata benissimo. Ora abbiamo un po’ di timore a tornare in Israele, Luisa Morgantini è una sostenitrice del documentario ma è difficile portarlo nei territori occupati.

Elisabetta Colla

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