Mario Martone: il suo cinema, i suoi film, il passato e il presente
una filmografia critica dell'opera di Mario Martone non può che partire dal disorientamento dello spettatore indotto dal regista: film e storie perse nel buio del passato
Il cinema di Mario Martone è un unicum coerente e quasi impenetrabile, tanto denso di significato: Nostalgia è stato applaudito a Cannes ed è solo l’ultimo tassello, in ordine di tempo, di un percorso stratificato e bellissimo.
Il continuo disorientamento dello spettatore e l’offuscamento del punto di visione del protagonista: intorno a questi due perni si svolgono i racconti del cinema di MarioMartone, teatrante irrimediabilmente attratto dalla passione del grande schermo.
E in Martone rivivono le due grandi caratteristiche di cinema e teatro, cioè l’attenzione per la maschera, per la sua essenziale peculiarità vista in relazione a tutto il contesto; e la capacità di intridere le storie di colori e di odori, di inspessire la pellicola attraverso l’utilizzo specifico delle tonalità cromatiche delle città che racconta, Napoli su tutto.
E sia il disorientamento dello spettatore, sia la mancanza del punto di visione convergono nei personaggi e nelle storie dei suoi film, sempre alla ricerca di una verità che gli sfugge tra le mani e che quasi sempre è nascosta nel passato (quello collettivo o quello personale), dal privato al pubblico.
Probabilmente, se il risultato del suo cinema (Nostalgia è l’ultimo film arrivato in sala, ad oggi, e ne è l’esempio luminoso) è così polimorfo e prismatico, il merito è anche non tanto della sua origine teatrale -Mario nasce come fondatore del gruppo Falso Movimento (prima Nobili di Rosa) e Teatri Uniti– quanto del suo aver incessantemente cercato, sul palcoscenico e fuori, nuove forme espressive, che sfociano nel 1992 nel suo primo lungometraggio, Morte di Un Matematico Napoletano, biografia di Renato Caccioppoli, scienziato dotato di enorme talento ma incline a un tormento che lo porterà fino al suicidio.
Ma è probabilmente il mediometraggio successivo, Rasoi, che descrive meglio del suo esordio la specificità della ricchissima filmografia che verrà: c’è lì infatti tutta la doppiezza di Napoli, arcaica e moderna insieme, affilata come un rasoio appunto nel suo non essere mai univoca. Una Napoli onirica e vicina, ma inafferrabile, che sarà al centro delle sue successive riflessioni, una città mondo che abbaglia per la sua luminosa bellezza, ma fino a far sanguinare gli occhi e diventare ciechi.
A partire da L’Amore Molesto, il capolavoro con Anna Bonaiuto del 1995, sorta di controparte femminina di Nostalgia, nel quale la protagonista femminile compie lo stesso percorso del Favino nel film presentato a Cannes nel 2022, complice le parole di Elena Ferrante che nei suoi libri eviscera le interiorità del doloroso legame madre/figlia.
Martone si innamora perdutamente delle atmosfere malate del romanzo e traduce in immagini le sensazioni di cui è permeato il libro: esce fuori un gioiello pervaso da un tappeto sonoro eterogeneo, che collega le cantilene dei quartieri popolari al clacson e al turpiloquio fino alle musiche di Steve Lacy e Alfred Shnitke finendo sulla tarantolata Tarantella del Gargano eseguita da Daniele Sepe.
Napoli diventa teatro all’aperto: claustrofobica, angosciante, invadente, piena di sguardi e folle e solitudini, è il labirinto che si crea la protagonista alla ricerca della verità sulla madre morta in circostanze misteriose, e arrivare all’uscita si tradurrà con un percorso di consapevolezza per quest’anima persa dibattuta tra tradizione e progresso, movimenti sociali e forze reazionarie, in un miscuglio intenso e a tratti sgradevole che unisce senza connessioni politica ed esistenza, moti dell’anima e spinte sociali.
Uno spaesamento che viene reso dalla recitazione istintuale della Bonaiuto, innervando il racconto di variazioni postmoderne del teatro di Eduardo.
Teatro di Guerra del 1998 e L’Odore Del Sangue del 2004 sono un ponte per arrivare a Noi Credevamo, del 2010, inizio di una ideale trilogia che conferma i punti cardine del mondo di Martone proseguita con Il Giovane Favoloso del 2014 e Capri-Revolution del 2018.
E che narra quella Storia d’Italia così affascinante e così sconosciuta al cinema quanto ricca di storie e personaggi
Il film su Leopardi irrompe con furia nella filmografia del regista, è un urlo che non rimane strozzato in gola ma esplode, avvicinando il cinema di Martone a quello di un altro grande, Marco Bellocchio, dove la parola diventa fisica, la macchina da presa danza intorno al protagonista come in Vincere!, segue l’impulso prima del movimento, e dà forma alle tenebre segnate dalla fotografia di Renato Berta, mentre si incrociano il noir e il melò.
E il desiderio, proprio come nella produzione del regista di Bobbio, è come se fosse un sogno, un lampo nel buio, quando il binomio tra sapere e follia rende paralleli il Caccioppoli e Leopardi.
Il Giovane Favoloso si chiude con il poeta che recita La Ginestra davanti al golfo di Napoli: e Capri-Revolutionsi apre proprio sullo stesso golfo, per raccontare vicende di qualche anno più avanti (siamo nel 1907, all’alba del primo conflitto mondiale) e per continuare quel flusso narrativo-storico.
Se Noi Credevamo, già dal titolo in plurale, parlava del senso di comunità, di collettività, in relazione agli avvenimenti storici più rilevanti; e se il biopic sul poeta recanatese invece metteva al centro l’individuo, Capri-Revolution collega l’uno agli altri, parla di una comune ante litteram e di come l’individuo si pone all’interno e dall’esterno, con tutti i riverberi narrativi, psicologici e storici che questo comporta.
La Capri di Martone (ripresa fra la vera Capri e il Cilento) è una terra ancora non toccata dalla modernità, arcaica e violenta, quasi omerica, dal sapore di ossa e terra, colorata col sangue e con il sudore: Laura, giovanissima capraia orfana di padre, abbandona il ristretto tetto familiare per seguire gli insegnamenti, affascinanti e così nuovi per lei, di Seybou, una sorta di leader messianico di quella comunità che sta per diventare comune, un nucleo di persone libere che, contrapposte proprio a Laura e al medico interpretato da Antonio Folletto, mettono in campo, metaforizzandole, le idee socialiste, comuniste e liberali dell’epoca.
Ed è proprio in questo particolare teorico e idealistico che si incunea il senso del bel film di Martone, ma qui anche si incaglia: se Capri-Revolution è perfetto e sinuoso nel narrare la terra e il suo senso identitario, nel suo sguardo al passato rivelatore del presente, lo è invece molto meno nel confronto dialettico dei suoi protagonisti. Specialmente nei diversi scontri verbali fra lo stesso medico e Seybou, portavoce di istanze antimilitariste e quasi new-age, l’opera sembra arenarsi e scivolare lentamente in una messa in scena a tema; per quanto poi siano invece interessanti le suggestioni che Martone innesta nelle sue storie, e (specialmente in queste ultime tre) un’intuizione particolarmente brillante nel collegare il progresso dell’uomo e il progresso dell’arte, il suo sesto film da regista di fiction non riesce a prendere quota nella parte più apertamente “politica” e meno visionaria del suo testo.
Come cerchi concentrici, lo sguardo di Martone si stringe e si allarga: Italia (Noi Credevamo), Napoli (Il Giovane Favoloso), Capri (Revolution), e ancora Napoli, stringendo sul Rione Sanità.
Che ha un suo “sindaco”: è don Antonio Barracano, boss dal passato criminale che proprio per i suoi trascorsi, o attraverso di essi, ha capito che la violenza porta ad altra violenza in una spirale di guerra senza fine. Proprio per questo ora usa il “pugno di ferro in guanto di velluto”, tentando di imporre la propria volontà ma con ingegno, mettendo pace nei piccoli dissidi come nei grandi ma sempre usando la logica, il buonsenso, le parole. Contrastato, concettualmente, dal suo medico personale (nel testo originale, Fabio Della Ragione, nomen omen), convinto che l’umanità sia rozza e primitiva e che sia irrecuperabile.
Parte dal testo di Edoardo Il Sindaco Del Rione Sanità, il film del 2019 che Martone porta con successo alla Mostra di Venezia, cortocircuitando la sua stessa filmografia: che è sempre nata nell’alveo della cultura napoletana, negli anfratti colorati e violenti di una delle città più belle del mondo, e che come abbiamo visto ha fatto da spola tra passato (il Risorgimento, Leopardi) e presente, tra l’essenzialità del teatro e la caricatura del cinema.
E che qui si declina frullando insieme tutte le sue suggestioni, aggiornando un classico del teatro del Novecento come De Filippo mostrandone il coraggio, l’avanguardia e la modernità mentre assimila le sue ossessioni a quelle del drammaturgo: Il Sindaco Del Rione Sanità ha il nerbo di Edoardo e la dolcezza poetica di Martone, le ombre del regista di Capri Revolution e i sorrisi larghi di uno dei più grandi artisti italiani, arrivando persino all’ “eresia” (apparente, ma è una scommessa vinta) di stendere un velo sul finale del dramma edoardiano, cambiandolo sottopelle.
E mette in scena il conflitto tra lo scorpione e la rana, tra chi è convinto che l’uomo possa evolversi e chi invece crede che la sua natura brutale verrà sempre a galla: è il paradigma umano l’oggetto di studio di Mario Martone. L’abilità è da sempre quella di rileggere i testi altrui, dalla Ferrante a Parise a Leopardi fino a De Filippo, e trasportarli in un processo evolutivo che mette alla prova idee e ideali contro l’erosione del tempo e della morale.
Il disorientamento di cui sopra viene allora dall’essere in perenne bilico, su un bordo affilato come un rasoio, tra un presente senza coordinate e un passato malmostoso nel quale ci si addentra per trovare un approdo. Un passato che quindi non smette mai di essere vivo e vivido, che non fa ombre sul presente ma lo illumina in maniera sempre nuova, sempre sincera, sempre dolorosamente.
Nel 2021 esce poi un film apparentemente di svolta: Qui Rido Io ha i colori di Napoli e il vestito di una commedia briosa, nonché un Toni Servillo protagonista effervescente che dà nuovi orizzonti al personaggio di Edoardo Scarpetta, prodigandosi in un’interpretazione preziosa e stupefacente, che non è in bilico ma riassume gioia e dolore insieme in uno sguardo.
Dall’inizio della sua esperienza cinematografica, Martone ha messo dunque in scena una ricerca personale, tra storie intime di amore molesto illuminando meraviglie e contraddizioni di Napoli: non fa eccezione a tutto questo Qui Rido Io, straordinaria rievocazione della vita di Edoardo Scarpetta. Ciò che però interessa allo sguardo di Martone, aiutato da un Servillo letteralmente gigantesco, è la frattura, l’incrinatura che si crea nell’uomo in quel momento centrale drammaturgicamente che è il processo per plagio intentatogli da Gabriele D’Annunzio.
È da quella crepa che erutta incandescente la materia viva del film: il passato, il presente e il futuro incarnati nella catena incessante di ricambio generazionale che mette la maschera dell’attore in declino, che ha soppiantato chi è venuto prima di lui -la maschera di Pulcinella era stata soppiantata dal suo Felice Sciociammocca- ma a sua volta soppiantato da chi verrà dopo; il peccato di iubris di un uomo che aveva tutto -ricchezza, donne, fama- ma che decide di sfidare la sorte e mettersi a confronto con chi gli era superiore, il Sommo Vate; e su tutto, il mistero doloroso della paternità.
Se allora L’Amore Molesto era un film sulla dolorosa ricerca dell’identità materna, Qui Rido Io è un film sul dolore dei padri al confronto con i figli.
E nello stesso modo, Nostalgia, il capolavoro presentato a Cannes 2022, ritorna invece sul dolore delle madri, non per cercare però la loro identità ma per capire meglio la propria.
È sempre un lavoro incessante di ricerca, di affinamento sensoriale ed emotivo: Pierfrancesco Favino si perde nei labirinti vischiosi e umidi di Napoli alla ricerca del suo passato.
Il tempo per Martone è come un elastico: si deforma nel ricordo e non si strappa ma torna al punto di partenza con dolorose lacerazioni.
Il film riprende il senso della nostalgia fin dal suo etimo greco: nostos, ritorno a casa, e algos, dolore. Dolore del ritorno. In Nostalgia, il passato e il presente per Martone si fondono in un unicum che diventa materia elastica: si contorce fino ad arrivare indietro nel tempo, non si strappa ma si deforma nel ricordo, si allunga fino a fare male, ritorna al punto di partenza con lacerazioni.
“E’ tutto come un tempo, non è cambiato nulla, è incredibile”, dice Felice Lasco in una telefonata alla moglie. Ma Napoli adesso ha addosso 35 anni in più rispetto a quelli che crede lui: qual è la verità allora?
Il passato è una terra straniera. Ma il passato è anche un posto più rosa.
In Nostalgia, il passato è semplicemente fatto della materia di cui sono fatti i sogni. Felice Lasco non è sereno e sente di non poterlo essere se prima non fa pace con la sua vita, con il suo passato, anzi con la sua idea di passato: che non è, non può essere, la Napoli di superfice, ma quella che vive nella dimensione più segreta, oscura, sotterranea, la città delle catacombe, delle tradizioni pagane e religiose che si fondono in un unico credo inamovibile e letale. È una regressione nell’oscurità quella cercata da Felice, una regressione nell’oscurità del ventre materno, come in quella sequenza di durissima tenerezza, di inguardabile, insostenibile crudele verità dove alla vecchia e stanca madre che lo ha atteso mitologicamente per anni, lui dice “facciamo che sono ancora il tuo bambino”.
Nostalgia prende le misure del cinema di Mario Martone e costruisce sopra una casa; che è quella di Felice Lasco con quel cortile pieno di musica e sorrisi, ma che è anche quella di un uomo che morirà in un vicolo, gettato su un sacco di spazzatura. Esattamente la smisurata differenza che c’è e sempre ci sarà tra disperazione e speranza.
Il cinema di Mario Martone
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