Un bellissimo incontro, quello con la ‘nostra’ Alice Rohrwacher, che si è tenuto alla Sala Debussy, la seconda sala più importante del Festival dopo il Gran Teatro Lumière, sia per accogliere il gran numero di persone intervenute e sia perché, nel corso dell’incontro, è stato proiettato l’ultimo cortometraggio (35’) girato dalla regista su proposta di Alfonso Cuarón, dal titolo Le Pupille.
Capelli raccolti in una crocchia, jeans e camicia bianca, Alice Rohrwacher inizia l’incontro con la consueta, tranquilla sicurezza e modestia di chi non deve dimostrare nulla. Inizia parlando in francese ma poi, anche data la presenza di una traduttrice, continua in italiano, per potersi esprimere più liberamente.
Il cinema perché
La giornalista incaricata dal Festival di gestire l’incontro, pone ad Alice la prima domanda su perché e come l’artista abbia deciso di dedicarsi al cinema. La risposta è sincera e diretta: “Non riuscivo a decidermi su quale arte scegliere e alla fine ho capito che il cinema le avrebbe messe tutte insieme. Da giovani io e Alba (ndr: la sorella attrice, presente in sala) abbiamo scoperto entrambe il mondo del cinema. Penso che il cinema ci dia la possibilità di cambiare lo sguardo sul mondo: è molto importante cambiare il punto di vista consueto per ritrovarsi a vedere il mondo con gli occhi degli altri”.
Alla domanda su quale film o autore l’abbia ispirata maggiormente risponde: “È difficile scegliere un solo film che mi abbia ispirato, mi viene in mente ad esempio À bout de souffle, di Godard, che mi ha letteralmente stordito la prima volta che l’ho visto, anche perché, all’epoca, non avevo ancor capito che il cinema era tante altre cose oltre al racconto di una storia. Poi mi viene in mente Novecento, di Bertolucci, un film che mio padre vedeva spesso a casa, quindi non solo la narrativa ma anche l’epica”.
Successivamente la regista racconta di come sia stato per lei relativamente facile scrivere la sceneggiatura di un film, dopo aver incontrato il produttore Carlo Cresto-Dina (conosciuto lavorando ad un documentario collettivo), che le chiese di iniziare a scrivere una sceneggiatura, quella di Corpo Celeste, poi divenuta il primo film della regista selezionato alla Quinzaine di Cannes 2011: “Quello che non avevo capito – precisa la Rohrwacher – è che io stessa avrei dovuto fare la regia e la messa in scena. Finché un giorno Carlo me lo ha detto, proprio quando credevo di incontrare il regista: lui aveva pensato che lo girassi io il film! In generale quando scrivo cose che sembrano troppo difficili da realizzare concretamente penso con imbarazzo a come farò a renderle sulla scena: però è proprio là, in quelle occasioni, che si scoprono le cose più belle (come in una scena fra Antonia/Alba e Lazzaro risuscitato). Di certo una delle cose più belle del lavoro nel cinema è proprio quello di sporgersi oltre la propria immaginazione e incontrare l’immaginazione degli altri, degli attori e degli altri con cui lavoro.”
Sollecitata a spiegare perché lavori con un’équipe quasi tutta femminile, aiuto regista, costumista, decoratrici, montatrici, lei risponde: “Forse è un caso, o forse le più brave e qualificate sono donne, almeno quelle che ho incontrato io.”
Le Pupille
È il momento della proiezione del cortometraggio natalizio dal titolo Le Pupille, prodotto da Alfonso Cuarón, e realizzato dalla regista in un convento, con un gruppo di deliziose bambine (giunte a Cannes per la proiezione con un bus notturno) e con la sorella attrice, Alba, nei panni di una suora.
“Quando Cuarón mi ha proposto di realizzare un cortometraggio di Natale – racconta Alice – mi è venuta in mente una grande torta rosa e tante pupille che la guardavano: l’idea è nata dalla lettera di Elsa Morante a Goffredo Fofi, intorno alla storia di una torta, una enorme zuppa inglese in tempo di carestia, avvenuta in un convento. Amo molto le pupille (quelle degli occhi, ma il termine in italiano significa anche ‘le bambine’), perché in anatomia l’interno dei nostri occhi ha un nome che può essere attribuito anche alle bambine, che possono essere ribelli, possono soffrire, chiudersi, danzare: anche se il corpo non si può muovere le pupille restano libere. Le bambine obbedienti non possono muoversi, ma le loro pupille possono ballare la danza scatenata della libertà. Questo cortometraggio è un dolce omaggio al cinema delle origini, realizzato in maniera istintiva, come fosse girato negli anni Quaranta: abbiamo giocato ‘con’ le immagini (16 fotogrammi, fermo immagine, cinema muto), e non solo ‘sfruttando’ le immagini”.
Il cortometraggio evidenzia una serie di tematiche: lo sguardo dei bambini sul mondo (le bambine/pupille sono le protagoniste incontrastate dell’opera), la religione, trattata tra rispetto e insolenza: “Credo che l’uomo senza spiritualità non sia niente – prosegue Alice – certo ci sono vari livelli. In Italia, un paese cattolico, mi interessano l’influenza e il potere che la religione ha avuto nella storia, la componente storica che ha sviluppato una certa cultura e una controcultura. Abbiamo sempre bisogno di uno sguardo che ci orienti nell’immagine, ci tenevo alla dolcezza delle immagini perché oggi siamo sommersi da una profusione di immagini di ogni tipo ma serve spesso una guida per orientarsi. Sono partita, come dicevo, dall’idea di questa torta, che tutti vogliono per egoismo e interesse, per mangiarla, ho pensato che lo spreco di questa torta potesse essere un atto rivoluzionario, anarchico. Il corto parla dei desideri puri e di quelli interessati, di libertà e devozione, di una forma di anarchia che, all’interno di un rigido collegio, può fiorire nella mente di ognuno. A prescindere da tutto il Natale è la festa di una nascita: a Campobasso c’è una tradizione di composizioni di bambini appesi a delle strutture e mi sono ispirata a queste per alcune scene del corto: si festeggia la nascita di Gesù o di chiunque altro.”
Purezza, realismo magico e politica
A proposito della purezza, degli intenti o dei desideri, viene posta una domanda interessante dalla giornalista alla regista: “C’è sempre l’innocenza al centro delle tue opere?”. Alice risponde con un sorriso: “Non lo so, non penso solo a personaggi innocenti, ma sento che l’innocenza della messa in scena è ancora potente, la purezza delle immagini anche in situazioni complesse, ha una grande forza in un’epoca tutta rivolta agli effetti speciali e alle tecnologie”.
Le chiedono successivamente come diriga i suoi attori, e in particolare sua sorella: “Facendo tante prove – è la risposta – con lei e specialmente con le bambine, nel cortometraggio, siamo state tanto tempo insieme e abbiamo provato tanto. Creare relazioni vere in una storia che comunque è falsa è importante: se c’è una chance di dare credibilità è nell’autenticità delle relazioni, ci deve essere sempre grande attenzione allo sciame di relazioni vere che si creano fra noi.”
A proposito del “realismo magico”, usato spesso per definire il cinema sudamericano, un’espressione con cui vengono connotate anche le opere della Rohrwacher, lei commenta: “Io sono la prima spettatrice dei miei film, oltre che la regista. Per prima io subisco il fascino del reale che è molto superiore alla nostra immaginazione, siamo cresciuti con l’idea che il reale sia determinato, invece la vita reale si sporge, si spinge in luoghi immaginari. Credo che il cinema possa raccontare il reale, un reale che può essere diverso e che vada oltre l’immaginario”.
Infine, la domanda forse più insidiosa: “Il tuo cinema è politico? accetti questa definizione? spesso ci sono personaggi ai margini, spunti sociali…” “Credo che la poesia – afferma Alice tranquilla – sia parte dell’agire politico e il cinema anche può esserlo, soprattutto nella messa in scena, cercando di far evocare il pensiero autonomo, di stimolare ognuno affinché ragioni con la propria testa, laddove il cinema fa litigare è anche cinema di risveglio politico. Specie in questa epoca in cui si approfitta delle immagini per vendere qualsiasi cosa. Mi piace realizzare opere che non distruggano l’immaginazione dello spettatore ma la facciano emergere: è importante acuire i nostri sensi e far lavorare l’immaginazione. Tutti hanno paura di ‘sprecare’ le torte che cerchiamo di cucinare: c’è una grande responsabilità nel fare cinema, perché è un luogo dove ancora non c’è controllo su tutto, uno dei pochi luoghi dove si fanno scelte ma c’è molto che non è controllabile, perché è affidato allo sguardo degli altri. Mi consolo pensando che ci sono persone che hanno molte più responsabilità di me, io sono solo un giullare, faccio del cinema.”