Barbara Cupisti, la regista di Hotel Sarajevo, ha raccontato qualcosa sul suo documentario, in onda nello speciale del TG1 in seconda serata su Rai1. A trent’anni dal conflitto nella ex-Jugoslavia, la regista viareggina che vive in America ha voluto raccontare e ricordare il tutto attraverso il luogo protagonista: l’hotel.
Il documentario è una produzione Clipper Media e Luce Cinecittà con Rai Cinema.
La genesi di Hotel Sarajevo di Barbara Cupisti
Com’è nata l’idea di questo documentario?
Devo premettere che di solito sono io che propongo il soggetto o l’idea al mio produttore, Sandro Bartolozzi e insieme decidiamo di portarlo, come in questo caso, a Rai Cinema una volta sviluppato. Nel caso di Hotel Sarajevo, invece, è successo il contrario, perché io stavo lavorando a tutt’altro quando mi ha chiamato il produttore chiedendomi di realizzare qualcosa per il trentennale di Sarajevo. Quindi non si tratta di una mia idea originale, ma di una proposta. Poi io l’ho trasformata in qualcosa di mio sfruttando una delle immagini simbolo di quel momento: l’hotel. Ricordo che quando c’era la guerra arrivavano tutte le notizie dai giornalisti da questo bunker giallo, un cubo in mezzo alla città. E nell’immaginario della nostra generazione è fortissima questa visione dell’hotel giallo. Quindi all’idea di base che aveva la produzione, quella di un prodotto celebrativo, io ho aggiunto la mia personale idea. Secondo me era importante parlare di quello che è oggi Sarajevo, dopo 30 anni dal conflitto. All’inizio volevo far sì che fosse proprio l’hotel a raccontare questa storia. Ma nel momento in cui ho iniziato a incontrare questi personaggi ho pensato che non era il caso di lasciare la guida di questa storia a un monumento. Era più nelle mie corde far parlare qualcuno di reale che raccontasse le proprie emozioni.
La divisione in capitoli
L’aspetto che più colpisce è la divisione (anche se poi non si tratta di una divisione vera e propria) in tre capitoli, o meglio tre visioni. Immagino avrai raccolto più testimonianze, ma ti sei fermata a queste tre. Come mai?
Perché fanno parte di tre generazioni. Ormai sono anni che mi occupo di queste situazioni e di questi conflitti e mi sono resa conto che una guerra non finisce nel momento in cui il conflitto finisce: le ripercussioni si sentono anche nelle generazioni future. Mi sono accorta che è come se per tre generazioni questi ricordi rimanessero nella memoria: una che viene completamente toccata è quella che vive la guerra e che la combatte, poi c’è quella di coloro che erano bambini (che hanno subito le conseguenze come la fame, le deportazioni) e poi quella dei figli di questi. E infatti Boba ha combattuto la guerra, Zoran l’ha subita perché aveva tredici anni e, infine, c’è la generazione di Belmina.
Facendo un confronto con il tuo documentario My America non ho potuto non notare delle somiglianze, in particolare proprio in questa decisione di dividere la storia in tre. La ritieni una tua caratteristica?
Sì (ride, ndr). Non so come mai, ma ci casco sempre. E pensare che inizialmente in questo caso doveva essere l’hotel a parlare e trasportare nella realtà. Mi ero immaginata di girare tutto con un drone che usciva dall’hotel e raggiungeva i personaggi. Ma non ce l’ho fatta. Ho questo bisogno di vedere la realtà da punti di vista diversi. Ed è un bisogno che ritorna anche in altri miei lavori, come in Madri, ma anche ne Gli esuli. C’è sempre questa divisione. Forse avendo fatto l’attrice per tanti anni sono esercitata a cercare di vedere la storia da diversi punti di vista.
Potrebbe essere una tua firma, un tratto ricorrente dei tuoi documentari.
Penso sia proprio il mio modo di pensare. Quando vedo una cosa cerco sempre di capire anche l’altro punto di vista. Non riesco a essere totalmente soggettiva.
I personaggi di Hotel Sarajevo di Barbara Cupisti
Un altro aspetto che colpisce è il racconto di questi tre protagonisti, quasi come in un film, con una sorta di voce narrante che ogni volta racconta e rappresenta uno di loro.
Mentre stavamo montando avevo delle interviste che avevo fatto precedentemente. Ma non volevo mettere l’intervista tradizionale. L’unico momento in cui c’è una pseudo intervista è quello di Boba, riflesso nello specchio. Per gli altri mi piaceva che ci fosse questo racconto. E poi mi piaceva introdurre questa caratteristica pazzesca che è il fatto che tutti parlano italiano e questo fa capire quanto questo paese sia comunque vicino a noi. Quando abbiamo finito di montare, parlando con loro, abbiamo mantenuto dei pezzi delle loro interviste, li abbiamo cuciti e dopo sono stati riletti per utilizzarli come voce narrante. Mi piaceva, inizialmente, raccontare tutto tramite il dialogo; però diventava pesante per lo spettatore avere tutta una cosa in bosniaco e cercare di capire soltanto tramite il dialogo.
E a proposito dell’utilizzo dell’italiano, lo si può vedere anche come una sorta di legame. Hai espressamente cercato tutti personaggi che parlassero italiano o è stata una casualità?
Zoran è l’unico che abbiamo cercato espressamente per questo, in quanto fixer del film. Conoscendolo, poi, sono emersi tanti aspetti interessanti che mi hanno convinta a utilizzarlo come personaggio. Poi c’è da dire che Hotel Sarajevo è nato durante la pandemia: io ero in America, la produzione in Italia e loro in Bosnia. Quindi l’italiano è diventato importante, perché tramite le zoom call era il legame che permetteva una comunicazione universale. Per gli altri, invece, è venuto fuori una volta contattati il fatto che conoscessero l’italiano. Belmina ha fatto la Luiss, Boba parla anche giapponese. All’inizio, a dire la verità, non volevo che parlassero italiano, ma poi è diventato un aspetto interessante.
L’importanza delle frasi in Hotel Sarajevo di Barbara Cupisti
A un certo punto uno dei personaggi pronuncia questa frase: “potevamo essere vittime o spettatori”. Immagino che naturalmente siano tutte frasi scelte/dette da loro. Come hai lavorato nella rielaborazione?
Devo ringraziare uno scrittore bravissimo che mi ha aiutato, Roberto Moliterni. Con lui, e anche con i protagonisti, abbiamo preso le varie interviste e abbiamo tirato fuori i punti che per noi potevano essere importanti. Poi le abbiamo sistemate in un modo più bello, come quando si mette in bella copia. E le abbiamo registrate in studio.
Molte frasi sono incredibili e spaventosamente attuali.
La frase finale di Zoran, per esempio, sull’Ucraina viene da un suo post su Facebook. Appena l’ho letta l’ho chiamato e l’ho fatta inserire. Anche perché bisogna specificare che noi abbiamo girato alla fine di dicembre e, quindi, sapevamo che c’era una situazione di tensione, ma ancora non era successo nulla. Quando è accaduto tutto quello che sta ancora succedendo in Ucraina, noi stavamo montando e non potevamo far finta che questi avvenimenti non esistessero. Stavamo cercando un modo per inserirli; stavamo valutando anche se girare ancora e aggiungere altro materiale. Poi Zoran ha scritto quel post su Facebook e io semplicemente gliel’ho fatto registrare. E si è così creato subito il collegamento.
Tornando sempre alle frasi, ce n’è un’altra che mi ha colpito: “Volgiamo lo sguardo al passato oppure al futuro e alla civiltà”. Mi sembra che riesca a riassumere sia il documentario che la situazione.
Sì, hai ragione. La frase è dell’amico di Belmina, giovanissimo, ma un mostro di politica. E pensare che ha solo 21/22 anni.
La ricetta del documentarista
Quale credi possa essere il potere dei registi in momenti come quello di oggi? Hai raccontato un conflitto che c’è stato e che ha fatto storia, ma che, in qualche modo, si collega anche a quello che succede oggi. Le parole conflitto e guerra ormai sono in quasi ogni frase che pronunciamo. Pensi che la visione di un regista, e in modo particolare di un documentarista, possa anticipare qualcosa?
Credo che questo sia un lato caratteriale insieme alla capacità di leggere l’attualità tra le pieghe. Forse il potere è riuscire a guardare e ascoltare la gente. Credo ci sia una capacità particolare di captare qualcosa, anticipandola, nelle persone che fanno questo tipo di documentari. Oltre a questo, però, ci devono essere anche produttori lungimiranti. E da questo punto di vista posso dire che i nostri produttori italiani danno questa possibilità e hanno molta più attenzione di altri.
La tecnica di Hotel Sarajevo di Barbara Cupisti
Tornando, invece, alla tecnica, volevo chiederti com’è nata l’idea della parte disegnata.
La parte disegnata riguarda sempre e soltanto Zoran perché la sua storia è proprio questa: lui che cerca di fare questo fumetto, di finirlo. Lui è una persona molto riservata e gli sembrava, erroneamente, di usare la guerra per farsi conoscere. Parlandoci sono emersi importanti aspetti della sua vita e ho pensato che fosse interessante seguire il suo percorso; per esempio quali erano gli step che lui faceva per poter lavorare sul suo trauma e capire da dove veniva questo blocco. I disegni sono suoi dal momento che fa comic book. Poi le tavole le abbiamo fatte animare da un animatore italiano, Alessandro Di Nino.
E, invece, le musiche? Spesso vengono messe in secondo piano, ma sono importanti al pari di tutti gli altri elementi. Non dev’essere stato facile trovare musiche per questo tipo di documentario.
La musica fa tantissimo in un documentario. In questo caso è stata molto importante. Anche perché in lavori del genere devi entrare in sintonia con i personaggi e capire le loro emozioni. Poi costruire una musica che racconti e spieghi questo. E non è per niente facile. Ma così come non lo è il montaggio, altro elemento essenziale in questo documentario e in generale in tutti. E quindi mi sembra doveroso ringraziare Piero Lassandro per il montaggio e Tommaso Gimignani per le musiche.
Barbara Cupisti oltre Hotel Sarajevo
Progetti futuri?
Ne ho due. Uno è un film fiction, non un documentario, per il quale ho finito la sceneggiatura. Posso anticipare che parla di guerra, in Toscana: è una storia di emigrazione alla fine della seconda guerra mondiale di un gruppo di partigiani che vanno dalla Toscana verso l’America. Ed è molto al femminile.
L’altro progetto, invece, è più documentaristico e riguarda l’Ucraina. Mi sono mossa subito per cercare di raccontare quello che sta accadendo, anche perché tutte le informazioni che arrivano, soprattutto in Italia, mi sembra lavorino molto sul sensazionalismo e non su quello che accade a livello psicologico, interiore. Ed è su questo aspetto che mi vorrei concentrare.
Leggi la recensione del documentario: ‘Hotel Sarajevo’, documentario sulla guerra vista a trent’anni dall’assedio
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli