Costruito come un thriller sofisticato, Holy Spider (Les nuits di Mashhad), del regista iraniano Ali Abbasi, in realtà è molto di più: l’indagine per scoprire il colpevole di efferati delitti seriali, ai danni di prostitute – donne perdute, dunque, che ‘meritano la loro sorte’ come poi l’assassino, la difesa e buona parte della società affermeranno al processo – si rivela in realtà una vera e propria indagine sulla visione della donna, e non solo, in una società, quella iraniana, dove una millenaria cultura ha lasciato il posto a un oscurantismo bieco e retrogrado, all’accettazione passiva di quanto imposto dal regime. Anni di paura e di censura sembrano aver reso molti cittadini perfettamente ‘organici’ al sistema, come direbbe il buon, vecchio Antonio Gramsci.
L’attrice protagonista del film, Zar Amir Ebrahimi (nei panni della giornalista) vince Il Premio per la migliore interpretazione femminile al Concorso del 75/o festival di Cannes.
Il film è disponibile in streaming su Raiplay.
Holy Spider – RaiPlay
La tela del ‘santo’ ragno.
Holy Spirit si ispira alla vera storia di Saeed Hanaei, uno dei più famosi serial killer iraniani scoperto nei primi anni del 2000, che conduceva una vita apparentemente normale, da uomo molto religioso e da cittadino al di sopra di ogni sospetto. In realtà Hanaei usciva di notte in cerca delle sue vittime, le prostitute nella città ‘santa’ di Mashhad e riuscì ad uccidere ben sedici donne prima di essere arrestato e processato. L’uomo era stato fra i soldati inviati in prima linea durante la guerra Iran-Iraq, ed aveva sacrificato la sua giovinezza per il paese, nella speranza di ‘migliorarlo’ e di dare un senso alla sua vita. Qui iniziano a svelarsi le cause principali che, secondo chi studiò il caso all’epoca, avevano sconvolto la sua mente (già probabilmente labile) e lo avevano spinto a uccidere sedici donne: il senso di revanscismo e inutilità per non essere divenuto martire e per non aver fatto nulla di importante per cui essere ricordato, oltre a un fondamentalismo latente.
Il titolo del film ha un doppio significato: la stampa iraniana aveva soprannominato Saeed il Ragno, perché agiva di notte e attirava le vittime nella sua tela, cioè quasi sempre il suo appartamento. Ma il regista racconta di aver scelto questo titolo anche perché il famoso mausoleo della città di Mashhad – dove probabilmente Saeed individuava la maggior parte delle sue vittime – assomiglia, per come è costruito, ad una ragnatela. Da qui la doppia metafora. “La visione di quest’uomo che emerge da una grande ragnatela e trascina la sua vittime nelle tenebre – afferma Ali Abbasi – si è imposta su di me perché, nel suo spirito, ha compiuto una missione salvifica”.
Femminicidi seriali per purificare la società
L’arrivo di Rahimi, una giornalista di Teheran determinata a scoprire i fatti fino al punto di fare da esca al killer, darà una svolta alle indagini. Rendendosi presto conto che le autorità locali non hanno fretta di vedere risolto il caso, Rahimi inizierà ad addentrarsi nei sobborghi più malfamati della città santa di Mashhad, insieme a un tranquillo detective – gestendo faticosamente le proprie paure e quelle della sua famiglia – per indagare sui femminicidi seriali e si renderà presto conto che i crimini sono opera dello stesso uomo, che pretende di purificare la città dai suoi peccati, attaccando di notte le prostitute.
In una società come quella iraniana, dove si vorrebbe ancora che il ruolo della donna fosse di sottomissione e obbedienza all’uomo, di ‘angelo del focolare’, dove le parti reazionarie della società spingono per la copertura integrale del corpo, chi il corpo lo scopre e addirittura lo vende, è giusto che muoia. Questa sarà la tesi della difesa, e dello stesso Saeed. Dunque la critica verso la società iraniana è chiarissima, soprattutto perché l’assassino è un uomo, ma il film prende in esame le motivazioni culturali di un intero sistema, non solo la psicologia complessa del colpevole, che è egli stesso avviluppato nel suo ruolo di ragno senza poterne uscire: il film mostra infatti la ‘banalità del male’, cioè quella dell’esistenza di Saeed, un ragazzo e poi un uomo frustrato e senza prospettive.
“Non avevo intenzione di dirigere un film esclusivamente sul serial killer – racconta il regista – D’altra parte, volevo fare un film su una società che è diventata un serial killer: il film affronta la misoginia profondamente radicata nella società iraniana, che non è religiosa o politica, ma culturale. La misoginia si sta diffondendo in tutte le classi sociali attraverso le abitudini delle persone. In Iran, abbiamo una tradizione di odio verso le donne, che spesso sfocia in terribili drammi. È quello che rivela, nel modo più feroce, la traiettoria di Saeed Hanaei. Si rendeva necessario esprimere nel film diversi punti di vista che mostrassero la diversità di opinioni provenienti dalla società iraniana: sostenitori e oppositori di Hanei. D’altra parte Saeed è sia una vittima (ndr: del sistema, di una cultura) che un criminale”.
Trasmissione ‘culturale’ e censura
Durante il film, girato con una fotografia da polar francese, enigmatico e pieno di tensione – nonostante lo spettatore da subito conosca il colpevole dei femminicidi – soprattutto nelle scene notturne o quando la giornalista inizia ad addentrarsi nei meandri della cittadina deserta alla ricerca di indizi, vengono evidenziati dal regista – che è anche sceneggiatore insieme a Afshin Kamran Bahrami ed il film vanta una sceneggiatura semplicemente perfetta – numerosi indizi su come le giovani generazioni recepiscano quanto i genitori e la società propongano loro in termini di propaganda culturale.
I figli piccoli di Saeed, infatti, specialmente il maschietto di poco più grande, iniziano a giocare imitando il padre che finge di uccidere la sorellina, ripetendo che il padre è innocente ed ha fatto solo pulizia di donne che meritavano di morire. Trasmettere ai figli il presunto disvalore su altri essere umani è uno dei rischi più grandi che la società iraniana rischia di correre: non a caso molti figli, crescendo, o si integrano e diventano ‘organici’ anche loro, oppure fuggono dal Paese e cercano rifugio all’estero, come molti registi ed artisti iraniani sono stati costretti a fare.
“È durante il processo che la storia di Saeed mi ha davvero affascinato – conclude Abbasi – in un mondo normale, è ovvio che un uomo che ha ucciso 16 esseri umani sarebbe considerato colpevole. Ma, in Iran, era diverso: parte dell’opinione pubblica e dei media più conservatori hanno iniziato a lodare Hanaei come un eroe. Erano convinti che avesse fatto solo il suo dovere religioso, che era quello di pulire le strade, in altre parole di uccidere queste donne “impure”. Così mi è venuta l’idea di fare il film: le vittime di Hanaei non erano prostitute anonime, erano individui, con personalità proprie, e volevo restituire parte della dignità e dell’umanità che era stata loro sottratta. Non farne santi, o sfortunate vittime, ma considerarli come esseri umani a pieno titolo, proprio come noi”.
Holy Spider è considerato in Iran un film trasgressivo. Una severa censura, com’è noto controlla il cinema iraniano da circa cinquant’anni e il film, come ha esplicitamente detto il regista, è intriso di un certo realismo pur non denunciando nulla apertamente.
Ci penseranno il web e le copie clandestine a far ‘volare’ il ragno santo in tutto il mondo.