Dopo il successo di Girl (2018), Camera d’oro per la Migliore Opera Prima, il giovane regista belga con Close, Gran Premio della Giuria a Cannes 2022, propone un argomento di assoluta attualità: il concetto di genere, la sua percezione, il condizionamento che lo sguardo degli altri produce sulla propria identità. Dal 4 gennaio in sala.
Lukas Dhont lo affida a due ragazzini tredicenni: Léo (Eden Dambrine) e Rémi (Gustav De Waele), amici da sempre, in simbiosi totale. Immersi nella bucolica campagna belga, i due condividono tutto. Spesso Léo resta a dormire a casa di Rémi. È Leo soprattutto a sentire il bisogno di stare vicino all’amico. E di interrogarsi su quello che prova verso di lui. Lo osserva distante, nel letto, cerca il contatto. Lo coinvolge nei progetti sul loro futuro: Rémi suona l’oboe, è appena agli inizi, ma Léo ha già pianificato il loro futuro: sarà il suo manager, e faranno un sacco di soldi viaggiando in giro per il mondo. Rémi sorride, è il più sensibile dei due, il più innocente. Comincia la scuola e i due ragazzi sono nella stessa classe. La loro vicinanza così particolare non passa inosservata: Léo è oggetto di domande che lo sconvolgono: “Tu e Rémi state insieme? Siete sempre attaccati, come fanno due fidanzati…” Leo smentisce tutto, subito, e comincia piano piano ad allontanare l’amico senza dargli alcuna spiegazione. Si lega ai suoi detrattori, suoi e di Rémi, facendo gruppo con loro. Comincia a frequentare la scuola di hockey sul ghiaccio. Quando Rémi lo va a trovare agli allenamenti, Léo sbianca, non vuole che gli altri lo vedano, non vuole essere considerato diverso. Rémi pagherà per entrambi questa separazione illogica, irrazionale. Léo dovrà portare dentro di sé un senso di colpa devastante.
Lo specchio degli altri
Lukas Dhont utilizza una storia semplice, che ha la capacità di andare esattamente a toccare il nodo essenziale di ciò che racconta: quanto una comunità e le sue definizioni possano incidere nella libertà di determinazione sessuale o inficiare un libero rapporto lontano dagli stereotipi. Il regista si mantiene sempre in bilico tra queste due dimensioni, e tale stato di sospensione rafforza e mette ancora più in luce ciò che mostra e su cui ragiona.
Visivamente, Close poggia su di un’estetica della separazione: i due ragazzi vivono in contesti familiari puri, sono abituati alla bellezza dei luoghi, anche ad un sano isolamento dalla comunità, l’oboe per Rémi, i fiori per Léo. Di contro, un ambiente scolastico e i ragazzi che lo popolano, più ‘rozzo’, aggressivo. L’hockey sul ghiaccio che si oppone alla musica classica. Tutto si amalgama dentro una regia già pienamente matura, che impiega il manierismo per accentuare il dolore, la gioia, il senso di colpa. Close ha soltanto il difetto di trattenere tutto troppo, specie la catarsi di Léo: attendiamo sempre un climax che la regia prepara sequenza dopo sequenza, ma che non arriva mai.
Alice nella Città (mymovies.it)
Close di Lukas Dhont vince il Sydney Film Festival