Anno: 2011
Durata: 63′
Genere: Documentario
Nazionalità: Italia
Regia: Andrea Deaglio
Un vetrino, avvolto nel chiarore abbagliante di un bianco che dissolve i contorni dell’immagine, su cui due entomologi muovono, scambiano, spostano forme di vita ‘minori’, impercettibili, quasi invisibili: così comincia l’interessante documentario diretto da Andrea Deaglio, Il futuro del mondo passa da qui.
Rappresentazione, questa, assai azzeccata, nella misura in cui restituisce in pieno l’attività di mutazione antropologica esercitata da quelle ‘chirurgiche’ politiche dell’esclusione adottate da una logica di espansione urbanistica prodotta dal sempre più decentrato e sconnesso ‘discorso capitalista’.
Siamo a quattro chilometri da Torino, presso le sponde di un fiume, dove sono sorte piccole comunità eterogenee: c’è un campo nomadi; un uomo che, dopo aver perso casa e lavoro, vive di ciò che trova e della passione per la pittura; alcuni piccoli agricoltori emigrati dal sud che coltivano da anni i loro orticelli, costituendo, tra l’altro, un baluardo contro la degradazione ambientale. Ci sono anche spacciatori di colore che, non trovando altre risorse, sbarcano il lunario frequentando l’illegalità.
Comunque, ciò che emerge da questa indagine è la sacralità di un territorio non ancora contaminato, la verginità di uno spazio non ancora saturato da una colonizzazione architettonica opprimente e claustrofobica, insomma un luogo che ‘resiste’ all’interminabile processo di riciclo operante all’interno di un sistema di produzione che si nutre anche di ciò che espelle.
Un’area, questa, dove alla parvenza di senso imposta da un’eccessiva esigenza comunicativa, informata da un unico significante padrone, quello capitalista, si contrappongono un silenzio e, di contro, una babele linguistica che liberano uno ‘sciame’ di significanti, e il godimento prodotto dal consumo compulsivo di beni viene sostituito dalla contemplazione di un ‘mistero’, di una mancanza di senso che non è fonte di smarrimento, ma l’unica possibilità data per preservare la sacralità di cui si diceva sopra.
È chiaro che la ri-territorializzazione è alle porte: un progetto che prevede la costruzione di un parco e di un campo da golf spazzerà via queste singolarità che, per natura, si sottraggono alla barbarie quotidiana di un mondo in cui le immagini sono nevroticamente mosse dal desiderio ‘fallogocentrista’ di dar corpo anche a ciò che, per fortuna, eccede la possibilità della rappresentazione.
Ed ecco che le varie dissolvenze in bianco che attraversano la pellicola restituiscono in pieno quest’azione di annientamento: certo, questa distruzione omologante, risulta, di primo acchito, e non potrebbe essere altrimenti, devastante, ma ciò che ora appare come il funesto esito di un comando che s’innerva nelle maglie del linguaggio della comunicazione potrebbe, sul lungo periodo, rivelarsi un’arma utilizzabile da coloro (noi tutti) che ne sono stati vittime.
Ottimo lo stile di questo documentario, sobrio, attento, fatto di inquadrature rigorose, dove viene colta la semplicità del gesto, e la parole sono rimpiazzate da rapide didascalie in cui si mescolano le voci dei protagonisti.
Per concludere, un invito alla speranza: “Di fronte all’inaudita arroganza del potere, invece di lamentarci del nostro triste destino o di macerarci nella depressione, la risposta più adeguata è il riso. Il riso è una cosa molto seria. Non è una consolazione per la nostra debolezza, ma un’espressione di gioia, un segno del nostro potere. Il capitale cerca sempre di espropriare il comune, di esercitare il controllo, ma noi ridiamo quando ci rendiamo conto in che misura la loro debolezza è una profezia del nostro futuro“. (Da “Comune”, Negri/Hardt)
Luca Biscontini