In Sala
‘Lettera a Franco’ di Alejandro Amenábar, quanto è umano l’umanista
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3 anni agoon
Mientras dure la guerra titola, in originale, l’ultimo film di Alejandro Amenábar, che arriva in Italia grazie Movies Inspired ribattezzandosi Lettera a Franco. Finché dura la guerra, infatti, doveva essere, il limite temporale del potere del generale Francisco Franco, secondo la formuletta con cui gli fu conferito in occasione del colpo di stato in Spagna del 1936. L’avrebbe tenuto anche oltre la guerra civile spagnola; di là, persino, della Seconda guerra mondiale (fino al 1975). Eppure, già all’atto dell’insediamento El Generalísimo ebbe un franco tiratore d’eccezione: Miguel de Unamuno, letterato e filosofo, gloria nazionale di Spagna – almeno fino alla lettera-discorso che nel 1936 proferì all’Università di Salamanca. Come nacquero quelle sofferte parole, nel dubitoso tormento intellettuale e nel rimbombo delle pistolettate per strada, è raccontato da Amenábar con tono bilanciato più nell’urgenza di riflettere sul presente che di giudicare il passato. Un esempio limpido di cinema che genera pensiero restando umano.
Il trailer
La trama
Spagna. Estate 1936. Il famoso scrittore Miguel de Unamuno decide di sostenere pubblicamente la ribellione militare, che promette di portare ordine nella disastrosa situazione del paese. Il governo repubblicano lo rimuove immediatamente dalla carica di rettore dell’Università di Salamanca. Nel frattempo, il generale Franco invia le sue truppe al fronte ribelle e inizia a mietere successi, con la segreta speranza di assumere il pieno comando della guerra. (Sinossi ufficiale. Fonte: Movies Inspired)
La guerra civile dentro
Per quanto Alejandro Amenábar si avvicini a essere considerato gloria nazionale della cinematografia spagnola, non si può far a meno di notare come le sue più felici espressioni siano da pescare, ad oggi, nella prima parte di carriera. Tra queste, la magnifica durezza del debutto con Tesis, il coraggio ostinato e toccante di Mare dentro o la psicologia nera dell’horror The Others. Né la magniloquenza retorica di Agorà, né la lentezza tortuosa di Regression erano apparsi all’altezza della qualità degli esordi. Curioso che il successivo, delicato cimento del regista di origini cilene, in una fase di potenziale ristagno della filmografia, sia sul terreno battuto e scivoloso della guerra civile spagnola, ossessione cinematografica, non meno che letteraria, della creatività iberica.
Forse per questo, per cautela di passo, ne è venuto fuori un film poco sbilanciato sul versante storico; a differenza, peraltro, delle più schiette prese di posizione pubbliche antifranchiste e pro-Unamuno di Amenábar. Ma un senso c’è: quello di aver voluto fare di Lettera a Franco un’opera su tutto il travaglio del dissenso; su quanto di umano l’umanista Unamuno sperimentasse da intellettuale, da cristiano, da cittadino. Per passare da uomo di lettere – accademiche – a uomo da lettera di protesta.
La vita è un sonno
Co-sceneggiatore, oltre che regista, Amenábar consegna al mestiere istrionico di Santi Prego un Unamuno “personaggio dal rumore in testa”, quasi barricato in sé stesso per non veder crollare le faticose certezze di filosofo e repubblicano: “sono unamuniano e dico ciò che voglio”. Attorno gli si costruisce nella prima parte, per contrasto, un’ambientazione di silenzi assordanti. La città si svuota, spaurita: le leggi straordinarie bandiscono l’associazione di più di tre persone e le strade di Salamanca sono disertate e risonanti. Lo studio del Rettore all’Università è uno stanzone troppo grande, più delle stanze dei bottoni dei generali ingombrate dal tavolone di traverso. Nella casa di famiglia, lo scrittore abbassa le tapparelle non per troppa luce, ma per il rumore infiltrato dalla strada – un’esecuzione a due passi, sembra: che è meglio non vedere. Ma se un altro celebre Francisco – Goya – insegna che il sonno della ragione genera mostri, in questo caso il sonno genera, se non eroi o ribelli, quantomeno liberi pensatori. All’amico socialista Salvador che lo accusa di essere “mudo” e “dormido”, Unamuno replica:
Quando io dormo, sono più sveglio di tutti voi messi insieme.
Sugli spari fuori, quando lo stesso amico, compagno di tertulias, evoca le violenze delle milizie, Unamuno ribatte bollandoli come opera di bracconieri. Una sparata un po’ negazionista, da sonno della coscienza. Non era d’altronde il filosofo che aveva scritto nel 1898 il saggio La vida es sueño?
Fratelli di Spagna
Dormido, sbuffa Unamuno. E s’intrattiene con i suoi origami di carta, per sprofondare davvero nel sogno – anche ad occhi aperti – di lui, giovane, adagiato dolcemente sul petto della defunta moglie Concha. È uno scavo letargico, quello di Amenábar, costruito per intuizione di tormento. Il filosofo del sentimento tragico della vita sembra non cogliere da subito la pienezza della tragedia intorno: “l’unica cosa importante qui è che nessuno abbia abolito la Repubblica”, dice indicando la bandiera. Ecco perché si accorda benissimo l’enfasi della scena in cui un ancora esitante Franco, che il Generale José Millán-Astray vorrebbe fare leader nazionale, impone il cambio della bandiera repubblicana con quella monarchica a un timido soldatino.
Lo squadrone assiste; poi, un militare – incalzato dallo stesso Millán-Astray – intona l’inno. Le ugole esplodono come granate; gli sguardi sono accesi. Ne scaturisce una sequenza di retorica surreale, che alterna senza stacchi al montaggio il fuori fuoco e le focalizzazioni sui visi di coscritti, ora infuocati di fronte alla porpora e all’oro della bandiera. Un vero golpe di stile.
Ipse dixit: “a morte gli intellettuali!”
È anche per contrasto alle divise militari che il personaggio di Unamuno prende una pelle più umana. Il film si apre con la presa di Salamanca e la proclamazione delle nuove leggi cittadine. Quando qualcuno prova a ribellarsi urlando “fascisti!”, si osservano solo i soldati scivolare fuori campo, mentre l’uomo col megafono continua impassibile a declamare il nuovo ordine. Cattura ed esecuzione dei “ribelli” sono off, anonime. Come i soldati francesi del plotone in 3 maggio 1808 sempre di quel Francisco – Goya – che massacrano i madrileni al tempo della guerra d’indipendenza spagnola contro le truppe napoleoniche.
E in tema di pittura, Millàn-Astray è ben caricato dall’interpretazione di Eduard Fernández come uscisse da un quadro satirico di Otto Dix: spaventa i bambini con l’occhio finto; declama mottetti e slogan; brandisce il guanto bianco in gesti minacciosi. La reazione di Unamuno allorché scopre che il generale è suo superiore al Ministero della Propaganda (poiché, da Rettore a Salamanca, l’accademico è anche Responsabile della Commissione Depuratrice) ne traccia un ritratto icastico:
Chi? Quel mutilato che abbaia più di Mussolini? Quello mi darà gli ordini?
Proprio quello: colui che abbaierà “viva la morte! Morte agli intellettuali”.
Paso doble: Franco e Unamuno
E Franco? Prima di essere il destinatario della lettera di Unamuno, è bollato dall’intellettuale come “un poveretto“; raccontato nel soprannome di Franquito el cuquito (que va a lo suyto, diceva il generale Sanjurjo, alludendo alla capacità del generale di raggiungere, anche sottotono, tutti gli obiettivi personali). Il dramma si gioca in questo contrasto di umanizzazioni: il futuro generalissimo non è militare monolitico, ma un ometto pieno di dubbi, quasi convinto di malavoglia a reggere il Paese; il letterato, più che illuminato vate di Spagna, è un anziano un po’ testone, troppo presto convinto a un manifesto di endorsement verso il potere. Se il silenzio è la peggior bugia, come recita la tagline internazionale del film, è naturale che tutto converga verso quella lettera. Ma non sarà un trionfo dell’eloquenza, quanto dell’umano. Unamuno non arriva intellettualmente, per concetti, a stigmatizzare il nuovo regime; quanto emotivamente, per esperienze. Bravo Karra Elejalde a interpretarlo come amico impotente, che non riesce a salvare gli altri amici; padre severo, burbero esempio alle figlie; nonno amorevole, che deve consegnare un mondo migliore al nipote.
Il discorso finale è una meravigliosa versione filosofica della battuta di Totò all’ufficiale tedesco che gli abbaiava: “badate colonnello! Io ho carta bianca!”. E Totò: “E ci si pulisca il culo!”. Ribellione maccheronica. Nella nobile versione dell’intellettuale spagnolo: vincerete con la forza bruta, ma non convincerete. C’è chi ha tacciato il film di Amenábar di poca emozione, o di esecuzione calcolata. Ma l’emozione è quella di idee come questa. A Lettera a Franco serviva, forse, questo cinema un po’ conservatore, anche accademico, per raccontare la più conservatrice delle tendenze umane: la resistenza al cambio. Ma quando, infine, il cambio arriva, è il trionfo della resistenza.