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Il cinema di Marco Bellocchio: interno/esterno tra pensiero e realtà

Un itinerario nella produzione di uno dei più grandi registi italiani

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Marco Bellocchio, classe 1939, è senza dubbio ancora oggi e forse sempre di più uno degli sguardi più lucidi, acuti e anticonformisti del cinema italiano.

Sempre coraggioso, sempre puntuale, sempre in linea con le sue idee laiche, ha difeso il suo cinema e le sue ossessioni con la forza espressiva dell’arte che parte dall’immagine (vedi i suoi layout/dipinti) e finisce in una messa in scena monumentale, vigorosa, appassionata, virando su toni spesso funerei ma incontrovertibilmente intrisi di immagini oniriche, ma sempre e comunque ancorate fortissimamente alla realtà.

Il suo non è (tanto, solo) un cinema di personaggi ma più che altro di persona, che centra il significato etimologico  che passa dal latino -persona- per arrivare all’etrusco phersu, maschera: i protagonisti dei suoi film sono inquadrati non tanto nella loro sfera umanistica quanto come simboli e pedine dell’esistenza che non può prescindere dalla sua valenza politica.

I suoi film, dall’incredibile esordio con I Pugni in Tasca fino al fluviale Esterno Notte, ( a Cannes 2022) entrano a gamba tesa nella complessità degli argomenti e dei loro elementi essenziali, parlando con la stessa intensità della politica sessantottina fino agli anni di piombo, dai manicomi all’incapacità di essere comune.

I Pugni In Tasca (1965) è un esempio più unico che raro di opera prima perfetta, che in qualunque epoca storica si veda (anche per la prima volta) non smette di avere un’incredibile, sfrontata, paurosa forza concessiva: parte dall’educazione repressiva e frustrante di un giovane borghese e arriva allo sterminio, metaforico e materico, della famiglia come istituzione. Già con questo suo primo film, Marco Bellocchio mette in scena alcuni cardini del suo universo poetico ed umanistico: la famiglia, come visto, ma anche l’inconscio che scivola e si scontra con la realtà, portando a una dimensione onirica, al sogno, che va in frantumi.

Con un film simile, era scontato che le aspettative da lì in poi fossero altissime: due anni dopo arriva La Cina É Vicina, storia di contestazione che non riesce però ad avere lo stesso equilibrio affilatissimo del film precedente, ma non smette ancora oggi di essere importante per la rabbiosa reazione alla corruzione dei rapporti familiari.

Escono poi Amore e Rabbia (1969) Sbatti Il Mostro In Prima Pagina (1972), Nel Nome Del Padre (1972), Marcia Trionfale (1979), che traghettano l’autore negli anni Ottanta, che inaugurano un ritorno del regista nei temi degli esordi da cui lentamente si era allontanato: e torna allora la famiglia in Salto Nel Vuoto (1980) e Gli Occhi, La Bocca (1982), questo seconda parte di un’ideale trilogia che inizia con I Pugni In Tasca e si conclude con L’Ora Di Religione (2001), che mette al centro l’esigenza della separazione dal passato -o meglio, la crescita con i suoi dolori e costi affettivi- e il bisogno di chiudere i conti aperti.

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Sono sempre gli anni Ottanta il periodo in cui Bellocchio incontra e si confronta con Massimo Fagioli, psichiatra noto per quella che lui stesso ha definito teoria della nascita, che ha l’obiettivo dichiarato di individuare in un quadro teorico, le origini e le cause delle patologie mentali, ancorandosi alla fisiologia della nascita e inizio del pensiero umano. Proprio una pratica tipica di Fagioli, quella dell’analisi collettiva (forma di terapia di gruppo scomparsa con la sua morte), può essere usata e calza alla perfezione allo scopo e alla tensione emotiva che corre lungo tutti i film di Bellocchio: che possono e forse devono essere visti come una seduta terapeutica nel buio della sala, collettiva con il pubblico con il quale si condivide la storia umana e geo-politica.

Il connubio di pensiero dei due si consacra con Il Sogno Della Farfalla (1994), scritto proprio dallo psichiatra e fotografato da Yorgos Arvantis, dove si mette al centro l’importanza delle immagini, la loro forza e il loro fortissimo significato simbolico ed emotivo.

Il legame artistico con Fagioli non è privo di contestazioni: da qua l’apparente cambio di rotta con Sogni Infranti – Ragionamenti e Deliri (1995) e Il Principe di Hombug (1997), il primo documentario con quattro esponenti della cultura rivoluzionaria post-sessantottina che racconta lo sfascio delle illusioni, il secondo dalla tragedia Der Prinz von Homburg di Henrich von Kleist. Ma con La Balia (1999), da Pirandello, il regista di Bobbio rimette in primo piano il valore psicoanalitico dei suoi racconti.

Il successivo e citato L’Ora Di Religione è un trionfale picchetto per una nuova fase: uno dei più importanti film italiani degli Anni Zero, tiene in equilibrio perfetto privato e pubblico (cifra stilistica che segnerà tutta la sua produzione successiva) e lega splendidamente un realismo di fondo con un sonnambulismo onirico che lo trasfigura grazie anche ad un tocco di grottesco che sfiora comico e tragico, contenendoli entrambi.

L’Ora Di Religione termina, come si diceva sopra, una trilogia iniziale e riprende, rinforzandoli e attualizzandoli, i temi portanti del primo capitolo de I Pugni In Tasca: la famiglia borghese e sacra ed essenziale ma prossima alla decadenza.

Bellocchio evoca il potere sovvertitore dell’immateriale, quella presenza fantasmatica che si farà centrale nella sua produzione, e che d’ora in poi farà rima con ricordo, memoria, dolore. L’Ora Di Religione tende insospettabilmente un ponte anche con Il Principe Di Homburg, proprio sul terreno di un cinema che si fa emozione sulla e della sospensione, dell’attraversamento dei territori del reale e irreale, formalizzando il momento tra il sogno e la veglia come cifra stilistica.

L’importanza del sedicesimo film del regista sta nello sviluppare e centrare la sua filmografia intorno a forze che non si conoscono ma che manovrano i meccanismi invisibili di un potere immateriale che è impalpabile ed evanescente quanto forte e stabile: gli spazi si intridono quindi da una presenza inquietante e sfuggente, che invade da qua in poi ogni opera di Bellocchio.

Dopo un film così enorme, Bellocchio conferma la sua unicità nel panorama cinematografico consegnando alla storia un’altra pagina fondamentale, Buongiorno Notte.

Che parte, trasfigurandolo, da un verso di Emily Dickinson, e si immerge in quell’aria di sospesa magia inaugurata con il capolavoro precedente.

Dalla luce al buio, dall’esterno all’interno, Bellocchio fa convivere gli opposti nella stessa inquadratura e parola. Buongiorno, Notte comprime lo spazio e comprende 55 giorni nell’occhio di uno spioncino. E non tenta di rievocare la cronaca (lo farà, per altri motivi e con altri modi, vent’anni dopo con Esterno Notte) ma la racconta con il suo sguardo deformante, cambiando le proporzioni della realtà e stabilendo nuovi rapporti.

Uno sguardo libero e rivoluzionario, sganciato dagli schemi della cronaca, teso verso l’immaginazione mentre si fa desiderio e sogno. E riflette allora non sulla verità, non su un caso, ma sull’animo umano.

Dopo un film così enorme, era inevitabile filmare un’opera più piccola, minima, intima: Sorelle Mai (2006), che mescola la famiglia biografica a quella cinematografica, sei segmenti che sono un unico viaggio nell’inconscio e che annullano il limite tra verità e ricostruzione filmica.

E mentre nella “vita vera” Bellocchio si candida alle elezioni per la Camera dei Deputati, parallelamente in sala dirige Vincere (2009), opera tanto densa e intensa da contenere tutta la sua poetica -con la Storia che ci aggredisce e l’invenzione che rielabora i fatti- e che rievoca la storia tragica della prima moglie dimenticata di Mussolini, racconto di un amore segreto e folle: “se non grido la mia verità non ci sarà nessuno a farlo per noi e saremo dimenticati”, dice Ida Dalser al suo psichiatra, e Bellocchio al suo pubblico.

Nel 2012 arriva Bella Addormentata sul caso Englaro, nel 2015 esce Sangue Del Mio Sangue.

 

Due segmenti, due storie differenti, due progetti addirittura girati in maniera distinta: se la prima parte del film nasce infatti come cortometraggio, la seconda è invece pensata come chiusa necessaria, come concatenamento ineluttabile all’oggi di Bobbio. Il cinema di Marco Bellocchio, quello più puro, selvaggio, primitivo, concettuale, nasce e si sviluppa intorno a un magnifico spaesamento costruttivo che nasce dalla storia, dalle immagini, dalle intuizioni spesso geniali, sempre profondamente autoriali, dichiaratamente personali, dei suoi film.

Ma anche dal senso: un senso filmico, teorico, teoretico, che sembra chiaro durante la visione, ma lascia poi il passo al dubbio, alla perplessità, dopo i titoli di coda, per finire con il sedimentarsi in maniera fortissima e prepotente. Certo è che, al suo 25° lungometraggio, Bellocchio non rinuncia a una cifra stilistica perversamente inquieta e inquietante, onirica e tagliente, per un cinema mai conciliato, mai facile, sempre alla ricerca e richiesta, verso chi guarda, di un contributo di elaborazione. E soprattutto, riprende quel tema fortemente sentito che è la malattia mentale: che ha molte facce, e che si aggira -risvegliando la vena più fantastica e/o fantasmatica del regista- nei secoli, fra sogni e superstizione, fra la malattia del vivere e quella del pensare.

Nello stesso anno esce Fai Bei Sogni, tratto dal romanzo di Gramellini, mentre è del 2019 Il Traditore.

Che utilizza, per decifrare la propria contemporaneità, le ossessioni del suo autore: lo spazio e il tempo della parola, il gioco della sessualità, l’ombra della morte, l’allucinazione della follia, la presenza costante della pratica psicoanalitica.

E un gusto, che si è affinato di volta in volta per ogni film, per la sperimentazione e il rischio.

Il Traditore è coraggioso, puntuale e deciso proprio come il suo regista: e inaspettatamente declinato in maniera fortemente, decisamente autoriale, nel momento in cui Marco racconta Tommaso con un’idea ben precisa della messa in scena, puntando la sua mdp come se il set fosse un palcoscenico teatrale e i colloqui del pentito una seduta psicoanalitica.

Questo fin dalla primissima sequenza (la festa di Santa Rosalia del 1980 che vide siglato l’accordo di facciata tra palermitani e corleonesi), con quei flash che illuminano la scena; e poi a seguire con il maxiprocesso nel quale imputati e “traditore” sono posizionati come su palco e proscenio, orchestra e pubblico; fino ai dialoghi tra Falcone e Buscetta- ecco, sembra tutta una magnifica messa in scena teatrale, dove ognuno gioca al gioco delle parti immerso nella storia vista con gli occhi del regista.

Pur senza gettarsi in dispute politiche o teoriche, il personaggio Buscetta è tutto bellocchiano soprattutto nei suoi richiami cristologici, nel momento in cui la religione è affrontata, senza tema di ipocrisie ma neanche di eresia, in maniera sovversiva, e viene in mente allora Borges, con tutta la sua opera e in particolare con Tre Versioni Di Giuda (da Finzioni, 1944), attraversata dal dilemma della fede: Giuda come Buscetta è un traditore, ma è anche un eroe nel momento in cui infrange le regole della “sua” famiglia di appartenenza ripulendo le coscienze degli altri. Questo lo lascia sottinteso, Bellocchio, nel momento in cui Buscetta -lasciato senza il supporto di Falcone ucciso a Capaci- decide di immolarsi definitivamente rivelando ciò che fino a poco tempo prima aveva deciso di lasciarsi dentro.

Il Traditore si presenta allora come un film folgorante e spiazzante, pur se come abbiamo visto incredibilmente coerente con il percorso del suo autore: la famiglia al centro e tutto intorno un mondo, ora fantasmatico, ora dolorosamente reale, dove le varie tipologie di “famiglia” (criminale, parentale, statale) entrano in collisione mostrando somiglianze e dissonanze, nonché contraddizioni ed epifanie religiose.

La mafia non esiste, la mafia è un’invenzione giornalistica: Cosa Nostra si chiama”, dice al giudice, svelando allo spettatore che Il Traditore non è un film di mafia -perché non esiste– ma una rappresentazione di teatro di figura, grottesche, orrorifiche e -ancora una volta- fantasmatiche e gigantesche per vocazione, che inseguono le contraddizioni dell’ignoto essere umano.

Dicevamo prima che il cinema di Bellocchio non è (tanto, o solo) un cinema di personaggi, ma piuttosto storia di persone che parte dal senso etimologico –phersu, etrusco per dire maschera- così da inquadrare i protagonisti come simboli, pedine dell’esistenza che non può prescindere dalla loro valenza politica.

Esterno Notte (il capolavoro del 2023: un film lungo sei ore, o una serie dalla struttura di un film) è fluviale, imponente, prepotente, rutilante, sta qui a dimostrare ancora una volta la incredibile coerenza di un regista che ad 83 anni vince il Premio Innovative Storytelling agli EFA: perché al 26° film in 57 anni di carriera non sceglie ancora la strada più semplice, e decide di raccontare per la seconda volta un fatto di cronaca fondamentale per la storia politica e sociale dell’Italia (il rapimento Moro) seminando tracce e indizi tra immagini e detriti sonori, ricreando ancora una volta la sua dimensione tipo ovvero quella che sta sospesa fra il reale e il sogno, mischiando così realtà e messa in scena.

E creando insieme un balletto tra Esterno Notte e Buongiorno, Notte.

Come abbiamo visto, lì, partendo da un verso di Emily Dickinson, si passa dalla luce al buio, dall’esterno all’interno, si comprime lo spazio di 55 giorni nell’occhio di uno spioncino, si cambiano le proporzioni della realtà stabilendo nuovi rapporti con uno sguardo libero e rivoluzionario, sganciato dalla cronaca, teso verso l’immaginazione mentre si fa desiderio e sogno.

La notte, nei due film, è la stessa a livello diacronico, non semantico: la complementarità non è il rapporto che lega le due opere, perché Bellocchio cerca lo stesso valore semantico in situazioni (di tempo e spazio) diverse.

In questo modo, Esterno e Buongiorno non sono il giorno e la notte, bensì due livelli successivi di una ricerca, collaborando a dare uno sguardo più ampio e più profondo al confronto dello stesso fatto. Sono il particolare e il tutto, piste per l’indagine.

Come sopra, le persone sono al centro della drammaturgia anche per quando riguarda la messa in scena dei dati empirici: che sono inaccessibili per motivi cognitivi (e ci soccorre anche qui l’etimo, istor, perché storia viene da historia che a sua volta discende dal greco derivato di istor, colui che ha visto) ma non è questo il punto, in quanto per Bellocchio non è la storia ad essere problematica ma la sua rappresentazione.

Spesso o quasi sempre impossibile da scindere da “interpretazione di”.

INDIZI DI UN’INDAGINE

Ed ecco che arriviamo agli indizi, alla maestosa costruzione che Bellocchio opera fin dai dettagli, dalle tracce che dissemina nel suo flusso di immagini: dividere rappresentazione da interpretazione è come fare attenzione alla differenza tra allucinazione e trasfigurazione. Incasellare le persone nel loro ambito, nella loro funzione generatrice di senso. Cossiga (un magistrale Fausto Russo Alesi) fissa le sue mani, vedendo delle macchie come Macbeth, convinto che Moro stia fissando proprio lui nella foto mandata ai giornali nei giorni della prigionia. E poi Moro che porta una croce durante una visionaria via crucis, tra i templi dell’antica Roma e seguito da una folla di muti capi democristiani mentre suona il Dies Irae di Verdi.

Il caso Moro che tanto affascina Bellocchio, quindi, non è che un generatore di fantasmi, un punto d’accumulo di una verità storica, una congruenza.

In tutto questo, e per tutto questo, Esterno Notte è un momento di cinema abbacinante, che trasla la vicenda politica e storica in visioni e incubi ancestrali, shakespeariani, cadaveri lungo il fiume, via crucis di una classe dirigente.

Ancora tracce, indizi, pezzi. Schegge.

Il rapporto tra i due film moriani di Bellocchio sono parti di un tutto, e anche all’interno della stessa storia che raccontano non mantengono una compattezza cronologica o espositiva: ogni episodio è dedicato ad una persona, ad un personaggio, disgregando a livello quasi molecolare l’unitarietà della vicenda. Le icone vanno in pezzi, e il racconto per immagini potrebbe essere una detection per cercare un corpo che non si trova.

Se in Buongiorno, Notte accadeva alla fine, in Esterno Notte all’inizio del film la storia trasfigura nell’irrealtà, sfociando quasi nella fiaba morale. È questa insomma per Marco Bellocchio la condizione di inafferrabilità (politica, umana, storica, culturale) di Aldo Moro: che forse si agita ancora sotto la superficie ingannatrice delle cose, è incastrato nelle profondità della Storia, mentre tutti noi lo cerchiamo invano dove non potremmo mai trovarlo.

Il corpus delle opere di Bellocchio è coerente a sé stesso e coeso al punto di essere a tratti impenetrabile in maniera incredibile proprio come la vitalità del suo artefice, che non smette di essere artisticamente pirotecnico ad ogni intuizione filmica.

In questo modo, dopo quello di Aldo Moro, Bellocchio racconta allora un altro rapimento, affondando i denti (come ha fatto diverse volte in passato) nella storia, ma in una storia sospesa tra fatti e libere interpretazioni dei coni d’ombra della cronaca.

E come in Fai Bei Sogni, dove Valerio Mastandrea ricordava sempre il gioco del nascondino con la madre vissuto con la speranza di essere scoperto per essere abbracciato e quindi protetto, in Rapito (2023) il protagonista Edgardo Mortara passa la vita a cercare una protezione che non avrà mai: mai sotto la gonna della madre, che vuole impedire che le guardie papali lo portino via; mai sotto le vesti del Papa che lo nasconde agli occhi dei compagni di scuola; mai sotto le coperte quando recita la preghiera che ogni sera recitava a letto quando viveva in famiglia.

Il rapimento di Rapito è l’esatto speculare di quello di Buongiorno/Esterno Notte: se nel racconto di Aldo Moro l’atto era eversivo, nella storia di Pio IX è emanazione dell’ordine costituito. Eppure, Bellocchio ragiona sempre sulla privazione della libertà non (tanto) come atto di privazione fisica bensì come movimento psichico, ennesima circonvoluzione della mente che riflette nel reale i suoi effetti.

La storia è un inabissamento nell’oblio vischioso della storia, nei suoi chiaroscuri, portando la narrazione in una terra di mezzo, sabbie mobili di fatti accertati, documenti e libere ipotesi dell’immaginazione: niente di nuovo, insomma, se non le ossessioni di un autore che indaga la natura umana sempre con la stessa lente.

Perché il cinema di Marco Bellocchio continua a soffrire splendidamente la fascinazione della potenza delle immagini, un’illusione (il cinema) che si muove tra iconoclastia e venerazione.

Un cinema che è, definitivamente, un racconto del limbo, un paradiso promesso ma precluso, un tumulto eterno della mente e del pensiero che si divincola per trovare pace nella realtà ma non trova la sua giusta prospettiva e posizione. Un diavolo in corpo mai domato, sottile, eterno.

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