Da qualche settimana la piattaforma per cinefili MUBI ha eletto il celebre attore tedesco Franz Rogowski, come “l’uomo del momento”.
Effettivamente da qualche anno il cinema europeo pare molto interessato, ed anche affascinato, sin quasi irretito, dal viso un po’ inquietante, ma nello stesso tempo anche un po’ angelico, con cui il giovane attore, ex ballerino di Friburgo, riesce a rendersi l’interprete ideale di giovani uomini alle prese con dilemmi amorosi e pene esistenziali in grado di catturare.
L’occhio un po’ fisso, a volte quasi catatonico, quel labbro leporino adeguatamente sistemato chirurgicamente in grado, assieme alla bravura intrinseca di interprete, di renderlo quasi un contraltare europeo di quel Joaquin Phoenix, sempre più lanciato nell’olimpo del divismo di primo livello, hanno fatto sì che il bravo attore trentaseienne si facesse notare dagli autori più eccelsi del panorama cinematografico, non solo europeo.
Un talento naturale quello di Rogowski, che può contare su un fisico asciutto, ma flessuoso e muscoloso, frutto certamente di assidui allenamenti nella sua carriera di ballerino, che lo hanno reso adattabile alle più svariate circostanze, perfetto per interpretare svariati ruoli: dalla persona più mite del mondo, al demonio più incorreggibile e sadico.
Non possiamo poi trascurare che Rogowski, al di fuori della sua patria, è stato scelto addirittura da un autore leggendario come Terrence Malick, per un ruolo importante nel suo meraviglioso film Hidden Life del 2019.
Ma anche l’austriaco Michael Haneke lo ha voluto nel cast del suo Happy End del 2017; senza contare che un autore tedesco di punta come Christian Petzold l’ha scelto prima nel 2018 nel suo intenso La donna dello scrittore, per ritrovarlo nel 2020 con il romantico e tormentato Undine.
Proprio durante la scorsa stagione, il nostro Gabriele Mainetti ha pensato a Rogowski per rendere più efficace la cattiveria gratuita e sadica del suo ufficiale SS nella superproduzione Freaks Out.
Per questo ruolo l’attore tedesco si è ritrovato nominato ai David di Donatello, come migliore attore protagonista, sfidando la convenzione di veder relegato generalmente un ruolo da cattivo, al massino nella categoria dei “non protagonisti”.
Per celebrare il bravo attore, e mettere in evidenza alcuni dei capisaldi cinematografici in cui si è distinto, MUBI ha scelto cinque film molto interessanti o almeno originali: alcuni tra essi piuttosto noti, altri delle vere e proprie chicche d’autore, che si fanno forti della presenza del carismatico attore, per risultare opere riuscite o quantomeno assai originali, per non dire eccentriche.
Love Steaks (2013), di Jakob Lass, è il film in cui Franz Rogowski appare per la prima volta come protagonista.
Racconta di un venticinquenne di nome Clemens, che giunge presso un albergo di un certo lusso, in una zona un po’ isolata di una località turistica baltica non meglio precisata.
Man mano che si introduce tra i dipendenti di quel complesso, Clemens si imbatte nella bella apprendista cuoca Lara, una ragazza estroversa e un po’ maldestra che, approfittando della timidezza del suo nuovo collega, da cui comunque è attratta fisicamente, finisce per coinvolgerlo in situazioni imbarazzanti soprattutto nei confronti dei superiori di entrambi.
Il ragazzo comprende presto che Lara ha problemi di dipendenza con l’alcol, che la mette in situazioni pericolose.
Per questo un giorno chiede ai suoi colleghi cuochi di non metterle a disposizione vini e liquori, diffondendo così in modo plateale la notizia del problema che la affligge.
La malignità degli altri addetti alla cucina finirà per causare il licenziamento della ragazza che, venuta a sapere dell’interessamento di Clemens, lo accusa di essere il responsabile della perdita del suo lavoro. I due si affronteranno fisicamente, l’una picchiando, l’altro subendo, seguendo ognuno la propria indole e propensione caratteriale.
Sullo sfondo di una spiaggia deserta di fine stagione, i due, avvinghiati l’uno contro l’altro, scopriranno di essere innamorati, tramutando la propria ira in affetto e baci.
Il regista tedesco Jakob Lass si uniforma ad un movimento cinematografico simile a quello del Dogma di Lars Von Triers, ma di origine americana e tipico dei 2000, noto come Mumblecore, sorretto dai due bravi protagonisti (oltre al citato e bravissimo Rogowski, è attrice professionista la bella e spigliata Lana Cooper, già vista in Noi siamo la marea (2016), in concorso al TFF 34 e Questo sentimento estivo, (2015, di Mikhael Hers)
Il film ha dalla sua un buon ritmo, due interpreti che riescono ad amalgamarsi alla perfezione, ostentando caratteri agli antipodi che finiscono per attrarli in modo simbiotico, rendendo la loro storia, inizialmente un po’ ostica, un percorso amoroso travagliato che riesce a conquistarsi facilmente, ed anche con un certo calcolo, il favore dello spettatore. 6/10
Un altro film, piuttosto poco noto, che fa parte della rassegna dedicata a Rogowski, si intitola Figaros Wolves, ed è datato 2017.
Nella vicenda incontriamo una misteriosa ragazza solitaria chiamata Colette, che vive su un tetto e si nutre di luce. Periodicamente tre balordi che lavorano o bazzicano tra le attività commerciali che il palazzo ospita, salgono sul tetto dove la ragazza “giace” e, con la scusa di fumare nelle pause consentite, approfittano per abusare di lei.
Colette lascia fare, non incoraggia ma nemmeno fa nulla per impedire che i bruti la utilizzino come pura valvola di sfogo. Questo almeno finché, su quello stesso tetto, non appare un altro individuo: un ragazzo in camicia bianca che inizia timidamente a interloquire con lei, guadagnandosi la sua fiducia.
Tra i due nasce un innamoramento contemplativo, che rende entrambi più sereni e realizzati, e che non implica una reciprocità di domande, e relative risposte, sul motivo per cui ognuno si ritrova in quello strano posto che sovrasta il mondo.
Quell’angelo discreto e sensibile si troverà poi pure lui nella condizione di incontrare i tre bruti, finendo malmenato e umiliato dinanzi alla ragazza. Ma non senza riuscire a procurarsi un piano per ristabilire quella giustizia che le rare immagini a colori della seconda parte del film ci inducono a comprendere, circa il drammatico destino a cui è andata incontro la giovane Colette.
Nell’opera d’esordio del regista e sceneggiatore Dominik Galizia, sopra i tetti piatti dei palazzi vivono angeli che assomigliano a quelli sopra il cielo di Berlino di Wenders, e che spuntano all’improvviso per assistere anime misteriose afflitte da cupe storie di sopraffazione.
E il tetto, come un campo di battaglia, diviene il territorio dove si disputa una risoluta battaglia dei sessi, in cui chi sopporta fino alla sottomissione finisce per dimostrarsi molto meno indifeso di quel che sembra.
L’intervento messianico poi finisce per risolvere una volta per tutte quella storia di odiosa sopraffazione e prolungata violenza, che la brutalità del branco esercita con la naturalezza di un diritto acquisito.
Nei panni dell’eroe suo malgrado, un po’ angelo, un po’ uomo qualunque uscito da chissà quale contesto, il bravissimo Franz Rogowski è il valore aggiunto di una strana favola un po’ brutale, un po’ tenera, che trabocca umori cinefili, e forse anche di qualche vezzo autoriale un po’ troppo sfrontato e accumulato un po’ scaltramente lungo il corso dell’esile vicenda. 6/10
Nel 2018 Franz Rogowski è protagonista de La donna dello scrittore, di Christian Petzold.
Un assurdo temporale ci presenta due individui nella Marsiglia di oggi, impegnati a trovare asilo dopo una fuga da una Parigi occupata dai nazisti. Uno ebreo tedesco, l’altra moglie di uno scrittore suicida, di cui il primo ha assunto l’identità per poter entrare nella città portuale, incoerentemente “aperta all’accesso solo per coloro che hanno un visto per l’espatrio, e dunque stanno per partire”.
Una strategia, invero non nuova – basti pensare a molto cinema in costume di Jarman – che consente al valido regista Christian Petzold di rendere ancora più straniante il dialogo tra due periodi distanti nel tempo e nelle modalità di vita, accomunati da una tragedia immane, che in qualche modo ci aiuta a riflettere su uno scenario che potrebbe anche proiettarci in un futuro da incubo.
Da un romanzo del 1942 della scrittrice ebrea Anna Seghers, Transit (titolo originale che riflette la situazione dei soli non residenti ammessi nella città di Marsiglia) si carica di una voce narrante un po’ retrò, capace di rendere ancor più cruciale il divario storico che divide i fatti narrati con il contesto contemporaneo prescelto per la rappresentazione.
La coppia di amanti uniti dalle incognite del destino è poi davvero perfetta: Franz Rogowski, timido ed impacciato, e la folgorante Paula Beer sono perfetti e coerentemente sottotono per rappresentare due anime travolte dagli eventi, che riescono a trovare riparo ed appoggio l’uno nell’altra.
Con questo film Petzold si conferma un regista interessante e solido, forse non entusiasmante né particolarmente spericolato, anche quando, come in questo caso, sceglie di far ricorso a interessanti accostamenti temporali, apparentemente azzardati per accentuare la brutalità fuori luogo di una oppressione che la storia ci ha testimoniato in tutta la sua brutalità ed efferatezza. 7/10
Nel 2020 la bella coppia Rogowski/Beer torna a lavorare con Petzold ne Undine – Un amore per sempre.
Una bella ragazza di nome Undine, di professione storica, è una dipendente comunale della città di Berlino, che si occupa di seguire turisti in una guida virtuale alla capitale, sulla base di un dettagliato plastico che riscostruisce nei dettagli tutte le modifiche architettoniche subite dalla città nel corso del travagliato ‘900.
Quando l’uomo che lei ama le confessa di volerla lasciare, ecco che in Undine si risveglia come un fuoco che finisce per dominarla, influenzato da una antica leggenda da cui deriva anche l’origine del suo nome, attinente ad una mitologia di un popolo assai legato al mistero dell’acqua, a cui ella è legata e dove è destinata a tornare.
Ma il caso vuole che la ragazza, dopo uno sconcerto iniziale, si innamori di un sensibile sommozzatore, cancellando gli istinti omicidi che la legavano strettamente alla sua tradizione.
A quel punto per Undine ci sarà da affrontare un destino ancora più crudele e beffardo, che la destinerà comunque al mondo acquatico presso il quale la donna desiderava tenersi alla larga.
Vittima di una sorta di maledizione, la vicenda di Undine è soprattutto una storia d’amore che Petzold tenta in tutti i modi di tenere “coi piedi per terra”, pure lei come la sua eroina, salvo poi doversi prodigare ad aggiustare la vicenda con soluzioni a sorpresa che non si dimostrano pienamente convincenti, soprattutto data la scarsità di elementi di riferimento utili a collegare la vicenda della protagonista, con quella della leggenda a cui il suo personaggio è indissolubilmente legato.
Christian Petzold, cineasta a tutti gli effetti solido ed affidabile, continua anche con questo film a non riuscire a farsi breccia tra le mie preferenze, mancando una volta ancora di figurare all’interno dei miei eletti ed imprescindibili cineasti imperdibili.
Molto brava, oltre che bellissima, risulta la azzeccata protagonista Paula Beer, mentre nel ruolo del sommozzatore Christoph ritroviamo un attore assai amato dal regista, ovvero Franz Rogowski già apprezzato ne La donna dello scrittore, ma anche fondamentale in film notevoli come Happy End di Haneke, e il bellissimo Un valzer tra gli scaffali. 7/10
Al 2021 risale infine il controverso Luzifer, del regista austriaco Peter Brunner.
Nel bel mezzo di una amena valle montana austriaca, il giovane Johannes vive nella sua ingenuità ed innocenza assieme alla madre, una ex tossicodipendente e alcolista tutta tatuata, che ha trovato in cima a quei monti austeri, a diretto contatto con una natura esigente ma giusta, i ritmi di vita che le hanno consentito di disintossicarsi e uscire da ogni dipendenza.
Il figlio, già adulto ma di animo semplice, vive succube della madre e con la sola amicizia di una splendida aquila ammaestrata.
Quando, nei pressi della baita che li ospita, il ragazzo vede spuntare in volo dei droni che spiano dall’alto, scopriranno che, in quella zona pressoché disabitata, la civiltà ha messo un occhio cinico con lo scopo di sfruttare quel simil-paradiso, per trasformarlo in una zona ad alto sfruttamento turistico.
Pochi giorni dopo il giovane noterà molti alberi della foresta segnati da una pittura che li sceglie come i primi condannati per la riqualificazione commerciale.
A quel punto per quei due esseri solitari, l’avvento della civiltà verrà interpretato come un intervento diabolico, da scacciare con l’utilizzo di antichi riti religiosi tramandato da una cultura popolare forse eretica, ma saldamente legata ai miti naturali e alla potenza della terra, considerata come una vera madre. Fino ad andare incontro a una scelta drammatica e sacrificale.
Prodotto dall’inquietante, ma amatissimo regista austriaco Ulrich Seidl, il quarto film del regista Peter Brunner è incentrato su un morboso rapporto familiare tra una madre ed un figlio entrambi alle prese con i propri disturbi caratteriali, in parte causati forse proprio dall’isolamento in cui hanno scelto di abbandonarsi.
Luzifer è un film che disturba ed inquieta lungo tutto il suo percorso, che non può non terminare in altro se non in una scelta sacrificale non foriera di effetti benefici, né per il nostro devastato ed ingenuo protagonista, né a favore di una natura fino a quel momento incontaminata.
Brunner punta il dito sugli effetti di un credo religioso che pone interrogativi, anziché fornire risposte ad una umanità debole e sempre in bilico verso una autodistruzione scellerata e ben poco lungimirante, propria di una umanità che sa guardare solo entro confini prossimi, senza preoccuparsi di salvaguardare le generazioni future.
Luzifer costituisce, per il bravo attore Franz Rogowski, un’altra occasione preziosa per aggiungere alla sua folta schiera di personaggi vulnerabili ed insicuri, una nuova sfaccettatura di umanità che caratterizza il suo personaggio insicuro e succube di scelte e decisioni altrui, predisposto a trovare nell’attaccamento a un animale (una splendida aquila in questo caso), l’alleato prezioso e indispensabile su cui fare affidamento al di fuori della sua impegnativa genitrice. 7/10