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È reale? di Gianfranco Pannone

L’ora di Napoli

Perché in Campania il cinema ha fatto boom

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film di napoli

Le buone letture tornano sempre da noi. É il caso de La fontana rotta, di Thomas Belmonte, ripubblicato recentemente da Einaudi. Nel 1974 Belmonte, giovane antropologo americano, raggiunge Napoli per studiare la vita quotidiana nei quartieri più disagiati della città e poi trarne quello che oggi è considerato un classico dell’antropologia moderna. Le complesse dinamiche sociali ed economiche, la lotta quotidiana per la sopravvivenza, la mai sopita arte di arrangiarsi: grazie alla collaborazione di una giovane coppia di coniugi con ben sei figli a carico, Belmonte avrà il privilegio di osservare e scrivere “da dentro” la dinamica famigliare di un microcosmo che non appartiene tanto e solo al ben noto sottoproletariato partenopeo, ma desideroso di riscatto in una città, e ancor più nel quartiere in cui vive, spesso ostile con il suo rimanere ferma su sé stessa.

Ho (ri)letto questo prezioso libro con grande attenzione, alla luce di una mia esperienza lavorativa ancora in divenire, la realizzazione di un film documentario sugli ex operai della multinazionale Whirlpool, la cui sede di Ponticelli è stata chiusa nell’autunno scorso in barba agli accordi di governo e alle giuste rimostranze sindacali. Una tragedia a Napoli, perché perdere il posto di lavoro da quelle parti, specie nell’hinterland industriale oggi quasi del tutto dismesso, significa il rischio concreto per tanti suoi cittadini di diventare manovalanza al servizio della camorra. A Napoli e dintorni l’incertezza sociale produce mostri, come ben ricorda lo scrittore Ermanno Rea in un altro libro ormai cult del 2002, La dismissione, che ha visto pochi anni dopo anche una trasposizione cinematografica per la regia di Gianni Amelio. Nel romanzo quasi in forma di saggio, il proletario Vincenzo Buonocore si mostra orgoglioso della sua carriera da operaio specializzato all’Italsider di Bagnoli, ormai in fase di smontaggio. Perché essere operai a Napoli ha rappresentato realmente un punto d’onore, il riscatto da una città plebea di indubbio fascino pasoliniano ma comunque chiusa nei propri vizi, nelle proprie miserie, come è ben illustrato da Belmonte stesso nel suo viaggio antropologico. Sì, malgrado i limiti storici Napoli è stata anche una città proletaria, io stesso vanto un nonno operaio metalmeccanico.

Cosa c’entra tutto questo con il cinema? C’entra eccome se pensiamo a quanta narrazione, anche operaia (ricordate la piccola fabbrica de L’amica geniale dove lavora faticosamente Lila?), si è fatta in questi ultimi anni sulle tante Napoli possibili!

Torniamo a Ponticelli, ormai ex area industriale, quartiere operaio in passato serbatoio di voti per il Partito comunista, che condusse finanche, nel lontano 1976, ad una amministrazione rossa guidata da una figura mitica, il Sindaco Maurizio Valenzi.

film di napoli

Oggi Ponticelli, in passato anche importante area agricola alle porte di Napoli, ha perso gran parte della sua vocazione proletaria e non è un caso che la serie tv Gomorra sia stata girata per buona parte tra i suoi casermoni popolari, non molto diversi, poi, dal più noto “Terzomondo” di Scampia, ben raccontato da Roberto Saviano e ancor prima, a onor del vero, da quel quotidiano “ai margini” che è Cronache di Napoli.

Sia chiaro, a Ponticelli come a Scampia si può anche camminare tranquilli. Lo affermo da testimone diretto perché non amo i luoghi comuni che puntano a etichettare certi quartieri napoletani come dei Bronx inaccessibili. E non è un caso che qualche tempo fa su Gomorra e sul cattivo servizio che questa serie di successo avrebbe fatto all’immagine di Napoli, in città, coinvolgendo intellettuali, politici e semplici cittadini, se ne sia discusso con toni aspri. Mi chiedo ora se tra l’affascinante narrazione “gomorriana” e la Napoli un po’ edulcorata che ci offre sulla tv pubblica quel gran professionista che è Alberto Angela, non esista una terza via.

Sì, una terza via già esiste, e ce la offrono, da diversi anni ormai, non solo alcune letture importanti e necessarie che passano attraverso scrittori (dopo gli indispensabili La Capria, Ortese, Ramondino, i due Rea, De Luca, Moscato…), per così dire, di nuova penna, da Elena Ferrante a Maurizio De Giovanni, da Valeria Parrella a Lorenzo Marone…, ma anche grazie a tanti film, di finzione come di approccio documentaristico, tutti o quasi molto prossimi alla realtà. Esistono, per esempio, registi tra i trenta e i quarant’anni di grande sensibilità, che in questi ultimi tempi hanno raccontato le mille facce di Napoli, specie quella (sotto)proletaria, ma anche, forniti come sono di un acuto sguardo documentaristico, attenti alla grande ricchezza culturale e antropologica della città. Alcuni nomi; Marcello Sannino, Carlo Luglio, Massimiliano Pacifico, Luigi Barletta, Luca Ciriello. E con loro, oltre ai grandi Silvio Orlando, Toni Servillo, Iaia Forte, Teresa Saponangelo, Roberto De Francesco, Andrea Renzi…, penso a tanti attori campani che vengono dalla scuola come dalla strada, non solo di indubbio talento, ma anche finalmente fuori da certi cliché recitativi un po’ sopra le righe, di cui Napoli, città per indole e tradizione teatrale, ha sempre un po’ sofferto, dunque più moderni e maggiormente aperti alle suggestioni che vengono da fuori. Attori, volti, paesaggi di una città dalle mille facce, “pazza” e contraddittoria, certo ancora fuori dal coro malgrado un conformismo sociale sempre più incombente che pure la avvolge. Un piccolo film per tutti, Butterfly, di Alessandro Cassigoli e Casey Kauffman, sguardo dal vero di un talento del pugilato campano, Irma Testa, dove la consueta retorica partenopea è fuor di catalogo.

Aveva cominciato Mario Martone nel 1992 con un magnifico film capace di scardinare i troppi luoghi comuni sulla Napoli “paradiso abitato da diavoli”, Morte di un matematico napoletano, dedicato a quell’uomo fuori dagli schemi che fu Renato Caccioppoli, anche se qualche anno prima era stato Salvatore Piscicelli, regista napoletano oggi un po’ dimenticato, a restituirci una Napoli diversa, persino dai tratti fassbinderiani, con due film tutti al femminile, Immacolata e Concetta e Le occasioni di rosa.

Morte di un matematico napoletano un film di Mario Martone, con Carlo Cecchi

E poi sono seguiti gli altri, anche con percorsi diversi: Antonio Capuano, Antonietta De Lillo, Pappi Corsicato, Stefano Incerti, Enrico Caria, Sandro Dionisio, Paolo Sorrentino, Vincenzo Marra, Francesco Patierno, Leonardo Di Costanzo, Pietro Marcello…, per non dire degli scenografi, dei costumisti, dei direttori di fotografia, degli sceneggiatori, in buona parte passati anche per il teatro, come anche dei produttori, da Luciano Stella a Giorgio Magliulo, da Angelo Curti a Nicola Giuliano, fino a figure fortemente legate al territorio come quella di Antonella Di Nocera; persone, oltre che professionisti seri, caparbie e silenziose, che hanno in modi diversi contenuto i danni di una “fuga da Napoli” dovuta agli stessi limiti della città.

É stato bello quest’anno vedere tanti napoletani tra i candidati ai David di Donatello. E non lo scrivo, da partenopeo un po’ anomalo quale sono, per campanilismo, ma come atto di gioia rispetto a una città, e dunque ai suoi stessi talenti, generosa e creativa, ma soprattutto capace di mettersi finalmente in discussione sentendosi al tempo stessa mediterranea ed europea, senza tralasciare la propria specificità umana. Napoli ne ha viste veramente tante lungo la sua infinita storia, e mi piace pensare che le amorevoli parole a lei dedicate da Pierpaolo Pasolini sul suo essere coriacea rispetto alle sirene del consumismo, oggi abbiano ancora un senso. E se è vero che quasi tutta Spaccanapoli è diventata da un po’ di tempo a questa parte un faticoso bazar del turismo di massa, è anche vero che la nostra Partenope è sempre stata una città a “gambe aperte”, grande puttana capace di accogliere chiunque, ma ostinatamente orgogliosa della sua forza, della sua unicità. Su questo si regge da sempre la mia Napoli, “città porosa” e per questo laicamente aperta al nuovo, sebbene chiusa in modo drammatico nel proprio guscio esistenziale di capitale ferita a morte.

Forse per contenere tutto questo magma benefico, nella terra di Giordano Bruno e di Giambattista Vico oggi orfana di una mente lucida come quella di Aldo Masullo, manca piuttosto un filosofo della contemporaneità che abbia lo spessore di uno Slavoj Zizek, capace di condurre acutamente il pensiero umano fuori dagli stereotipi, restituendo un’idea o finanche una idealizzazione della città finalmente fuori dalla stucchevole autoreferenzialità che certe volte l’ha condannata e la condanna, in modo inverso alla sua grande storia, a una dimensione provinciale. E non escludo che da qualche parte a Napoli e nei suoi dintorni una figura così prima o poi sbuchi fuori.