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‘L’Îlot’ di Tizian Büchi, un fiume di sguardi. Intervista al vincitore del Visions du Réel
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3 anni agoon
Un fiume, due sentinelle, un mistero. Tanto basta, almeno in partenza, al regista svizzero Tizian Büchi per girare un film: L’Îlot (Like an Island), vincitore del Grand Prix all’edizione 2022 del Visions du Réel di Noyon. Tra documentario e finzione, la formula intermedia è brillante e inafferrabile: un cinema del realismo magico. Per larghi tratti, è un’autentica perlustrazione: la Vuachére, corso d’acqua che bagna Losanna, è foce di storie. Sussurri di paese, album di comunità, invenzioni, cartoline, fantasie. Lì, nel quartiere delle Faverges, tra le case anni ’60 degli immigrati, per lo più lavoratori ferroviari, e il limbo della riva del fiume – quasi tunnel alla Stalker di una dimensione altra – scorrono le riflessioni ad alta voce, di biografia e filosofia spicciola, dei due protagonisti Daniel (dal Congo) e Ammar (dall’Iraq).
Non meno scorrevoli le chiacchiere di cinque amiche ispanofone, che sorseggiano birra in giardino intrattenendosi con leggende metropolitane di amanti scomparsi al fiume e bande rivali. E poi, gli anziani al balcone: la strada è uno spettacolo. O i bambini che passano di bocca in bocca un sentito dire di malefatte, proiettando sull’innocuo vicinato la loro voglia di avventura. Intanto, in riva al fiume sosta una coppia misteriosa: perché il mistero, appunto, serve. Per stanare le storie e accendere gli sguardi di chi abita. Come e perché sorvegliamo i territori? Chi ci guarda? E come guardiamo i territori che abitiamo?
Docufiction di sguardi plurali, con la sua geografia familiare L’Îlot di Tizian Büchi fa della sorveglianza il campo di una sottile riflessione e del territorio un campo di energie. Ne abbiamo parlato col regista.
Il trailer
L’intervista: Tizian Büchi racconta L’’Îlot
INCONTRARSI TRA IMMAGINAZIONE E REALE
Prendo spunto dal titolo del tuo film per una riflessione sul cinema del reale. A lungo si è pensato al documentario come a un’isola di realtà, che non potesse ammettere nulla di finto o inventato. L’Îlot sembra il film perfetto per dimostrare come questo confine tra realtà e finzione sia diventato sempre più fluido. Come hai fatto a realizzare un’opera che è stata definita un misto di documentario e favola?
Mi piace questo mix di documentario e finzione. Quando scrivo film di finzione mi è difficile non essere noioso. Mi accorgo sempre più che il documentario è pane per i miei denti, perché mi dà la possibilità di incontrare le persone e le loro storie. È così che comincio, in genere: incontro gente in un territorio specifico. Una volta trovato un luogo che mi attrae, proseguo, e incontro altra umanità.
Quali sono stati gli incontri che hanno generato L’Îlot?
Sia quello col territorio, sia quello con i due protagonisti. Il primo è Daniel, che fino a dieci anni fa faceva il controllore vicino Losanna. L’ho visto fare questo lavoro con un piglio che mi è subito piaciuto: era autoritario, ma sapeva anche creare un feeling con la gente. Il secondo è Ammar, di origini irachene, che è stato mio coinquilino per tre anni. Sul territorio, poi, ho incontrato altre persone con cui ho parlato.
L’Îlot, Daniel e Ammar (fonte foto: Alva Film)
L’idea di aggiungere della finzione è venuta solo dopo. Il primo elemento finzionale è consistito nel fare dei due protagonisti delle guardie di vigilanza, cosa che non sono nella realtà. Un altro aspetto fittizio riguarda i due personaggi sulla riva del fiume, che si vedono sia all’inizio che alla fine, e costituiscono volutamente delle presenze indecifrabili. Non le ho del tutto inventate io: vengono dai racconti della gente. Ho chiesto alle persone di inventare storie su quello che può succedere presso il fiume.
COSÌ VIGILI, COSÌ VICINI
Quando un regista fa degli incontri da cui può nascere un documentario, esplora le persone come fossero territori, con uno scrupolo di analisi della realtà. Perché, invece, all’atto di “esplorare” Daniel e Ammar li hai “travestiti” irrealmente da vigili?
Perché la vigilanza è uno dei temi del film. È una forma di sorveglianza e controllo, ma spesso in Svizzera la si applica per lo più per evitare che qualcuno si lamenti del fatto che non sia attuata. Così, Daniel e Ammar sorvegliano assurdamente un fiume dove non succede niente, ma questo genera anche un senso di mistero. C’è una forma di vigilanza, però, che è anche vicinanza. È così che lavorava Daniel da controllore, con severità, ma anche con un’umanità che non poteva suscitare odio. Nel film, questo carattere è tradotto nel farne un angelo custode, sempre in ascolto della comunità. Il suo modo di essere, di parlare, di vivere mi ha molto influenzato, e lo stesso vale per Ammar.
Esiste un concetto di “personaggio spalla” nel cinema documentario, che è cinema del reale?
Ammar è più giovane di Daniel e non capisce le dinamiche di controllo, quindi si può definire, in effetti, un personaggio perfettamente complementare. Entrambe sono fantastici e ho davvero cercato di farli conoscere allo spettatore. L’unica vera invenzione che ho escogitato è stata quella di farli vestire con le divise di sicurezza, ma per il resto i racconti di vita dal Congo o dall’Iraq sono assolutamente veri.
Estremamente interessante, a proposito di cinema del reale: un dispositivo di finzione – il finto controllo del fiume – come modo per accogliere ancor meglio storie di vita vissuta.
Esatto.
GEOGRAFIA FAMILIARE
Capisco che una trovata del genere abbia colpito la giuria del Visions du Réel. A proposito di impatto, vedo che L’Îlot iniza con una citazione da un’opera di Loyse Pahud che s’intitola Les Trous, À la recherche d’une géographie familière, in cui si legge che «il n’y a de trou que si l’on regarde d’en haut» (non c’è buco se non si guarda dall’alto). Ho letto che è uno studio del 1981 su come la gente guarda e giudica il proprio territorio e su come lo fanno gli altri, nonché sull’incidenza delle ideologie su questo sguardo. Si può dire che anche la geografia familiare – il territorio visto dalla sua stessa comunità – sia tema portante de L’Îlot?
Sì, certo. È un ritratto in dialogo di Ammar e Daniel, ma anche del territorio, di questo luogo. Abbiamo trascorso sul posto, nel quartiere delle Faverges, due mesi in due momenti diversi dell’anno. Camminavamo per il territorio e incontravamo persone per comporre il ritratto di questa geografia. Eravamo in questo trou, buco – a proposito, ho visto il bellissimo film Il buco di Frammartino! – che definisco tale perché Losanna è fatta così fisicamente: è in depressione per il lago di Neuchatel. Per questa sua particolare altimetria, puoi vedere tutto intorno il lago e le montagne, classico paesaggio perfetto della Svizzera.
È anche a causa di questo paesaggio che i prezzi degli affitti sono alti. Tuttavia, a Faverges non c’è un paesaggio del genere. Il distretto nasce piuttosto come zona abitativa, più o meno dagli anni ’50, destinata ai lavoratori ferroviari, perché nei pressi c’è la stazione. All’epoca erano soprattutto italiani e spagnoli; certo, anche svizzeri. Tuttora resta uno dei quartieri di Losanna dove permane più immigrazione.
Permettimi di trovare questa idea sovversiva nella sua semplicità. Ci sono documentaristi che diventano esploratori dell’esotico, del particolare, dell’insolito. È forse anche parte del pubblico cinematografico a spingere per il posto incredibile, per la storia incredibile. Tu, invece, nativo di Losanna, filmi un ordinario quartiere della tua città e ne fai un film di realismo magico. Insomma, hai cambiato sguardo, più che scegliere un territorio.
Devo dire che ho iniziato L’Îlot quando sono tornato a Losanna dopo essere stato sei anni a Bruxelles per studi. È stato come riscoprire la mia stessa terra. La cosa che mi ha attirato, in particolare, è stato uno specifico punto del fiume. Ci sono parti dove è bellissimo passeggiare, ma anche altre che sono più nascoste e non c’è nemmeno un sentiero. Tocca a te trovare dove camminare, con l’acqua che passa sotto il ponte. Possono essere posti bellissimi, dove fare l’amore, ma anche drogarsi. Ad ogni modo, materia di tante potenziali storie. Il punto di partenza del film è consistito nell’andare dalla gente per fare domande su questo posto. È così che è diventato esotico, magico: facendone un luogo in cui possono succedere cose. Alla fina hai ragione. È un modo di vedere un luogo con occhi nuovi o rincantarsi.
STORIE DI PASSAGGIO
C’è però anche uno sguardo di mezzo, che non è né quello dei forestieri, né quello dei nativi. Si tratta di quello degli immigrati. È suggestivo considerare il quartiere anche come una sedimentazione delle loro storie.
Il mio obiettivo iniziale non era di fare un film sull’immigrazione, ma c’è tanta gente qui che viene da altrove. Sia Daniel che Ammar sono immigrati da varie generazioni, ma più in generale mi colpisce il fatto che la gente vada e venga. Non tutti gli immigrati tornano nel paese di origine, intendiamoci; ma molti lo fanno. Penso ai portoghesi dopo i 65 anni. Ecco: questo per me è importante. Sono vissuti qui e in qualche modo le loro storie restano. Sono come tracce. Tutta la gente che viene e che va, generazione dopo generazione, ha marcato il territorio. Il film è anche un omaggio a loro, un modo per trovare l’energia di tutti quelli che sono passati.
TERRITORIO MULTISTRATO
Come si scrive un film come L’Îlot, un film da “trovatori”? Rispetto al documentario di osservazione da un lato, o al film di finzione integrale dall’altro, il processo di scrittura “ibrido” si suppone alquanto complesso.
Prima di iniziare, come ti dicevo, sapevo che i miei punti di riferimento sarebbero stati il territorio, Daniel e Ammar. La pista delle tracce, dell’energia della gente, l’ho trovata in seguito. Ho così deciso di chiamare quel bio-geologo, che si vede parlare appunto delle energie che abitano il luogo. Ne avevo consultato anche un altro, ma mi sembrava troppo attratto da fantasie e cose inesistenti. Il bio-geologo che parla nel film, invece, racconta il territorio nella sua effettiva geologia, pur aprendo a elementi di natura fantastica. Mi piace giocare con tutti questi livelli. Conoscere un territorio è sentirne i differenti elementi: la geologia, la vegetazione, gli animali, la gente, le storie, i racconti. Sono tutte energie. Non so se spirituali sia la parola giusta, ma mi va di usarla. La presenza della gente passata di qua è importante per un territorio come questo.
Ma ci sono anche presenze che hai scelto di evocare tu. Per esempio, quei due personaggi enigmatici in riva al fiume, mistero nel mistero. Perché?
Avevo incontrato questi due ragazzi, che si vedono all’inizio e che ritornano durante tutto il film, fino alla fine. Si tratta di due studenti della scuola di danza di Losanna. Ho visto una loro pièce che mi era piaciuta molto ed è stato naturale pensare che nel film ci stessero benissimo. All’inizio li vediamo proprio al fiume. Quest’ultimo è davvero un crocevia di storie. La gente mi ha raccontato di storie d’amore al fiume, di rivalità tra le due parti del territorio. Se ne parla anche nel libro di Loyse Pahud. Ma è per lo più la gente anziana che ne narra. I giovani non sanno di questa rivalità tra vicini. Loro si figurano scontri con altri quartieri popolari della città. Ma anche questa è fantasia. In fondo siamo in Svizzera, non a Parigi. Qui è tutto molto più calmo.
PICCOLI BRIVIDI
Ecco, a proposito di livelli. Un altro gioco di livelli è quello delle generazioni. Gli anziani lavorano di memoria, i bambini di fantasia. Hai riservato uno sguardo fresco e attendo alle bande di ragazzini. Il territorio diventa qualcosa di diverso, di mutante, nei loro occhi.
Sì, certo. Le vecchie generazioni parlano di cose sul territorio che non si vedono più. Ricordano come il fiume fosse davvero alla frontiera della città, e che dopo ci fosse solo natura, solo fattorie. Quello che mi fa sorridere sui ragazzi è che a loro piace pensare che questo sia un luogo da duri, che ci siano storie di droga e cose così. Un po’ è anche vero, la polizia interviene per qualche caso di violenza domestica o di spaccio. Ma io ci vivo e posso dire che non me ne accorgo mai. Per i ragazzi invece è importante, come se fossero al Neuf Trois (distretto 93 di Parigi, ossia Seine-St-Denis, periferia ad alto tasso di criminalità, n.d.R.). Ne vanno orgogliosi.
IN ASCOLTO DELLE STORIE
C’è un altro gruppo su cui ti focalizzi con decisione, anche se in un’unica, lunga scena auto-conclusa: il gruppo delle donne ispaniche e latino-americane. È un cinema da tavola, da cortile; lo spettatore è seduto con loro, partecipa alla conversazione. Hai costruito quella scena sfocando gli sfondi, ci concentriamo solo sulle donne. Perché tanta attenzione?
Ho rivisto più volte quella conversazione e la trovo molto emozionante. È esemplare del lavoro tra finzione e realtà. Ti spiego come abbiamo proceduto. Una delle donne, Luna, racconta una storia che ho inventato io, quella di una ragazza che si ritrova col ragazzo dall’altro lato del fiume. Dopo, però, le donne dovevano improvvisare, ed è quello che hanno fatto. Hanno raccontato fatti veri collegati sempre al tema della sorveglianza e della relazione con i loro territori: Spagna, Cuba, Colombia, Messico. Hanno parlato liberamente e io le ho ascoltate. È stato tipo: proviamo a farle parlare e vediamo che succede. È stato molto forte perché hanno detto cose diverse da quelle di Ammar e Daniel. Ammar probabilmente vive esperienze simili ma non saprebbe tradurle in parole.
UN BALCONE SUL MONDO
A quanto pare, una dote necessaria per girare un film come L’Îlot è quella di saper mettersi in ascolto. C’è una scena in cui un’anziana signora spiega che preferisce stare al balcone anziché vedere la televisione. Dal balcone, osserva la vita della comunità. Mi è sembrata quasi un’involontaria metafora delle finestre sul mondo che aprono i documentaristi. Hai avuto anche tu i tuoi “balconi”, cioè, dei punti di osservazione strategica per scoprire fatti e storie del territorio?
Questa domanda mi fa sorridere perché ho parlato della faccenda del balcone a una mia amica, regista sudafricana di Johannesburg, e lei mi ha detto che stare sul balcone e guardare è un modo per non far parte della società. Per le persone anziane per certi verso è vero. Per loro guardare è come assistere a uno spettacolo. Andare per strada e parlare con la gente è qualcosa che non farebbero, preferiscono il balcone. Ma questo non è assolutamente un film di cinema diretto, nel senso di un documentario di osservazione. Abbiamo passato tanto tempo sul posto e osservato senza macchina da presa. Abbiamo incontrato gente; l’abbiamo fatta parlare. Poi sono emersi posti specifici importanti per raccontare la storia, come la strada sotto il balcone oppure la rotonda. È interessante, però, che io li consideri come location, più che posti da osservare.
L’Îlot, una rotonda nella notte alle Faverges (fonte foto: Alva Film)
Trovi che alcuni posti del quartiere siano visivamente “cinematografici”?
Visivamente il quartiere mi piace, è molto bello. Ha case vecchie, degli anni ’60-’70, e tanto verde. Ci sono molti posti che mi attiravano. In alcuni di questi tornavo più volte perché sapevo chi abitasse dove. Ero molto attirato anche dai grilli di notte. Bisogna davvero saper ascoltare tutto.
MYSTERY RIVER
Per ascoltare, serve qualcuno che parli. Due anni fa intervistai Francesca Mazzoleni, vincitrice proprio del Visions du Réel, su Punta sacra, girato all’Idroscalo di Ostia. Realizzando un documentario lì, è naturale che sia entrata in contatto con la comunità e abbia passato tanto tempo in zona. Per i documentari di osservazione o immersione, però, il progetto è chiaro e si può avvisare la comunità delle proprie intenzioni. Tu, invece, da trovatore di storie, da miscelatore di finzione e realtà, cos’hai dovuto dire alla comunità per far parlare le persone, per interagire?
Il film cambia pelle con situazioni diverse. Prendi una scena apparentemente banale di una ragazza che suona la chitarra al fiume. In quel caso sono semplicemente andato da lei e le ho chiesto se potessimo fare delle riprese con due ragazzi che le avrebbero rivolto la parola, e così è stato, senza alcuna indicazione. In altri casi abbiamo improvvisato finzioni. Ci sono poi stati dei momenti in cui abbiamo seguito Daniel nelle proprie interazioni spontanee con la gente. Ma fai bene a chiedermelo. È una domanda che non mi ha mai lasciato anche nel montaggio. Con la comunità abbiamo lavorato usando una domanda aperta: “cosa è successo al fiume?”. E non abbiamo mai detto a nessuno cosa sia davvero successo. Abbiamo solo creato un senso di mistero.
Sembra una strategia da happening artistico, con l’intento di suscitare una reazione nel pubblico facendone il protagonista. Alla fine, però, visto che non viene mai rivelato cosa succeda al fiume – niente, in realtà – qual è stata la reazione delle persone?
Intanto, devo dire che all’inizio per Daniel e Ammar non è stato semplice, perché anche loro mi domandavano cosa rispondere quando la gente avrebbe chiesto spiegazioni. Dopo un po’, però, abbiamo girato anche delle scene totalmente diverse in cui toccava a loro raccontarsi, e lavorare è diventato più naturale. Nella parte finale, abbiamo girato una scena con la gente del quartiere che cammina fino al fiume (mostrata nei credits, n.d.R.), seguendoli con la macchina da presa. In un certo senso la gente aspettava di arrivare al fiume e finalmente capire quale fosse il soggetto del film, perché non c’era niente di chiaro. Ma va bene così: ancora oggi possono usare l’immaginazione. Certo, alcuni erano delusi dal non avere avuto una risposta, ma per me è stato interessante. La maggior parte del quartiere non ha ancora visto il film, ma entro un mese lo vedranno e ne capirò le reazioni.
L’Îlot: l’oscurità, il fiume, la natura come dimensioni del mistero (fonte foto: Alva Film)
THE WATCHER: LA MISSION DEL REGISTA
Chiudo con una domanda sul ruolo del regista. C’è una scena in cui Daniel spiega ad Ammar il lavoro di sorveglianza al fiume: “your mission is clear. It’s to watch”. Nei sottotitoli in inglese vien fuori questo curioso gioco di parole, perché to watch è usato come sorvegliare – lo sentivo anche dall’audio francese – ma vuol dire anche osservare, guardare. Quale pensi che sia la tua mission da documentarista? Solo to watch, o anche intervenire nella realtà che filmi per modificarla?
Dipende dalle fasi del film. All’inizio mi limito a guardare dall’esterno. Ho bisogno di una relazione con la gente e mi piace costruirla passando molto tempo ad ascoltare. Lo faccio anche per la radio. C’è però anche una forma di intervento sulla realtà, che consiste nell’usare elementi e racconti provenienti dal territorio per metterli in dialogo, provocare situazioni. Ad esempio: fare di Daniel e Ammar due vigili; o ancora, inserire i due ballerini nel quartiere come personaggi fittizi e vedere cosa possa succedere. Come vedi, il mio ruolo è mutevole. Se c’è una cosa che ho imparato col mio corto di fine studi (La saison du silence, 2016; n.d.R.) è che l’esperienza di girare un film deve essere importante. Così, anche se il film non funziona, almeno posso dire di aver avuto incontri interessanti.
PROGETTI (SEGRETI) PER IL FUTURO
Vale anche per me. Anche se qualcuno dovesse trovare brutta questa intervista, potrei dire di aver trovato interessante l’esperienza dell’incontro. Progetti per il futuro?
Non è facile parlarne. Sono ancora a uno stadio preliminare. Uno dei progetti che ho riguarda un film nel Jura, al nord della Svizzera. Per ora si chiama Il segreto. Tratta di un modo speciale di curare le ferite in grado di fermare il sangue che scorre. Viene utilizzata una tecnica antica che viene applicata al telefono. Queste pratiche, però, sono state a lungo proibite. È più un film di finzione che un documentario. Ma come ti ho detto, quando scrivo dialoghi, trovo di essere noioso. E allora mi fermo, e magari cerco di incontrare persone. Trovo comunque stimolante l’ambiente di quella parte della Svizzera.
Auspico che i lettori abbiano trovato stimolante questa intervista. Ti ringrazio e ancora complimenti per la vittoria al Visions du Réel.
Grazie a te.